per Umberto

Tra lauree honoris causa, libri di successo, inviti prestigiosi, chiacchierate tra amici. Un ritratto di Umberto Eco a cura di Tarcisio Lancioni.

Neobarocco Umberto Eco

Momenti come questo ci obbligano a riconnettere e a dare un senso comune a frammenti di esperienza, ricordi, prospettive, pensieri e giudizi accumulati in luoghi diversi della memoria e normalmente destinati a esistenze distinte e disconnesse. Sforzo che si accompagna a quello di provare a non essere né banali né patetici, nel tentativo di scrivere qualcosa che, almeno remotamente, possa essere in grado di onorare una figura “colossale” come quella di Umberto Eco.

Romanziere di grande successo, tale da meritare le copertine dei più importanti rotocalchi internazionali, pensatore acuto, fra i padri della “svolta semiotica” per citare un titolo di Paolo Fabbri, tanto che, almeno in Italia, ci si riferisce alla sua prospettiva “interpretativa” come a una delle due vie della semiotica (in alternativa, un po’ semplicistica, a quella “generativa” di Greimas). Tributario di lauree honoris causa e di onorificenze accademiche e civili che questo spazio non basterebbe ad elencare. Capace di influenzare espressività e stili di pensiero disparati: aneddoticamente, poco tempo fa, uno dei migliori storici dell’arte americani, Joseph Koerner, mi ha scritto, a margine di altri argomenti, che il suo lavoro è sicuramente rimasto influenzato dalle lezioni di Eco che aveva avuto occasione di seguire a Yale anni addietro (ma perché gli storici dell’arte americani sono influenzati dalla semiotica e quelli italiani no?), e giusto pochi giorni fa ho appreso che Keith Haring avrebbe dichiarato di essere stato folgorato dalla semiotica di Eco (grazie Elisa).

Protagonista di primo piano della stagione eroica della neoavanguardia, a fianco di Berio, di Balestrini, di Anceschi; intellettuale arguto e rigoroso, sempre pronto a mordere o a pungere, con sarcasmo o con ironia, per mettere a nudo le miserie quotidiane della nostra società e della nostra quotidianità riflesse nel caleidoscopio mediatico, di cui è stato uno dei primi studiosi rigorosi. Contro l’accademia benpensante, a fianco di Roland Barthes e poi di Omar Calabrese, per citare altre due figure che gli sono state molto vicine, Eco ha infatti mostrato la necessità di studiare a fondo, con strumenti adeguati, i fenomeni della cultura di massa, se non altro per imparare a difendersene, come quando, nei primi anni Settanta, lanciava lo slogan programmatico della guerriglia semiologica: occupate un posto in prima fila ovunque ci sia un televisore acceso e svelatene i meccanismi ingannevoli!

Dietro a questo monumento pubblico, i ricordi personali, l’Eco “umano”, il professore e lo scherzoso burlone, non raramente scandalosamente sboccato, pronto alla battuta salace come all’osservazione acuta o alla glossa dotta, tutto insieme, tra una citazione di Tommaso d’Aquino e un’”Osteria”, preferibilmente accompagnato alla fisarmonica dall’amico Gianni Coscia, come nella notte memorabile della festa di matrimonio di Omar Calabrese.

A Umberto Eco devo molto, perché mi ha insegnato molto. Non solo la semiotica ma anche l’etica della ricerca, scoperte insieme nelle aule affollatissime e fatiscenti di Via Guerrazzi, nella Bologna travagliata e felice dei primi anni Ottanta. Spazi in cui, vicino a Eco, insegnavano e studiavano altre figure che avrebbero caratterizzato i destini della semiotica italiana: Fabbri, Calabrese, Ugo Volli, Patrizia Violi, Giovanni Manetti, Francesco Marsciani, Isabella Pezzini, Daniele Barbieri, Patrizia Magli, Maria Pia Pozzato, Alessandro Zinna, Lucia Corrain, Costantino Marmo, Sandra Cavicchioli, Gianpaolo Proni… per ricordare solo quelli che mi sono rimasti più cari e che più hanno condizionato la mia formazione.

