Perché dovremmo smetterla di chiamare l’Afghanistan “la tomba degli imperi”

Truppe imperiali britanniche (Novantaduesimo reggimento Highlanders e Secondo Gurkhas, di origine indiana) attaccano una fazione resistente (Gundi Mullah Sahibdad) durante la battaglia di Kandahar il primo settembre 1880. Fonte: Ajam Media Collective

Abbiamo assistito nelle ultime settimane allo scioccante ritorno dei Talebani a Kabul, che hanno avuto la meglio rapidamente sul governo afghano e hanno sancito il fallimento della ventennale missione militare statunitense. Nel suo discorso pronunciato il 16 agosto, il presidente Biden ha difeso la decisione di ritirare le truppe dal paese, azione che ha fatto precipitare gli eventi, invocando un cliché ben noto: “Gli eventi che stiamo vedendo ora sono la conferma che nessun intervento militare potrebbe mai rendere stabile, unito e sicuro l’Afghanistan, conosciuto storicamente come la tomba degli imperi”.

Che Biden definisca l’Afghanistan “la tomba degli imperi” è, nella migliore delle ipotesi, prova della sua ignoranza e, nella peggiore, del suo egoismo. Non solo cancella le migliaia di anni in cui l’Afghanistan è stato un fiorente centro di civiltà, ma anche, con un gesto di grande arroganza imperiale, getta la colpa per i fallimenti degli Stati Uniti sul popolo afghano e sulla terra afghana. Ma da dove viene l’espressione “tomba degli imperi”? Cosa significa? E perché è completamente sbagliata – e persino razzista?

Sembra saggezza popolare senza tempo, ma in realtà l’epiteto è stato coniato solo di recente, così di recente che non è nemmeno precedente all’invasione degli Stati Uniti. È apparso per la prima volta nel 2001, in un articolo su “Foreign Affairs” dal titolo  “Afghanistan, Graveyard of Empires” a firma dell’ex capo della sezione della CIA dislocata in Pakistan, Milton Bearden. Nell’articolo, Bearden metteva in guardia gli Stati Uniti contro un’occupazione dell’Afghanistan basandosi non solo sulle esperienze storiche dell’Unione Sovietica e dell’impero britannico, ma anche di Alessandro Magno, Gengis Khan e di tutti “i grandi eserciti del mondo impegnati in campagne di conquista” che “alla fine hanno avuto la peggio una volta incontrate le tribù afghane ribelli”. Questo ragionamento riduce la storia dell’Afghanistan alla storia dei suoi invasori, e liquida il popolo afghano come arretrato e selvaggio, riciclando classici topoi orientalisti riattualizzati per il pubblico della “Guerra al Terrore”.

La cosa più importante, tuttavia, è che la tesi di Bearden è in contrasto totale con la verità storica. Alessandro Magno e Gengis Khan non solo conquistarono l’Afghanistan, ma i loro successori lo governarono per secoli, adattandosi alla sua cultura e religione. Lungi dall’essere un luogo in cui gli imperi morivano, il territorio afghano è stato, per millenni, il luogo ove essi hanno prosperato, grazie in parte alla sua posizione strategica quale crocevia dell’Asia, e il luogo da cui molti grandi imperi sono emersi, lasciando il proprio segno nella storia mondiale.

Si considerino i Kushan (30-350 d.C.), dinastia che dalla sua capitale Bagram (sì, come la base aerea) governò su parte dell’Afghanistan, dell’Asia centrale e dell’India settentrionale e commerciò con Roma, l’India e la Cina. Ai tempi dei Kushan, l’Afghanistan era il centro di una fiorente civiltà che combinava influenze greche e indiane con l’eredità buddista, dando origine a una tradizione artistica unica ed eclettica. In effetti, si ritiene che le prime rappresentazioni del Buddha in forma umana abbiano avuto origine proprio qui.

I Kushan furono solo una delle tante civiltà ad aver prosperato in quello che oggi è l’Afghanistan. I Ghaznavidi (977-1186), una dinastia musulmana turcica la cui capitale era Ghazni, erano degli entusiasti mecenati dell’arte e dell’architettura. Sotto la loro egida, il persiano emerse come lingua della poesia e dell’alta letteratura nell’Oriente islamico. Non è un caso che il grande poeta Ferdowsi dedicò al sultano Mahmud di Ghazni il suo Shahnameh, o Libro dei Re, che racconta l’epopea nazionale del mondo persiano e persianofono.

Anche i Timuridi (1370–1526 d.C.) erano famosi per il loro sostegno alle arti architettoniche e alle grandi opere. Il loro regno lasciò un segno indelebile nella cultura persiana e nelle aree in cui questa era diffusa. La capitale timuride, Herat, brulicava di artisti, artigiani, letterati. A questo proposito è noto che Babur, il fondatore dell’impero Mughal, scherzava dicendo che non ci si può sgranchire le gambe a Herat senza prendere a calci un poeta!

