Per un approccio globale alla riduzione del rischio da disastri

Note a margine sulla Third UN World Conference on Disaster Risk Reduction. La Third UN World Conference on Disaster Risk Reduction (WCDRR) si è svolta dal 14 al 18 marzo per aggiornare l’agenda globale sulla riduzione del rischio da disastri, proseguendo la serie di incontri internazionali iniziata negli anni ’90.

 

A Sendai (Giappone) si sono ritrovati 187 stati, 25 capi di stato e di governo, 100 delegati ministeriali, 6500 rappresentanti di organizzazioni governative e non-governative, organismi delle Nazioni Unite e settore privato; oltre 40000 persone, tra cui il sottoscritto, hanno partecipato a eventi e manifestazioni ad essa collegati.[1] La WDCRR doveva aggiornare la precedente agenda, Hyogo Framework for Action 2005-2015 , discussa nella prefettura di Hyōgo nel 2005. Hyōgo e Sendai sono simboli di morte e distruzione causate dai disastri, in quanto aree urbane colpite da due tragedie sismiche: Hyōgo è la prefettura di Kobe, distrutta dal sisma del 1995 (6500 morti), mentre Sendai è stata colpita dal terremoto e maremoto del Tōhoku del 2011 (oltre 15000 morti), noto anche per il disastro nucleare di Fukushima.

Obiettivi generali della HFA erano l’identificazione dei rischi per la creazione di una base istituzionale, il rafforzamento dei sistemi di allarme, l’uso di conoscenza, innovazione ed educazione per costruire una cultura di sicurezza, la riduzione dei fattori di rischio e il rafforzamento della fase di preparazione per una risposta più efficace ai disastri. A dieci anni di distanza tali obiettivi sono risultati abbastanza generici, stabiliti da un approccio centralista che ha omogeneizzato territori e società senza considerare né le differenze geografiche e spaziali tra contesti culturali ed economici né la complessità ed eterogeneità di luoghi, comunità e individui in termini di accesso alle risorse, vulnerabilità, marginalizzazione e isolamento. Risultata vaga ed incompleta, la HFA non è pertanto riuscita a stabilire priorità e modalità di azione sulla base di tali differenze e complessità.[2]

Su tali presupposti, la conferenza di Sendai avrebbe dovuto affrontare tali criticità con un’analisi maggiormente integrata, eterogenea e comprensiva delle molteplici scale delle relazioni causa/effetto tra ambiente e sistemi sociali. Non è questa la sede adatta per una riflessione puntuale sui risultati, ma si possono comunque riportare alcune riflessioni generali sulla base del documento finale (Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030). Esso contiene quattro priorità – comprensione del rischio, rafforzamento della governance, investimenti nella riduzione del rischio e rafforzamento della preparazione ai disastri – e presenta alcuni elementi di novità rispetto alla HFA. Vi è ad esempio un esplicito riferimento a donne, bambini, giovani, persone con disabilità, poveri, migranti e nativi come persone da coinvolgere pienamente nel processo decisionale di riduzione del rischio, ma non compare alcun riferimento a come superare quelle condizioni di marginalità che in molti contesti conducono all’esclusione di tali categorie dalla vita sociale, generando episodi di discriminazione e violazione dei diritti umani nella riduzione del rischio.

Il documento ha inoltre sancito un’apertura definitiva all’intervento del mercato nella riduzione del rischio. Un atto dovuto, in realtà, visto che la riduzione del rischio è da tempo demandata ad un’“industria del rischio” – multinazionali, imprese, compagnie assicurative, organizzazioni umanitarie e non governative- che fornisce finanziamenti, innovazione, personale specializzato e attrezzature specifiche. Il problema principale di tale apertura è che solo un rigido controllo statale o internazionale può garantire il perseguimento di obiettivi collettivi in un approccio volto al profitto. In assenza di controlli sull’operato e di trasparenza nelle relazioni tra attori istituzionali, sociali e privati, e anzi spesso in presenza di connivenza tra i vari settori (a noi basta menzionare L’Aquila), si producono invece relazioni di potere elitarie che delegittimano le istanze dal basso e non intervengono sui reali fattori di rischio.

Personalmente, colpisce l’assenza di ogni riferimento alle comunità LGBTIQ (lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, intersessuali, queer) che subiscono ancora violenze e fortissime discriminazioni sociali (e spaziali), come riportato in alcuni casi post-disastro.[3] Ad esempio, dopo l’uragano Katrina a New Orleans nel 2005, il supporto materiale fu destinato a “famiglie” con due esponenti di sesso differente e figli biologici, escludendo di fatto famiglie o coppie omosessuali. Nel post-terremoto ad Haiti del 2010 sono riportati casi di violenze su omosessuali e bisessuali in quanto ritenuti causa del disastro, e di “stupri correttivi” nei campi emergenziali a danno di persone LGBTIQ. Infine, dopo lo tsunami del 2004 in India si sono verificati vari casi di rifugi e aiuti negati agli aravanis, persone a predominanza intersessuale, in quanto non registrabili come uomo o donna nelle pratiche emergenziali.

