L’antropologia negativa di Philipp Meyer: Il figlio

Una lettura in chiave antropologica de “Il figlio”, ultimo romanzo dello scrittore americano Philipp Meyer, finalista al Pulitzer 2014, uscito per Einaudi nello stesso anno.

Il figlio è un romanzo dal marcato carattere etnografico e antropologico. Basta guardare alle numerose pagine in cui il principale protagonista, il colonnello Eli McCullough, descrive dettagliatamente la vita quotidiana dei Comanche presso i quali ha vissuto per molti anni, la struttura sociale delle loro bande, i rapporti tra i sessi, le tecniche e le tecnologie a loro disposizione. Pagine che derivano evidentemente dalle decine di studi antropologici sulle culture native nordamericane e sui Comanche in particolare che l’autore ha consultato in vista del libro. Non è solo una descrizione articolata quella presentata in questi passi del romanzo, ma una vera etnografia densa alla Clifford Geertz, con frasi in lingua comanche (che l’autore ha studiato appositamente), che ci offre un tentativo antropologico in senso pieno di cogliere e rappresentare il punto di vista nativo, la visione indigena della vita, della terra, della guerra, dei loro nemici. Una descrizione che, a differenza di molti altri resoconti anche accademici, non nasconde affatto i lati oscuri e violenti della società nativa. La ferocia dei Comanche nei confronti dei loro nemici bianchi viene, anzi, più volte ribadita ed enfatizzata, così come non viene risparmiato alcun dettaglio nella descrizione del furore speculare dei coloni bianchi nei confronti dei nativi e dei messicani.

L’indugiare quasi compiaciuto dell’autore sulla violenza sadica dei suoi protagonisti nativi e bianchi sembra trarre ispirazione dal neo-western di Cormac McCarthy, ma deriva direttamente dall’“antropologia negativa”, dalla visione pessimistica della natura umana di Meyer, il quale sembra voler mostrare, con la sua narrazione, come la storia dell’America – e dell’umanità – sia intrisa di sangue e fondata sulla rapina e sulla guerra, come l’autore ha dichiarato in diverse occasioni.

Da parte dell’antropologo che è in me (per quanto non sia un esperto di nativi americani), permangono dei dubbi riguardo all’estrema ferocia del Comanche descritta nel libro, quanto meno perché le testimonianze storiche a riguardo sono state scritte dai bianchi. D’altra parte, per quanto forse eccessivamente enfatizzata, l’attenzione per la faccia oscura del mondo amerindiano ha il merito di demistificare l’immagine – altrettanto ideologica e falsa – del nativo americano come “buon selvaggio”. In quest’opera di demistificazione Meyer si avvicina al lavoro di antropologi come Eric Wolf, la cui magistrale storia antropologica dell’espansione del capitalismo (L’Europa e i popoli senza storia, 1982) e dei perversi intrecci e complicità tra coloni e nativi, che hanno segnato la drammatica conquista del Nuovo Mondo, sembra trovare nel romanzo una perfetta illustrazione narrativa.

Tra i vari personaggi e voci narranti di questo romanzo polifonico è senza dubbio il Colonnello a ritagliarsi lo spazio maggiore. Il colonnello Eli McCullough è un personaggio fuori misura, un’evidente incarnazione del “briccone divino”, del trickster, la più affascinante tra le figure della mitologia amerindiana. Nelle cosmogonie native, il trickster è l’eroe culturale per eccellenza, il fondatore della civiltà stessa, ma è anche una figura ambigua: spesso presenta tratti umani e animali insieme, è all’origine della cultura e di società ma è allo stesso tempo selvaggio e amorale, perché è proprio con le sue azioni illogiche e assurde che il briccone divino finisce per dar vita alle leggi e alle istituzioni sociali. Un eroe, quindi, insieme selvaggio e civilizzatore, esattamente come il colonnello McCullough. Personaggio, quest’ultimo, decisamente ambiguo: affascinante, senza dubbio, ma amorale: al di là del bene e del male come i trickster amerindiani, esseri amorali perché vengono prima delle leggi e dell’etica. Come loro, McCullough è ambivalente, a cavallo tra due mondi: in questo caso tra il mondo bianco dei pionieri, da cui viene rapito con la forza da giovane, e il mondo nativo delle nazioni indiane. Violento e spietato, il Colonnello è capace di infrangere ogni regola di morale e di buona condotta, ma allo stesso tempo contribuisce a fondare la “civiltà”: quella dei coloni bianchi in Texas, prima in quanto proprietario terriero e poi come petroliere. Sotto questa luce, vedendolo come un trickster, ispirato alla mitologia indiana, è possibile comprendere meglio certi aspetti peculiari del personaggio, come la sessualità scatenata e il disprezzo per la morale convenzionale.

Rispetto alla storia leggendaria del Colonnello, le altre storie sviluppate nel libro rimangono secondarie, anche per via delle scelte stilistiche dell’autore. La vicenda di Peter, il figlio del Colonnello, ricostruita attraverso una narrazione diaristica, ruota intorno a due episodi cruciali per la saga dei McCullough: il massacro della famiglia rivale dei Garcia e l’incontro con Maria. Nella storia di Jeanne, la pronipote del fondatore, il ripetersi dei sommari, necessario per ricostruire la sua storia di vita, rischia di non permettere una totale identificazione con il personaggio. Ma anche in questi casi ci troviamo di fronte a materiale antropologico di prima qualità.

