Per una critica dell’antropologia critica. Una replica

Una risposta di Fabio Dei ai commenti seguiti alla pubblicazione di una parte del suo recente saggio, Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica.

Ringrazio gli amici de Il lavoro culturale per lo spazio che hanno voluto concedere al mio scritto “Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica”; e ringrazio Pietro Saitta, Valerio Romitelli e Dino Cutolo per i loro ampi e appassionati interventi di commento. Vorrei ricordare che l’estratto pubblicato su questo blog è parte non solo di un più ampio saggio, ma di un intero volume che contiene molti originali interventi (incluso un saggio di grande interesse dello stesso Cutolo), con una gamma di posizioni ampia che va ben al di là delle mie radicali critiche alla “Theory” (Stato, violenza, libertà. La critica del potere e l’antropologia contemporanea, a cura di F. Dei e C. Di Pasquale, Roma, Donzelli, 2017). Il mio intento, nell’adottare uno stile critico diretto e forse provocatorio, era esattamente quello di far emergere presupposti (e conflitti) teorici ed epistemologici che non sempre sono apertamente dichiarati – ravvivando così un dibattito teoretico che nel nostro campo di studi appare alquanto sonnacchioso. Non posso dunque che rallegrarmi della discussione che si è aperta, nella quale si esplicitano punti troppo spesso relegati in un opaco background. Discussione che – mi par di capire – ha avuto una certa risonanza. Il lavoro culturale è evidentemente più letto dagli antropologi di quanto lo siano le nostre riviste specialistiche: un dato sui cui riflettere, oltre che un indubbio merito dei suoi promotori.

Cerco dunque di articolare alcune risposte. Le suddividerò per punti, partendo da una questione formale o di “etica accademica” che i lettori sono liberi di saltare, ma che per me è cruciale chiarire prima ancora di entrare nel merito.

La legittimità dell’operazione editoriale

L’unica cosa che davvero mi spiace e che non comprendo nel dibattito aperto è la polemica sollevata dall’amico e collega Dino Cutolo sulla composizione del libro. Cutolo esprime il suo disagio per aver scritto all’interno di un volume nel quale è contenuto (come “introduzione de facto”, a suo parere) il mio saggio le cui posizioni non condivide. E dice di sentirsi strumentalizzato o ingannato, perché portato dentro una operazione editoriale volta a sostenere un orientamento teorico contrapposto al suo. Come se fosse maleducato da parte mia spingermi a criticare apertamente (“al limite dell’insulto”, secondo lui) il linguaggio e la cornice teorica della critical anthropology in un libro nel quale, da co-curatore (con Caterina di Pasquale), ho invitato a scrivere anche colleghe e colleghi che a quel linguaggio e a quella cornice sono più legati. Ora, il libro Stato, violenza, libertà nasce da un convegno dedicato proprio a discutere i problemi teorici addensati attorno alla “Theory” e al suo trattamento dello Stato: convegno preparato dalla circolazione di un position-paper che chiariva i nuclei della discussione. E che del resto si poneva nel solco di un precedente seminario dedicato al biopotere e alla “foucaultizzazione” dell’antropologia, cui lo stesso Dino aveva partecipato (da qui era nato il volume collettaneo Grammatiche della violenza, Pisa, Pacini, 2013). Nell’organizzare il convegno del 2017, con Caterina di Pasquale (che peraltro è già intervenuta in questo dibattito) abbiamo ritenuto fondamentale invitare studiosi di diversi orientamenti, e che in particolare si fossero confrontati da vicino nella loro ricerca con l’impianto e i concetti della critical anthropology. Così è stato, e così è nel libro, in cui hanno voce approcci e tagli differenti, con la volontà di far emergere nuclei problematici ma senza alcuna pretesa di ricondurre tutto a unità, o di inglobare i vari saggi in una “morale” conclusiva e compatta. Non si trattava di contrapporre il partito della Theory a quello dell’anti-Theory : e proprio per questo come curatori abbiamo rinunciato a dar conto dei singoli saggi nella Premessa (“come si fa di solito”, dice Cutolo: mah, non necessariamente; proprio questo avrebbe invece significato una pretesa di ricomposizione o orchestrazione dal nostro punto di vista, che volevamo evitare). Chi legge il libro per intero, si accorgerà che ci sono molti saggi (almeno la metà) strettamente legati all’antropologia critica e alle auctoritates della Theory, e altri dedicati ad analisi etnografiche che non si schierano nella disputa teorica (almeno non con l’irruenza che caratterizza il mio scritto). Dunque, se nel volume c’è un corpo estraneo è semmai il mio saggio iniziale; che avrà pure il torto di essere iniziale (trattandosi di un position paper, mi sembrava inevitabile), ma certamente non pretende di soffocare gli altri o di porli al proprio servizio. Mi sarebbe anzi piaciuto se argomenti come quelli che Dino solleva qui fossero emersi più esplicitamente all’interno del libro, il cui obiettivo – ripeto – era sollevare un dibattito che altrimenti non si fa mai, continuando a lasciare le nostre convinzioni teoriche sullo sfondo e impantanandosi nel dire-e-non-dire di una certa convenzione accademica.

