Un estratto di L’ascesa del femminismo neoliberista (ombrecorte 2020) di Catherine Rottenberg.
L’odissea di questa ricerca inizia nel 2012 quando, dopo un lungo periodo di latenza in cui ben poche donne – e figuriamoci quelle potenti – erano disposte a identificarsi pubblicamente come femministe, lo status quo inizia a cambiare tanto rapidamente quanto tragicamente. All’improvviso, molte donne di spicco, negli Stati Uniti, iniziano a dichiararsi pubblicamente femministe, una dopo l’altra: l’ex direttrice del Policy Planning del Dipartimento di Stato americano Anne-Marie Slaughter, l’ex presidente del Barnard College Debora Spar e la direttrice operativa di Facebook Sheryl Sandberg, fino alla giovane star hollywoodiana Emma Watson, o a celebrità della musica come Miley Cyrus e Beyoncé. Il femminismo diventa improvvisamente accettabile e molto popolare, come non era mai stato prima.
La prospettiva di una rinascita del discorso femminista appare da subito molto promettente, soprattutto alla luce dei danni prodotti dal “postfemminismo” – che Rosalind Gill descrive come un complesso “intreccio di idee femministe e antifemministe” –, il quale aveva già svolto a dovere il compito di arginare la necessità di un movimento organizzato di massa delle donne. Ciononostante, molte attiviste di lungo corso e molte studiose femministe hanno mostrato una certa diffidenza nei confronti del più recente sviluppo dovuto, in gran parte, alla pressoché completa scomparsa delle parole-chiave tradizionalmente inseparabili dai discorsi e dai dibattiti pubblici femministi, vale a dire: eguaglianza, emancipazione e giustizia sociale. al loro posto, altre parole, come felicità, conciliazione famiglia-lavoro, responsabilità e “farsi avanti” [lean in], cominciarono ad apparire con ostinata coerenza. Così, incuriosita dall’ampia proliferazione e dall’accettazione di un nuovo lessico femminista fondato sulla paradossale eliminazione di tanti suoi termini chiave, ho iniziato a seguire l’effetto individualizzante e politicamente anestetizzante di questa nuova variante del femminismo.
È stata la comparsa di questo nuovo lessico femminista che per primo mi ha spinta ad analizzare la nuova visibilità del femminismo nei prodotti culturali mainstream: dai giornali agli articoli di riviste, dalle serie tv alle varie autobiografie di donne famose, dalle guide femminili su “come avere successo” ai blog dedicati alle neo-mamme. Volevo capire perché questa nuova forma di femminismo fosse di-ventata pubblicamente accettabile, guadagnando una così ampia popolarità, e cercavo di indagare quali rapporti quel nuovo vocabolario avesse realmente con la presunta legittimità che il femminismo aveva improvvisamente ricevuto dall’immaginazione popolare statunitense. Il mio interesse per questo nuovo fenomeno culturale è poi aumentato quando diverse personalità politiche conservatrici – dalla premier inglese Theresa May a Ivanka Trump negli Stati Uniti – si sono aggiunte a un già impressionante elenco di donne di alto profilo che si identificavano pubblicamente come femministe.
Questo libro intende quindi offrire un’analisi approfondita di questi temi complessi e disorientanti. Come vi sarà più chiaro nel corso della lettura, il suo quadro di riferimento teorico si allarga e si trasforma pagina dopo pagina, mentre cerco di dare conto dei rapidi cambiamenti che si registrano all’interno di questo nuovo discorso femminista. Quando alcuni temi femministi hanno iniziato a permeare e a circolare ampiamente nei media popolari statunitensi, i loro contorni e i loro accenti hanno subito delle trasformazioni, talvolta in modo molto significativo. Il libro segue questi cambiamenti, tracciando il dove e il come dell’apparizione nell’arena politica e culturale di questa nuova variante del femminismo, nonché i particolari idiomi attraverso i quali opera, dal 2012. È sempre difficile cogliere un particolare fenomeno culturale mentre accade – per così dire, in tempo reale – e questo, ovviamente, è ancor più vero quando gli eventi si svolgono così rapidamente.
I capitoli che seguono registrano e analizzano l’ascesa di ciò che chiamo “femminismo neoliberista”. Il libro prende le mosse dalla percezione di una crisi sempre più forte della concezione classica dello spazio della teoria liberale – ossia, la rigida distinzione tra pubblico e privato. Si tratta infatti di una crisi che ha sortito effetti molto significativi su tutto il pensiero femminista liberale, così come sulla sua agenda politica di trasformazione sociale. Benché tale crisi non sia particolarmente nuova e le sue origini non univoche, essa però coin- volge le contraddizioni interne dello stesso liberalismo, soprattutto quella per cui lo spazio, nell’immaginario politico liberale, è già da sempre segnato dalla linea del genere. Come sosterrò, due sono le ragioni di questa acutizzazione: la prima è data dall’ingresso di un numero sempre crescente di donne del ceto medio nel mondo del lavoro professionalizzato; la seconda, invece, dal fatto che la razionalità neoliberista è diventata sempre più egemone.
Facendo riferimento ai lavori di Wendy Brown, di Michel Feher e di Wendy Larner, per “neoliberismo” non intendo semplicemente un sistema economico o un insieme di politiche fondate sulla privatizzazione e sulla deregolamentazione del mercato; piuttosto, intendo una razionalità politica, una normatività, che oscilla costantemente tra “pubblico” – l’amministrazione dello stato – e “privato” – i meccanismi psichici del soggetto –, strutturando gli individui come agenti di potenziamento del capitale. La continua e incessante conversione, a opera della razionalità neoliberista, di tutti gli aspetti del nostro mondo in “atomi” del capitale, compresi gli stessi esseri umani, pro- duce soggetti individualizzati, “imprenditori di se stessi”, costretti a investire su di sé, considerati peraltro i soli responsabili della propria cura e del proprio benessere.
È importante – ancorché paradossale notare che proprio nel momento in cui la razionalità del mercato ha acquisito maggiore ascendenza, il postfemminismo, che studiose come Angela Mcrobbie e Rosalind Gill avevano già definito come un prodotto stesso del neoliberismo, è stato oscurato da questa nuova forma di femminismo. Dopo aver corroso il femminismo liberale e partorito il postfemminismo, la razionalità neoliberista si cimenta ora nella produzione di una nuova forma di
Tutto ciò solleva una serie di domande affascinanti: perché mai il neoliberismo avrebbe bisogno del femminismo? Cosa fa il femminismo neoliberista che il postfemminismo non potrebbe o non può realizzare? Che tipo di lavoro culturale svolge questa particolare variante del femminismo in questo particolare momento storico? E, infine, quali sono esattamente le sue modalità di azione? Questo libro mira a fornire un’analisi accurata della logica sottesa al femminismo neoliberista, dei suoi complessi meccanismi e di come agisce per con- seguire una serie di obiettivi, tra cui la produzione di nuovi soggetti femministi.