Una formazione che mi ha portato a “tradire” la semiotica di Eco, aderendo alla proposta teorica di Greimas. “Tradimento” maturato in realtà, come per tanti altri suoi allievi e collaboratori, proprio grazie allo stesso Eco. Perché Eco non è mai stato un dogmatico e credo che sia anzi importante ricordare che la scuola greimasiana ha trovato spazio in Italia proprio a Bologna, anche grazie a Umberto, che di Greimas ha fatto tradurre i libri nella sua collana editoriale, e di cui discuteva le idee a lezione, dando spazio ai suoi dottorandi che avevano preso la strada di Parigi per trovare idee e prospettive nuove, senza rinnegare Eco, e senza essere da lui rinnegati. Anzi, il grande sforzo semiotico di Eco, la sua via alla semiotica è stata proprio quella della mediazione, della conciliazione, fra i modelli strutturalisti, di cui aveva iniziato a criticare le debolezze in La struttura assente, e il pragmaticismo di Peirce, di cui è stato indubbiamente uno degli interpreti più brillanti.

Il mio rapporto personale con Eco si è stretto in particolare durante il lavoro di tesi, grazie soprattutto a Calabrese, mio relatore, che per Eco ha sempre avuto, ricambiati, una immensa stima e un immenso affetto. Eco mi aveva chiesto se fossi interessato a una ricerca sulla teoria del segno in Alain de Lille, mettendomi in fuga, e avevo invece trovato più interessante svilupparne un’altra incentrata sulla cartografia congetturale. In particolare avevo deciso di dedicarmi agli isolari, atlanti cartografici redatti in gran parte fra XV e XVII secolo in cui veniva sistematizzato il sapere sulle isole, incorporando le conoscenze geografiche ma anche quelle “leggendarie”, mettendo fianco a fianco terre conosciute, terre immaginate e terre ipotizzate.

Questi “testi”, scoprii presto, erano particolarmente apprezzati da Eco, che non solo ne aveva ampia conoscenza, ma di cui possedeva anche alcuni esemplari preziosi: il Bordone, di cui ha poi curato un’edizione critica, il Porcacchi, il Buondelmonti. Esemplari che mi mise a disposizione aprendomi il sancta sanctorum, i recessi più preziosi della sua biblioteca domestica, e offrendomi la possibilità di studiarli e discuterli, fino a propormi di trasformare la tesi in un libro, da pubblicare in tiratura limitata, con una sua presentazione, presso un “misterioso” circolo di bibliofili, di cui Eco era il presidente: l’Aldus Club, che si riuniva periodicamente in una libreria antiquaria in via Rovello, nel cuore della vecchia Milano. Mi trovai così proiettato in un ambiente, di cui avrei ritrovato le atmosfere nei suoi romanzi, in cui si discuteva della vita di libri rari, agognati come tesori, ma anche, soprattutto grazie a Eco, dei loro contenuti “esoterici”: saperi spesso arcani, strambi, fantasiosi, condannati irrimediabilmente ad essere perduti con il mondo che li aveva prodotti, a marcire con i libri che li contenevano, destinati com’erano a non essere mai più ripubblicati. In realtà Eco era praticamente l’unico dell’intero circolo ad essere attratto dai contenuti dei libri che venivano citati e non solo dal loro valore materiale. Contenuti destinati ad alimentare la sua fantasia narrativa e a riemergere nei suoi romanzi, soprattutto ne il Pendolo di Foucault e in L’isola del giorno prima.

Esperienza che mi ha dato la possibilità di apprezzare fino in fondo la portata della sua curiosità intellettuale, la capacità di conciliare un impianto di pensiero fortemente razionale e il piacere per ciò che razionale non è e con cui si può giocare, anche per rivelarne le debolezze o l’inconsistenza. Insieme a ciò ho avuto il privilegio di sperimentare la sua pazienza la sua generosità espresse nella preparazione del libro, dai consigli per la redazione fino alla sua revisione materiale. Pazienza che ha continuato a mostrare, anche se con qualche brusco rimbrotto, durante la preparazione della tesi di dottorato, di cui era direttore. Tra una laurea honoris causa, un libro di successo, un invito prestigioso, Eco non perdeva di vista il lavoro di chi gli stava vicino, ne ha sempre conosciuto e seguito le ricerche, dando sostegno effettivo, e ho sempre trovato che questo fosse uno dei tratti della sua eccezionalità.

Devo molto a Umberto Eco.

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