La Theory e l’antropologia critica non esistono?

Detto questo, vengo ai contenuti specifici dei tre testi di commenti pubblicati da Il lavoro culturale. Che sono opportunamente espliciti e molto chiari: soprattutto quelli di Saitta e Cutolo controbattono riaffermando punto per punto quei caposaldi della teoria critica che io metto invece sotto accusa. Li considerano non solo utili ma inevitabili, strumenti cruciali di interpretazione della complessa realtà del “neoliberismo globale” e delle ingiustizie e sperequazioni che esso produce. Quasi che fossero le cose stesse, o le loro implicazioni morali e politiche, a imporre i concetti interpretativi. Ma andiamo con ordine. Il primo ricorrente argomento è che la Theory non esiste: si tratterebbe di un assemblaggio arbitrario di autori diversi che non rappresentano “un blocco […], una scuola o un partito in seno alle scienze sociali” (Saitta): e che io accomunerei solo ai fini di una contrapposizione ideologica. Ma in questo modo – viene detto – si fa di ogni erba un fascio: si presenta “una teoria immaginaria […] creata appositamente per poter accomunare e attaccare – a volte al limite dell’insulto – autori e stili analitici che tra di loro non hanno nulla a che vedere” (Cutolo). Bene, la mia risposta è su due piani. Il primo è che sì, il concetto di Theory come proposto da Barbara Carnevali è un costrutto (anche se rimanda a etichette ben note come French Theory e Italian Theory), che serve a mostrare la presenza nel dibattito filosofico di un linguaggio, uno stile di pensiero, un canone di autori che è indispensabile citare. Si può essere o no d’accordo. Per me, come per molti lettori del saggio di Carnevali, il costrutto-Theory ha avuto l’effetto illuminante di riportare a unità una serie di autori, tendenze e relativi disagi epistemologici percepiti in precedenza in modo più vago e frammentato. Una categoria diagnostica, insomma (rimando su questo punto al dibattito sul saggio di Carnevali appena pubblicato su Studi culturali: “Contro la Theory? Dalla provocazione al dibattito”, n.1/2018, pp. 67-106). Davvero c’è chi non vede tratti comuni tra i maestri della Theory che Carnevali cita? Comunque, questione di opinioni. È invece questione di fatti il secondo piano della mia risposta. L’antropologia critica di cui parlo è esattamente una scuola, un filone di studi che si autorappresenta come tale in contrapposizione ad altri indirizzi (evidentemente non “critici”, integrati, complici del potere). Nei due settori disciplinari su cui nel saggio mi soffermo – l’antropologia medica e gli studi su violenza e terrorismo – l’approccio “critico” è esplicitamente rivendicato e costruito attraverso gli strumenti accademici: ad esempio riviste e manuali separati da quelli “integrati”, editori o almeno collane specializzate, corsi di laurea e master specifici, con un’alta compattezza di riferimenti interni, di autori canonici etc.  Teoria immaginaria? Autori che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro? Direi proprio di no, per esplicita rivendicazione di quegli stessi autori. Negare l’esistenza dell’antropologia critica non mi pare un buon modo di difenderla. A meno che dietro questo argomento non vi sia la pretesa che tutta la vera e buona antropologia contemporanea è antropologia critica, e che dunque criticarla equivalga a tornare indietro nel tempo, verso “nostalgie ermeneutiche” e ingenuità politiche. Un punto su cui tornerò in conclusione di queste note.

