Pia Valentinis, nata a Udine ma residente da anni a Cagliari, è un’illustratrice di libri per bambini e ragazzi molto affermata – nel 2012 ha vinto il Premio Andersen, insieme a Mauro Evangelista, per il loro libro “Raccontare gli alberi” (Rizzoli).
Ferriera è il suo primo graphic novel, una trama sentimentale di delicati e sottilissimi tratti neri capaci di restituire intensità emotiva a un racconto privato. Spesso il fumetto, soprattutto negli ultimi anni (fra gli altri Gipi e Zerocalcare), si costruisce a partire da una storia privata e personale e da questa procede a dipingere i contesti sociali e politici nei quali è ambientato, come cerchi concentrici attorno a un sasso lanciato in uno stagno.
Attraverso la vita del padre la Valentinis ci racconta cinquant’anni di storia italiana vissuta da un operaio della provincia e, a partire dal titolo, il lavoro in fabbrica si delinea come tema portante del racconto. Valentinis Mario, nato ad Udine nel 1928, segno zodiacale toro, attrezzista laminatoio.
“mio padre.”
Il racconto è sfacciatamente autobiografico: la seconda tavola ritrae Pia china sulla sua scrivania intenta a ricordare («c’è stato un periodo in cui mi sono vergognata di lui») e piano scivola nella memoria lontana, nei dialoghi col padre, stralci di quotidiano condiviso.
Le cose più piccole e leggere – forse– sono quelle che più facilmente galleggiano sul ricordo, quelle che nell’assenza si fanno spazio con maggiore urgenza.
«Ricordo il suo odore come un misto di sudore, fatica, vino, nazionali senza filtro, ferro infuocato e fumo oleoso.
La sua voce, quella, non la ricordo più».
Con questa dichiarazione si penetra nel vivo della rievocazione della figura di Mario. La sua storia è quella di molti italiani nati fra le due guerre: l’orto, il bar, il vino, la pesca, la briscola, la schiscetta con il pranzo, il «Corriere dei Piccoli». Figlio di un operaio morto sul lavoro e di una donna molto pia («fino all’ultimo volle bere solo acqua santa: san Benedetto, San Pellegrino, Sangemìni»), a quattordici anni Mario diventa il capofamiglia.
Lavora in fabbrica: operaio saldatore in un’acciaieria di Udine.
Il Lavoro appare come l’impiego di un tempo che piano piano va acquistando dignità, passando attraverso la scelta durissima di emigrare (Mario lavora in Australia fra il 1960 e il 1963) e poi le rivendicazioni della corporazione operaia.
Di fabbrica ci si ammalava e si moriva: Mario ha un enfisema e la silicosi e per alleviare i fastidi respiratori cammina nella bora.
Anche oggi si muore di fabbrica ma, per di più, il tempo che viviamo appare come un inanellarsi di attimi presenti e vuoti, in una corsa tesa a fagocitare il presente che è ansiogeno e instabile.
Quando la Valentinis disegna suo padre ci racconta invece di un uomo pieno di speranza, coi piedi nella terra, che sa cosa sono le cose giuste, fiero di fare parte di una classe capace di aggregarsi e rivendicare e consapevole di lavorare per garantire ai propri figli un benessere maggiore rispetto a quello che a lui è stato dato in sorte. Mario vive negli anni del boom economico e partecipa del processo di ricostruzione e di industrializzazione che si contrappone in maniera antitetica al nostro presente, alienato e spersonalizzante.
Mario conosce Clelia, la madre di Pia, nel bar del paese dove il giovedì sera andavano a vedere Lascia o raddoppia. Le promette amore ma nel 1960 si imbarca da Trieste per Melbourne, dove raggiunge un cugino. Durante i trentatré giorni di navigazione studia l’inglese.
Vi rimane tre anni, fra il 1960 e il 1963, partecipando all’intenso flusso migratorio che porterà lavoratori dal Friuli all’Australia. Inizia lavorando nelle piantagioni di tabacco, prosegue in una fabbrica.
Tutto è faticoso: gli insetti, il lavoro nel campo, la lingua, la moneta, l’unità di misura. Ma ci sono alcuni connazionali nella sua situazione, persone con le quali si può mescolare il dialetto friulano all’inglese e con cui cacciare conigli per mangiarli con la polenta.
Ogni settimana, anche durante il viaggio di ritorno sulla nave, Mario ha scritto una cartolina alla sua famiglia.
Mario torna a casa, è il 1963 e ricomincia a lavorare nelle acciaierie. Poco dopo rimane traumatizzato dalla morte in fabbrica, sotto i suoi occhi, di un collega rimasto schiacciato da un carrello trasportatore.
L’Italia sta lentamente cambiando, siamo alla metà degli anni Sessanta. L’orgoglio per il proprio lavoro operaio – che era infernale ma che loro sapevano fare – era un collante potente. Le rivendicazioni operaie che prendevano la forma di lunghi cortei per la sicurezza, di quelli che rendevano «i piedi in fiamme e il cuore leggero».
Il libro della Valentinis è un’ode d’amore per il padre e contemporaneamente un tributo alla classe operaia.
Ma c’è di più: se letto da chi nel quotidiano prova a risemantizzare la categoria di “lavoro” qualcosa brucia e stride.
Questo processo di risemantizzazione della categoria di “lavoro” è qualcosa che scava nella pelle, nella carne, in un tentativo che incide in maniera talvolta brutale sulle scelte più intime della storia personale e che coinvolge tutti i lavoratori “precari”. Li chiamo così consapevole che la categoria sia ormai tanto abusata da apparire banale ma non trovo altro termine che includa tutti.
Perché è il racconto di qualcosa che non c’è più, della garanzia di appartenere a una classe, di avere un referente politico capace di ascoltare e di accogliere, di sapere che il lavoro può essere fonte di orgoglio e non di disperata lotta solitaria, senza compagni e senza interlocutori. Quasi pure senza nemici.
Pia Valentinis
Ferriera
Coconino Press, 2014