Sorprende anche lo scarno riferimento al cambiamento climatico, ormai chiodo fisso delle agende politiche ed economiche, senza approfondirne le connessioni con gli scenari peggiorativi di rischio o la necessità di strategie ad hoc che tengano conto di pratiche di adattamento e mitigazione.

I risultati di Sendai sono stati in alcuni casi aspramente criticati in merito ad esempio alla vaghezza di termini, contenuti e obiettivi. Si accusa, tra le altre cose, la mancanza di riferimento alle capacità e conoscenze delle comunità locali come agenti cruciali per la riduzione del rischio, alla necessità di incrementare l’accesso e la gestione delle risorse da parte dei governi locali, e alle necessità di accrescere le azioni congiunte tra comunità e governi locali.

Gli spunti di riflessione che lascia la conferenza di Sendai sono quindi molti. Oltre la generale retorica politica e convegnistica, accompagnati dalla cortesia degli studenti volontari giapponesi, moltissimi eventi sono stati stimolanti, coinvolgenti e fonte di dibattito. La simultaneità delle sessioni non ha consentito la partecipazione a tutti i lavori, organizzati da servizi nazionali di disaster manager, enti non governativi, università; se sintetizzare tutto sarebbe impossibile, segnalo alcuni incontri che ho avuto occasione di poter seguire: una sessione sulle attività congiunte di adattamento al cambiamento climatico delle isole del Pacifico – tra le prima a mettere in atto strategie dopo la HFA del 2005 –[4]; un’interessante comparazione tra i servizi nazionali di disaster management di India, Pakistan, Nepal e Indonesia; una presentazione davvero affascinante sulle problematiche della gestione del patrimonio culturale nel Sud Est Asiatico; una sessione sulla governance e le relazioni tra attori istituzionali, sociali e di mercato nella riduzione del rischio; una presentazione di un sistema di allerta in un’area a rischio vulcanico in Indonesia, condiviso e accettato dalle comunità locali, coinvolte in attività di organizzazione, training e prove di evacuazione. Il primo spunto, dunque, è che chi decida di occuparsi di questi temi non può prescindere da queste esperienze globali, teoriche e sul campo, per poter analizzare casa nostra.

Come non restituire anche l’emozione di Baldwin Lonsdale, presidente delle isole Vanuatu, colpite duramente dal ciclone Pam pochi giorni prima della conferenza, che dal palco di Sendai ha indicato il cambiamento climatico come una delle cause del disastro e ha chiesto in lacrime – mentre nel paese proseguivano le operazioni di soccorso – sforzi per ridurre la moltitudine di rischi che convive nel Pacifico e mette a repentaglio la costellazione di arcipelaghi-stati sovrani, culla di culture melanesiane tradizionali ancora vive. Nel Pacifico, infatti, oltre ai sismi e alle eruzioni vulcaniche, fenomeni climatici quali alluvioni, cicloni, tornado, siccità e innalzamento del livello del mare stanno diventando più frequenti e minano la sopravvivenza di insediamenti umani, aree agricole ed ecosistemi come aree umide, lagune e barriere coralline, in alcuni casi con probabilità di estinzione nell’arco di alcuni decenni.[5]

Un altro spunto di riflessione è relativo alle modalità centralistiche e tecnocratiche con cui le agenzie internazionali gestiscono i processi decisionali.[6] Le politiche nazionali sono dettate dall’agenda neoliberale invece che dalle reali esigenze del territorio. Lo studioso David Alexander accusa la mancanza di una volontà politica nel ridurre il rischio, in quanto si intaccherebbero le priorità nazionali non coincidenti con quelle dei territori. Giusto per rimanere a casa nostra, ad esempio, l’impasse istituzionale in cui ristagna la riduzione del rischio può essere deleterio per la sopravvivenza di molti territori. In un paese in cui i danni a causa del dissesto idrogeologico colpiscono indistintamente aree pianeggianti e montane, rurali, urbane e costiere, si continua indefessamente a costruire in aree fragili, ad ospitare manifestazioni il cui valore aggiunto è il solo cemento, come l’imminente Expo di Milano, o a creare infrastrutture senza alcuna utilità collettiva, come l’inutilizzata autostrada Brebremi.[7]

Questa è la scia seguita anche dal decreto Sblocca Italia promosso dal governo Renzi che, come osserva Edoardo Salzano, cancella di fatto la molteplicità e la ricchezza delle dimensioni del territorio, ridotto a risorsa da sfruttare per la crescita economica tramite la costruzione di infrastrutture, centri commerciali o grandi opere, spesso dannose per gli stessi fini per cui vengono proposte, ma utili per i gruppi finanziari che ne raccolgono le rendite, spesso prodotte dal danaro pubblico.[8] Questo, nonostante tra gli obiettivi dello stesso decreto compaiano la mitigazione del rischio idrogeologico, la salvaguardia degli ecosistemi, l’adeguamento delle infrastrutture idriche e il superamento di eccezionali situazioni di crisi connesse alla gestione dei rifiuti. Oggi più che mai, pertanto, la riduzione del rischio diventa una questione di strutture di potere, basate sulla gestione e l’accesso alle risorse, tramite le quali governi e circuiti finanziari controllano i territori.