Sono i fenomeni stessi a imporre certe categorie interpretative?

Sono consapevole che la “teoria critica” prende le mosse da ottime intenzioni: le istanze di un’antropologia che non vuol essere pura spettatrice delle lacrime e del sangue di cui gronda il mondo contemporaneo (come l’antropologia ottocentesca lo era stata rispetto ai genocidi coloniali); e che indaga riflessivamente le componenti di “violenza epistemologica” intessute nel proprio stesso sapere. Per quello che conta, proprio questi temi sono stati e sono alla base del mio lavoro teorico sulla violenza – che mi ha portato a usare e proporre in lingua italiana, nell’antologia Antropologia della violenza (Roma 2005), molti autori “critici” come Asad, Scheper-Hughes, Taussig etc.; lo ricordo solo per mostrare che non parto da pregiudizi. Ma le buone intenzioni non sorreggono in sé una cattiva epistemologia. Quindi non si può rispondere ai dubbi su categorie come biopolitica, nuda vita, forclusione etc. semplicemente ricordando che esistono questi grandi problemi nel grande mondo là fuori. Una cosa sono i fenomeni sociali, un’altra le categorie che usiamo per interpretarli. Saitta, nell’affermare che una Theory compatta non esiste, dice che esiste invece “una pluralità di voci globali che convergono sulla base di ciò che i terreni suggeriscono”. Come se la Teoria fosse induttivamente fondata, come se fosse il Campo a dettare i concetti. Come se sul campo l’antropologo si imbevesse della “coscienza di classe” degli attori sociali e questa si condensasse magicamente nel linguaggio del poststrutturalismo francese (sulla pretesa della Theory di fondarsi induttivamente ho peraltro già discusso nel mio saggio, p. 44).

Anche Dino Cutolo sembra cadere in questa fallacia quando scrive, ad esempio, che il tema dell’accoglienza ai migranti non può essere affrontato senza considerare “il biopotere quale potere di dare (proteggere, curare) la vita”. E come si potrebbe – chiede – “dar conto del trattamento dei migranti nei CIE […] senza riferirci alla struttura biopolitica del dispositivo che tiene insieme tutto ciò in un unico quadro di cura e controllo, di esclusione e presa in carico?”  E ancora: “per quanto riguarda la soggettività di operatori, psichiatri, medici, agenti di polizia, assistenti sociali ecc., come analizzare gli habitus professionali che strutturano il loro agire senza far riferimento […] all’idioma governamentale e biopolitico in cui tutto ciò prende forma?”. Dino, scusa ma qui rischi di non distinguere la percezione dei fenomeni dai concetti interpretativi. Nel mondo esiste l’accoglienza (o il respingimento) dei migranti, esistono le pratiche biometriche che nel tuo saggio brillantemente analizzi, ma non esistono in sé il biopotere o i dispositivi o la governamentalità. Questi termini sono costrutti che possono (secondo te) aiutare a capire i fenomeni in una prospettiva unitaria, e dare forza e sostanza alle etnografie;  oppure (secondo me) ostacolare la comprensione, imponendo sui fenomeni stessi una filosofia della storia schiacciasassi che è l’esatto contrario dell’etnografia, e che non coglie le più complesse e contraddittorie pratiche di funzionamento dello Stato. Possiamo discutere all’infinito nel merito: ma è una discussione epistemologica, non ontologica.