Monete in oro di epoca Kushan con rappresentazione del Buddha e legenda in greco battriano: ΒΟΔΔΟ “Boddo”, per “Buddha”, circa 127–150 CE. Fonte: Ajam Media Collective

Il dominio coloniale europeo in Afghanistan iniziò nel Diciannovesimo secolo, quando i britannici cercarono di renderlo uno stato cuscinetto contro la minaccia dell’espansione russa in India. Mentre gli storici generalmente concordano sul fatto che l’esperienza dell’impero britannico in Afghanistan sia stata un fallimento, la questione è più complicata di così.

La prima guerra anglo-afghana (1839-1842) fu disastrosa per i britannici, che però ebbero successo nella seconda (1878-1880). Non rimasero ad occupare il paese, ma installarono un emiro di loro gradimento, annetterono il territorio e ridussero l’Afghanistan a uno stato cliente, la cui esistenza rimase legata agli interessi britannici fino all’indipendenza nel 1919.

Il cliché della “tomba degli imperi” cancella anche il lungo periodo di pace di cui godette l’Afghanistan durante la successiva era monarchica. Nonostante la competizione tra le grandi potenze per il controllo dell’area sarebbe durata quasi cinque decenni (1929-1978), i re dell’Afghanistan, a partire da Amanullah Khan negli anni Venti, mantennero con successo la propria indipendenza e svilupparono un moderno stato nazionale. Durante la seconda guerra mondiale, mentre il vicino Iran era occupato dalle truppe britanniche e sovietiche, l’Afghanistan riuscì a mantenere la sua neutralità e la sua indipendenza.

Nel secondo dopoguerra – mentre le nazioni mediorientali come l’Egitto, la Siria e l’Iraq erano scosse da colpi di stato e l’India e il Pakistan combattevano una serie di guerre – l’Afghanistan era relativamente stabile. Anche il colpo di stato del 1973, che pose fine alla monarchia e istituì la Repubblica dell’Afghanistan, fu praticamente incruento. Fu solo con la rivoluzione marxista di aprile, o di Saur, del 1978 e la successiva invasione sovietica che il paese iniziò la sua discesa in quattro decenni di guerra e distruzione. Senza voler idealizzare il passato, la storia recente dimostra che l’immagine dell’Afghanistan come luogo di perenne conflitto e instabilità è falsa.

È stata la sconfitta dell’Unione Sovietica – che ha invaso l’Afghanistan nel 1979 e tentato di conquistarlo fino al 1989 – che ha più contribuito a cementare l’idea del paese come invincibile. Nell’immaginazione popolare, i mujaheddin afghani, così disorganizzati, affrontavano – nelle parole di Ronald Reagan – “arsenali moderni con semplici armi bianche”. Tuttavia questa lotta, che è stata esaltata nel 1988 nel film “Rambo III”, non era poi così univoca come potrebbe sembrare. Dal 1979, i mujaheddin ricevettero miliardi di dollari in segreto dagli Stati Uniti, dal Pakistan e dall’Arabia Saudita. Questo vuol dire che, mentre l’Unione Sovietica era l’unica superpotenza con truppe sul territorio, non era l’unica superpotenza che combatteva in Afghanistan.

Dedica del film “Rambo III”. Fonte: Ajam Media Collective

Pertanto, l’esito dell’invasione sovietica non fu né inevitabile né dovuto al “ribelle” popolo afghano: invece, esso fu il risultato deliberato delle manovre militari e strategiche della Guerra Fredda. Lungi dall’essere un caso unico, il conflitto afghano-sovietico è un esempio delle proxy war – o guerre per procura – combattute durante la Guerra Fredda, dal sud-est asiatico all’America centrale, e non fu più sanguinoso o più lungo di altri conflitti in cui gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica impiegavano attori locali per fare la guerra al posto loro. E, come altrove, le principali vittime di questa manovra furono gli stessi afghani, di cui oltre un milione morti e altri milioni costretti a fuggire.

Nonostante questa storia complessa, negli ultimi due decenni il cliché della “tomba degli imperi” non solo è entrato nei dibattiti sull’Afghanistan, ma ha acquisito uno status di verità indiscussa. Nel suo The Looming Tower: Al-Qaeda and the Road to 9/11 (2006), il giornalista Lawrence Wright afferma che, ordinando il bombardamento delle due ambasciate statunitensi di Dar es Salaam e Nairobi nel 1998, Osama Bin Laden voleva “attirare gli Stati Uniti in Afghanistan, che era già noto per essere la tomba degli imperi”. Nonostante venga presentata come una verità da tempo assodata, non ho ancora trovato alcun esempio di pubblicazione o uso dell’espressione “la tomba degli imperi” precedente al pezzo di Bearden del 2001, di cui ho parlato all’inizio.