In particolare la narrazione di Jeanne, che va dal 1926 al 2012, offre numerosi dettagli etnografici sulla vita di una “tribù” particolare: quella dei rancheros e dei petrolieri texani, gruppo sociale che per la sua importanza nella storia degli Stati Uniti, a livello sociopolitico e a livello simbolico, in quanto eredi dei pionieri e dei cowboys dell’epopea del West (di cui il libro rappresenta una controstoria demistificante) meriterebbe sicuramente l’attenzione degli studiosi. In effetti, nel 1992 il famoso antropologo americano George Marcus ha dedicato alle famiglie dell’élite di Galverston in Texas una monografia etnografica, Life in Trust, che, tenendo conto dell’evidente cultura antropologica di Meyer, potrebbe essere del resto tra le fonti consultate nella ricerca alla base del romanzo. In queste parti, la violenza, elemento ricorrente e tema cardine delle parti vocali del Colonnello, si attenua; non così la brama di potere e di ricchezza. Poiché la conquista, l’acquisizione brutale della terra e della ricchezza, a partire dalla colonizzazione e dall’annientamento dei Comanche all’accumulazione originaria dei capitalisti texani, è il vero tema del libro.

La narrazione di Meyer implica una specifica antropologia, una specifica concezione dell’umanità e della natura umana. Una antropologia negativa, pessimista, che fa della violenza e della brama di possesso qualcosa di connaturato all’umanità stessa – la brutalità e il desiderio di dominio sembrano essere l’unico tratto che può accomunare i Comanche ai rancheros e ai capitalisti. E in quanto connaturati, la violenza e la ricerca del potere sono, sembra dirci l’autore, immutabili e inestirpabili, perché strettamente intrecciate, inseparabili da ogni forma di civiltà, quella nativa come quella capitalista. Una visione pessimista dell’essere umano che ha dalla sua il fascino del realismo ed è pertanto molto comune all’interno dell’ideologia occidentale fin dall’antichità, ma che l’antropologia culturale non può sottoscrivere così facilmente. Come ha mostrato, tra gli altri, in un breve ma geniale libro Marshall Sahlins (Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, 2012), la rappresentazione pessimista della natura umana è parte integrante di un’ideologia conservatrice che ha da sempre usato lo spettro dell’egoismo violento connaturato all’essere umano come meccanismo per legittimare il potere disciplinare e gerarchico. Buona parte dell’antropologia contemporanea ha contribuito a decostruire l’immagine negativa dell’umanità e l’ideologia che vi si lega, mettendo in luce come non vi sia in senso stretto una natura umana, cattiva o buona, violenta o pacifica che sia. La natura dell’uomo è la sua cultura. L’uomo non ha un’essenza, ha una storia, che, per quanto tragica, si apre sempre a ulteriori possibilità.

Meyer insiste, al contrario, sull’irriducibile negatività della natura umana, come dimostra anche la forma circolare del romanzo stesso. Nessun progresso nella storia dei McCullough, nessun progresso nella storia americana di cui sono il simbolo. Non a caso, allora, il libro porta in epigrafe e omaggia in un passaggio chiave uno dei testi chiave del pessimismo storico e conservatore: Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon. Come in quest’ultimo, il pessimismo antropologico si associa nel libro di Meyer a un’idea di decadenza: se la barbarie e la violenza segnano l’intera saga, tra i Comanche la ferocia è come riscattata, sembra dirci l’autore, dalla nobiltà e dalla libertà della vita indigena, che colora di nostalgia i ricordi di prigionia del colonnello; ma già nella seconda e terza generazione, quando i pionieri bianchi si fanno rancheri e petrolieri, la nobiltà è distrutta dal desiderio di guadagno. E così come i barbari ma nobili Comanche lasciano il posto ai ben meno nobili petrolieri texani, questi ultimi devono lasciare il posto ai nuovi barbari, i narcotrafficanti, presso i quali sembra profilarsi il destino dell’ultimo discendente. In questa genealogia dell’individualismo possessivo e violento, i narcos sono i degni successori dei capitalisti texani. La ricchezza degli uni e degli altri ha le stesse cause e le stesse radici nell’espropriazione violenta.

È un’epica della decadenza, quella di Meyer. Il suo è un libro epico, che ambisce a essere un’opera-mondo, nel significato che Franco Moretti ha dato al termine: un tentativo di rappresentare la realtà globale attraverso la costruzione di un mondo letterario. Il che rafforza l’affinità, riscontrabile a più livelli, tra Il figlio e quello che per Moretti è l’ultima grande prova di opera-mondo: Cent’anni di solitudine. Affinità formali e di contenuto, superficiali e profonde legano i due libri: se il titolo di colonnello che associa Eli McCullough ad Aureliano Buendia è forse solo un omaggio, una più profonda affinità si trova nella dimensione dinastica della vicenda, svolta su più generazioni (che ovviamente richiama l’archetipo del genere: I Buddenbrook). Affine è poi la struttura temporale dei due romanzi, imbastiti di piani temporali diversi grazie all’uso insistito dei flashback. Tracce sparse di “realismo magico” – dall’iniziale profezia sui cento anni (un caso?) di vita del colonnello al realizzarsi delle maledizioni pronunciate da Garcia – rafforzano l’ipotesi di un’ispirazione da parte di Marquez.

Entrambi i romanzi potrebbero portare in epigrafe le parole di Walter Benjamin: «Ogni documento di civiltà è allo stesso tempo un documento di barbarie». Un’affermazione che Meyer sottoscriverebbe in piena coscienza, come mostra questa imperfetta ma grandiosa narrazione dell’ascesa e della caduta della civiltà americana.

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