Lo stesso vale per il tentativo di legittimare il lessico della Theory in termini di questioni che non cogliamo “… finché restiamo all’interno delle mura universitarie, perché quando andiamo sul campo – nei paesi postcoloniali così come nelle nostre periferie – le stesse questioni ci vengono buttate in faccia da quelli che si vorrebbe restassero dei pacifici informatori, sulle cui spalle arrampicarsi geertzianamente per formulare ‘interpretazioni di interpretazioni’”. Ora, gli informatori ci possono buttare in faccia i loro problemi, le loro sofferenze, la loro rabbia etc., ma non i dispositivi o la biopolitica, né Foucault o Agamben. Tornerò oltre su un aspetto di ciò che ci “buttano in faccia” gli attori sociali. Basta per ora osservare che non c’è nulla di più esclusivo, di più chiuso nelle mura universitarie (o in quelle dei salotti d’avanguardia) del linguaggio della Theory e del suo stile intellettuale – nulla di più privo di rapporti con la prassi, nel senso gramsciano di questo termine che il poststrutturalismo ha distrutto.  Nulla di meno politico, dunque.   

L’etnografia e l’esperienza di campo impongono un particolare posizionamento teorico e politico?

A proposito del campo, è Saitta ad enunciare il classico argomento ad personam: la mia incapacità di vedere quanto è davvero repressivo lo Stato (non quello Stato o quella sua agenzia in particolare, ma lo Stato in generale, si badi bene) dipenderebbe dal fatto di non aver mai praticato “etnografia in terreni complicati”, quelli cioè che “stravolgono il modo di un ricercatore di vedere la realtà, costringendolo ad avvertire sulla propria pelle la sostanza di cui è fatta la ragion di stato”. E aggiunge:

Quella di Dei, insomma, sembra la Weltanschauung di chi, giusto per fare gli esempi più banali e a portata di mano, lo sgombero di un centro sociale o di un campo rom non l’ha testimoniato dalla posizione di chi prende le manganellate sulla propria testa. Oppure quella di chi ha scritto egregiamente di terrorismo senza avere però fatto un soggiorno etnografico in Palestina, Giordania o in Siria. È infatti difficile ritenere che certi terreni non lascino una traccia e l’accordo che Dei sembrerebbe intravedere tra studiosi tra loro molto differenti – quel mainstream contro cui si scaglia, insomma – è probabilmente il frutto di esperienze diversificate che però trovano un terreno d’incontro proprio nella funzione repressiva delle agenzie statali.

Tutto il mio libriccino sul terrorismo (Terrore suicida. Religione, politica e violenza nelle culture del martirio, Roma 2016), che non è un libro etnografico, si fonda sulla valorizzazione dell’etnografia. Sostiene cioè che se l’antropologia può dire su questo tema qualcosa di diverso – poniamo – dai politologi o dagli psicologi, è in virtù della produzione di materiale etnografico che ci consente di entrare nella costruzione culturale del mondo delle collettività che sostengono le pratiche del martirio (così come di quelle che interiorizzano la paura del terrorismo). Ma l’etnografia è una forma di conoscenza della realtà, non di partecipazione mistica. Neppure i teorici più estremi dell’Einfühlung sosterrebbero che delle manganellate sulla testa emanano in modo diretto non dico concetti chiari e distinti, ma neppure una vaga forma di Verstehen. Non voglio ironizzare. So perfettamente che le affermazioni di Saitta partono dalla giusta problematizzazione del ruolo della soggettività del ricercatore, e anche delle sue esperienze corporee, che specie quando si parla di violenza sono cruciali. Ma non si può ridurre tutto questo a un mito della partecipazione soggettiva e militante: suggerendo per di più che la convergenza sulla teoria critica da parte di “studiosi tra loro molto differenti” sgorgherebbe in modo spontaneo dall’esperienza di campo. È evidente che semmai è vero il contrario; cioè che l’influenza della teoria critica spinge a scegliere forme particolari di campo e a valorizzare certi tipi di esperienza, di contatti e di dialoghi (ad esempio i campi rom piuttosto che le caserme di polizia, i nuovi movimenti piuttosto che i partiti tradizionali, etc.). Cosa rende “critica” una etnografia? Non il porsi per principio da una parte o dall’altra, ma l’equilibrio di soggettività e oggettività, la capacità di render conto del punto di vista dei diversi soggetti implicati nelle dinamiche sociali; e ancora, la consapevolezza delle “seduzioni” del campo, l’esame riflessivo delle proprie stesse reazioni. Che è altra cosa dal prendere le manganellate e dal fare militanza. Sono mestieri diversi.