Nel frattempo, nel 2010, sono stati pubblicati due libri sull’Afghanistan con i seguenti titoli: In the Graveyard of Empires: America’s War in Afghanistan di Seth G. Jones e Afghanistan: Graveyard of Empires. A New History of Borderland di David Isby. E anche quando l’epiteto non è esplicitamente menzionato, l’idea è comunque sempre presente, così che l’impegno per la costruzione e il consolidamento dello stato in Afghanistan è presentato come inutile, ma non a causa di eventuali lacune dell’occupazione militare degli Stati Uniti, bensì perché l’Afghanistan e la sua gente sono intrinsecamente ingovernabili.

Non sorprende, quindi, che il presidente Biden abbia esplicitamente invocato questo cliché per giustificare il ritiro delle forze armate statunitensi. Nel suo discorso, ha parlato della missione militare come di “uno sforzo decennale per superare secoli di storia, per cambiare e ricostruire l’Afghanistan” prima di dare la responsabilità del fallimento di questa al popolo afghano, al quale “abbiamo dato… ogni possibilità di determinare il proprio futuro. Quello che non potevamo fornire loro era la volontà di lottare per quel futuro”.

Questo commento è ancora più scioccante se si pensa che circa 66.000 soldati afghani hanno dato la vita combattendo contro i Talebani negli ultimi vent’anni, un sacrificio che è sparito da ogni dibattito e analisi. Secondo la logica di Biden, la missione degli Stati Uniti in Afghanistan non è fallita a causa delle violazioni dei diritti umani operate dai suoi militari o a causa del sostegno statunitense dato a signori della guerra corrotti e violenti, bensì perché gli stessi afghani si sono dimostrati indegni dell’opportunità data loro dall’intervento militare statunitense.

Se adottare lo stereotipo della “tomba degli imperi” è allettante, è perché è auto-assolutorio e, allo stesso tempo, innalza gli Stati Uniti al livello dei più grandi imperi della storia. Ci assolve da ogni responsabilità: “Ahimè, non potevamo certo fare meglio di Alessandro Magno!”

Ci assolve anche da ogni dovere verso gli afghani che hanno rischiato la loro vita e quella dei loro cari per la nostra promessa di un domani migliore: gli interpreti, i giornalisti, i dipendenti del settore pubblico, che ora affrontano la minaccia delle rappresaglie talebane. Molti di loro sono rimasti bloccati sulla pista dell’aeroporto internazionale di Kabul (o peggio, aggrappati agli aerei mentre decollavano) mentre gli occidentali venivano trasportati in salvo.

Un uomo aspetta che i soldati facciano irruzione nella sua abitazione nel sud-est dell’Afghanistan, nel novembre 2002. Fonte: Wiki Commons

Questo è un momento opportuno per rivalutare la Guerra al Terrore e chiederci come e perché essa non ha raggiunto i suoi obiettivi. Dovremmo guardarci indietro con il senno di poi e identificare le ragioni per cui invadere e occupare l’Afghanistan è stata una cattiva idea, già nel 2001. Possiamo anche discutere delle difficoltà di governare l’Afghanistan senza ridurlo a una caricatura orientalista – che è tanto storicamente inaccurata quanto razzista.

Attribuire i fallimenti imperiali in Afghanistan, passati o attuali, alla combinazione di ciò che Nivi Manchanda (nel suo “Imagining Afghanistan: The History and Politics of Imperial Knowledge”) chiama “predisposizione afghana trans-storica congenita” e “determinismo geografico”, oscura più di quanto rivela. Essa impedisce qualsiasi analisi seria dei motivi per cui la missione militare e umanitaria dell’America e dei suoi alleati è fallita così miseramente. Impedisce di trarre qualsiasi lezione dall’esperienza, e di fare i conti con le responsabilità morali per i danni inflitti dall’occupazione e quelli che inevitabilmente scaturiranno dal nostro ritiro. Dopotutto, la situazione era già disperata quando arrivammo.

I cliché come “Afghanistan, tomba degli imperi” guadagnano popolarità perché sembrano spiegare eventi complessi con semplici verità distillate – così ci suggeriscono – da secoli di esperienza. Bisogna resistere alla tentazione di cercare risposte facili se vogliamo avere qualche speranza di capire come siamo arrivati ​​al momento presente o di chiedere conto delle colpe e avere giustizia. Le ragioni per il fallimento statunitense in Afghanistan saranno senza dubbio oggetto di accesi dibattiti negli anni a venire, ma il fatto che l’Afghanistan sia “la tomba degli imperi” non può esserne parte, come la storia ha dimostrato chiaramente.

Originariamente pubblicato da Ajam Media Collective il 24 agosto 2021, al link https://ajammc.com/2021/08/24/stop-calling-afghanistan-graveyard-empires/ Tradotto da Paola Rivetti e Giacomo Tagliani

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