L’ultimo spunto è dato dalla consapevolezza che la riduzione del rischio deve passare per i territori e per la valorizzazione degli stessi come forze e agenti di cambiamento. Territori che non vanno romanticizzati o ridotti a folklore, ma analizzati criticamente e compresi nelle loro potenzialità individuali e collettive, e valorizzati nei loro movimenti sociali e nel loro associazionismo. David Alexander sottolinea come nella maggior parte dei casi abbiamo conoscenza e soluzioni per la riduzione del rischio, ma la domanda più pertinente rimane: perché le cose non vengono fatte? Personalmente, ritengo invece che, proprio per rispondere ai tanti perché e in virtù dell’esistenza di un chiaro gap di partecipazione, comunicazione e integrazione dei territori, sia ancora necessario analizzare contesti, saperi, interessi, obiettivi e meccanismi relazionali dei territori, non ancora conosciuti e profondamente differenti tra loro. Agire sui, con e per i territori è la strada per far uscire le conferenze dai centri congressi e farle incontrare con le richieste dal basso.[9] Una cultura e una coscienza condivisa del rischio, individuale e collettiva, sono dunque essenziali per un approccio davvero globale.

Note

[1] Per un resoconto dettagliato dei risultati della conferenza si veda IISD, Summary of The Third World Conference on Disaster Risk Reduction: 14-18 March 2015, Earth Negotiations Bulletin. A Reporting Service for Environment and Development Negotiations, 26(15), 21 March 2015.

[2] Alcune riflessioni generali sulle problematiche da affrontare nel percorso istituzionale sono sintetizzate in Alexander, D., The Sendai Framework for Action (HFA2).

[3] Dominey-Howes, D., Gorman-Murray, A., & McKinnon, S. (2013). Queering disasters: on the need to account for LGBTI experiences in natural disaster contexts. Gender, Place & Culture: A Journal of Feminist Geography, 21(7), 905-918.

[4] Si veda ad esempio Gero, A., Méheux, K., & Dominey-Howes, D. (2011). Integrating disaster risk reduction and climate change adaptation in the Pacific. Climate and Development, 3(4), 310-327.

[5] Si veda lo studio sugli impatti del cambiamento climatico sulle piccole isole, Nurse, L.A., R.F. McLean, J. Agard, L.P. Briguglio, V. Duvat-Magnan, N. Pelesikoti, E. Tompkins, and A.Webb, 2014: Small islands. In: Climate Change 2014: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Part B: Regional Aspects. Contribution of Working Group II to the Fifth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, Cambridge University Press, Cambridge, United Kingdom, pp. 1613-1654.

[6] Gaillard, J. C., & Mercer, J. (2012). From knowledge to action: Bridging gaps in disaster risk reduction. Progress in Human Geography, 37(1), 93-114.

[7] Cito un caso forse meno noto, Borgo Berga a Vicenza, un precarissimo complesso edilizio (una penisola di circa 100 mila metri quadrati) alla confluenza dei fiumi Bacchiglione e Retrone, aggrappato ad un lembo di terra su un fiume agli onori della cronaca per le continue esondazioni, il Bacchiglione, con il beneplacito della pubblica amministrazione. Si veda Leder F., Borgo Berga a Vicenza: il grande inganno della riqualificazione urbana.

[8] Salzano, E., Il cemento: un vizio di famiglia, in Montanari, T., (2014). Rottama Italia. Perché il decreto Sblocca-Italia è una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro, Altra Economia, Milano, 29-34. Aggiungo, come dice lo stesso Salzano, che tale politica non è ovviamente invenzione dell’attuale premier, quanto invece solo il culmine di un modus operandi di stampo prima democristiano, poi Craxiano e Berlusconiano.

[9] Oltre ai più generali No TAV e NoTriv, ad esempio, vale la pena ricordare esperienze italiane come la proposta di un contratto di fiume da parte del Comitato di Valorizzazione di Buonconvento o il Laboratorio Città L’Aquila sorto dopo il sisma aquilano per creare forme di comunicazione e partecipazione tra cittadini e politica nella ricostruzione.

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