Inoltre, nell’idea che la comprensione scaturisca direttamente dall’adesione militante c’è un ulteriore elemento di ambiguità. Se così fosse, come comprenderemmo allora i “cattivi”? Questo è il grande problema di un’antropologia della violenza: capire il comportamento del carnefice, ancor più che della vittima. In questo caso dovrei dare manganellate, invece di prenderne? L’obiettivo antropologico di “vedere il mondo dal punto di vista del nativo” resta, anche se sto studiando le SS di Auschwitz o i torturatori argentini: ma evidentemente non può esser ridotto a una questione di “partecipare”, o di “stare dalla parte di chi sto studiando”. Che farsene di questi “informatori”, quando vogliono “buttarti in faccia” la loro insoddisfazione per le nostre etnocentriche categorie umaniste, pacifiste e democratiche, ed esprimere la loro brutalità, il loro razzismo etc.? Capire i loro “sistemi di significati” non può certo dipendere dalla capacità di condividerli, o di “incorporarli”. Forse è per questo che l’antropologia critica si interessa poco dei “cattivi” (e attribuisce sempre il male a un “sistema” considerato dall’esterno – allo “Stato”, appunto, per lo più – o a soggetti disumanizzati, mere espressioni del “potere”). 

Nostalgie ermeneutiche

Sia chiaro, l’imperativo etico dello “schierarsi”, di prendere parte”, non solo non è sbagliato; anzi è talvolta inevitabile. Ma etica (e politica) ed epistemologia non sono la stessa cosa (malgrado il pensiero postcolonial abbia cercato di renderle indistinguibili, dogmatizzando la fusione nietszcheana di verità e potere e banalizzando il nesso foucaultiano tra potere ed episteme). E poi schierarsi non è sempre così semplice, dal momento che spesso ci troviamo di fronte più a zone grigie che non a una netta distinzione fra vittime e carnefici (nel caso del terrorismo è spesso così). L’angustia dell’atteggiamento “critico” consiste nel pretendere di parlare solo a nome di soggetti considerati come sfruttati, subalterni, discriminati – su base di classe o più spesso etnica, di genere, di orientamento sessuale etc. Per cui quando parlo – cioè quando produco discorso antropologico – parlo necessariamente dal punto di vista di una qualche subalternità: donna, nero, LGBTQ, profugo, migrante irregolare etc.; non di una comunità conoscitiva universale che non può esistere, e che dove pretende di esistere maschera semplicemente interessi egemonici.

Vorrei soffermarmi su questo punto perché è importante. Afferma Cutolo che “l’antropologia critica che a Dei non piace” si fonda sul presupposto che “non si possono oscurare i contesti storico-politici in cui il progetto conoscitivo antropologico ha preso e continua a prendere forma” – enunciato nel celebre saggio del 1991 di Lila Abu-Lughod, dall’infelice titolo Scrivere contro la cultura. Ora, non è che un tale criterio di metodo non sia valido. Lo conosciamo da un pezzo:  risponde anzi a quell’esigenza di rigore sulle condizioni costitutive del sapere antropologico che nella storia della disciplina si può definire come “svolta riflessiva”. Ma la “scoperta” del necessario posizionamento politico (e poetico) del soggetto conoscente si è ridotta a un dogmatico soggettivismo delle “identità” subalterne vittime del “blocco del potere”. Una istanza di rigore descrittivo e di autoispezione della “coscienza storiografica” del ricercatore (come avrebbe detto De Martino, che rifletteva su questi temi già negli anni Cinquanta, e con molta maggior lucidità), si è trasformata in prescrizione normativa. Il tema che viene pomposamente chiamato della soggettivazione rischia così di risolversi in una forma di autorità etnografica sostenuta dalla costante evocazione degli stereotipi della subalternità e del politically correct. Dalla giusta messa in discussione della neutralità del discorso scientifico, all’idea che in esso io posso prendere la parola solo come soggetto etnico, donna, gay, etc., c’è tutta la distanza che corre fra l’atteggiamento critico e il dogmatismo à la page.   

Quindi, quando mi si imputano “nostalgie ermeneutiche”, o la volontà di riportare il dibattito antropologico indietro di vent’anni (o più), dico che sì, certamente, voglio riportarlo a quel punto di snodo in cui un movimento di rigorizzazione riflessiva del nostro sapere ha invertito la rotta e si è smarrito nelle nebbie del gergo poststrutturale e del radicalismo pseudopolitico da campus. Per proseguire in questa metafora nautica, mi piacerebbe che con i colleghi che non sono d’accordo condividessimo perlomeno una bussola epistemologica (non filologica: visto che mi si accusa anche di perseguire il “filologicamente corretto”, come se in questo ci fosse qualcosa di male: ma non è la filologia che mi interessa) per orientarsi in modi condivisi. Questo implica fra l’altro quella ricostruzione della genealogia dell’antropologia critica che Dino Cutolo mi imputa di non fare (sebbene abbia tentato di farla in una serie di scritti precedenti). Bene, facciamola: il prossimo convegno?

E la politica…

Intanto, visto che ho approfittato fin troppo degli spazi generosamente offerti da Il lavoro culturale, concludo accennando almeno a un punto che non posso tralasciare. Il mio saggio in Stato, violenza, libertà voleva soprattutto mettere in risalto la debolezza, talvolta l’assurdità, di concezioni dello Stato che ne considerano solo l’aspetto repressivo – dimenticandosi di quello costitutivo, e della misura in cui la nostra storia, il nostro pensiero, la nostra stessa idea di critica (per non parlare degli spazi franchi e protetti in cui di critica si può liberamente discutere) hanno a che fare con lo Stato. Non mi pare di trovare ripreso questo argomento nelle risposte, se non per ribadire quanto lo Stato può essere repressivo (specie ai suoi “margini”). Ma non è questo il punto (fra l’altro, si dimentica facilmente che per Foucault, il grande totem di queste concezioni, “repressione” non è affatto il concetto che descrive il ruolo del potere). La volontà di confrontarsi più da vicino su questa problematica (tramite una “bussola condivisa”) potrebbe rendere più costruttivo questo confronto, al di là del far rimarcare posizioni date: e potrebbe portare a una pulizia concettuale che servirebbe – credo – proprio la causa dei colleghi impegnati in un programma critico (questa è anche la risposta che darei al  testo di Valerio Romitelli, che mi pone questioni importanti e sottili, a partire da alcune istanze che pure condivido, e che qui non ho spazio per affrontare in dettaglio; spero di poterlo fare in altre occasioni).

Certo, il terreno comune diventa difficile da tracciare di fronte a un altro tipo di obiezione che mi viene posta, quella propriamente politica: per cui i miei argomenti sarebbero in definitiva reazionari, propri di una antropologia “integrata” (cioè al servizio del potere), e anzi in sintonia con le tendenze ideologiche del neoliberismo globale eccetera. Tutto il testo di Saitta, in particolare, è guidato da questa impostazione (devo peraltro dare atto a Saitta di grande chiarezza e lucidità, sia pure all’interno di una posizione che non condivido). È la posizione politica dell’ “antagonismo”, come egli stesso lo definisce, che individua come nemico il sistema economico-politico mondiale nel suo complesso, e ritiene di dover far leva sui soggetti più marginalizzati e sfruttati  per minarne “l’ordine e la stabilità” (cito) e tentare di distruggerlo. All’interno di questa visione, tutto ciò che non collabora all’obiettivo sovversivo appare come integrato, conservatore, in armonia con le peggiori tendenze securitarie, forcaiole e così via del senso comune. Quindi, l’approccio che io propongo appare “teso non tanto a predisporre gli strumenti necessari a un intervento politico che faccia breccia nella società, quanto a declinare la ricerca in un modo che rischia di ridurre l’antropologia o le scienze sociali al livello di quel senso comune che vede nell’ordine pubblico e nell’immigrazione le cause dei problemi del presente”. Sono d’accordo con la prima parte di questo passo: infatti per me la ricerca antropologica non è volta a “predisporre gli strumenti necessari a un intervento politico che faccia breccia nella società”. La comunità scientifica non è infatti la sezione di un partito, né un “movimento”, non deve “predisporre gli strumenti” che servano a una linea politica predefinita. Il che non toglie che, facendo politica, io possa usare gli strumenti della teoria sociale: ma non capire la distinzione fra questi due piani sarebbe disastroso. La seconda parte della citazione è invece una risposta all’istanza che io pongo con maggior forza, vale a dire la necessità per l’antropologia di comprendere le strutture del senso comune, il sentire popolare diffuso, anche quando non ci piace. Per Saitta invece il senso comune lo dobbiamo “decostruire”, mostrando ad esempio che se la gente si sente insicura è perché la paura gli viene inculcata dal potere e dai suoi strumenti di comunicazione.

Naturalmente, questa concezione politica è perfettamente compatta e non criticabile dall’esterno. Se mi appello alla necessità di comprendere le paure in termini che non sono solo di lavaggio del cervello delle masse, sostengo le ideologie scioviniste e securitarie. Se critico il ritorno a un determinismo economico-politico, faccio il gioco del “ritiro dalla politica” proprio della società normale e benpensante; mentre l’auspicio di rimettere al centro dell’analisi la cultura appare “curiosamente consonante con talune tendenze reazionarie presenti nella società”. Anzi, appare “anti-antifascista”, altra categoria istruttiva: che pretende di rivendicare il vero antifascismo a piccole minoranze (per quanto illuminate, certo) negandolo a quelle masse che ne sono state storicamente sostenitrici.  

Non mi turbano più di tanto queste attribuzioni di conservatorismo (anche perché sono in buona compagnia: quella dell’ANPI, ad esempio, noto soggetto anti-antifascista al quale, tanto per soggettivare un po’, sono iscritto da oltre vent’anni). Rispetto questo punto di vista: mi colpisce però la pretesa di non considerarlo solo come un punto di vista politico, ma come la prospettiva necessaria per tutte le scienze sociali – come se l’“antagonismo” fosse la loro inevitabile e costitutiva prospettiva. Mi colpisce soprattutto la perseveranza nel mantenere un intransigente isolamento ultraminoritario mentre la società reale va da tutt’altra parte: la determinazione a non stabilire rapporti con il demos, se non quel popolo idealizzato che è previsto dalla nostra teoria. A me sembra che questo rapporto – che equivale, come sopra accennato, al concetto di prassi nel senso gramsciano – non possa mancare né in un progetto politico né in una teoria antropologica.

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