“Casa è dove ridono i tuoi occhi,
un posto a cui tornare tutti i giorni;
non è semplice luogo il tuo profumo
che ora mi abita dentro e in cui riposo.
Può spostarsi ovunque, bosco e borgo,
strada di periferia, città oppure paese.
Può essere spazio accennato o distesa,
nel deserto o in tutte le voci del mondo.
Può sembrare svanisca e trova l’altrove,
rinasce nell’attimo in cui pareva persa
come la vita che, se spezzata, rifiorisce;
adesso casa è dove ridono i tuoi occhi.”
È passato quasi un anno dalla scomparsa di Domenico Carrara. Domenico aveva 34 anni, classe 1987, poeta irpino vissuto a Grottaminarda, ha frequentato l’Università Federico II di Napoli, ed è poi emigrato temporaneamente per lavoro a Bienno, Valcamonica, dove, cadendo da un dirupo, nel gennaio di quest’anno, ha trovato la morte.
Perché parlare di Domenico nell’anniversario del terremoto irpino?
Forse perché nella sua breve vita è stato un narratore del presente, dunque nei suoi scritti c’è uno sfondo ben preciso, ed è quello della generazione post-sisma irpina. Intendo dire che Domenico, da attento osservatore quale era, ha vissuto il parziale fallimento politico del post-sisma irpino: l’inesorabile declino socio-economico, politico, e demografico dell’avellinese, la drammatica chiusura della Fiat Iveco di Flumeri, la lotta in difesa del territorio nella grave crisi rifiuti campana, o il movimento No Triv, nato per difendere l’Alta Irpinia dalle trivellazioni petrolifere, per non dire della continua e persistente fuga dei giovani verso le città del centro-nord.
La raccolta poetica postuma, Nel ripetersi delle cose (Homo scrivens, 2021), l’ultimo progetto incompiuto che ci ha lasciato, oltre a indicarne il grado di maturità, ha il merito di portare alla luce questo controverso rapporto con la provincia, fatto di un amore profondissimo e di una sempre più cosciente presa d’atto delle sue colpe nei confronti delle nuove generazioni:
“Non sai che porti la provincia dentro:
avverti le tracce che tieni strette
ovunque, nei gesti di tutti i giorni,
in questo sentirsi da sempre poco?
Lo dimentichi ma conservi casa,
un angolo poi l’altro, uno scorcio;
in fondo la strada è un riflesso
del paesaggio incontrato per primo.
Sai che la partenza ancora ti serve
a raggiungere degli oltre nel petto
mentre tutto si sfalda, prende forma
con ogni cosa che trovi al ritorno.”
Non poteva sfuggire a un attento scrutatore come Domenico, oltre al tradimento intergenerazionale nei confronti dei giovani meridionali, il caos edilizio successivo al terremoto. Vi era cresciuto in quel teatro di approssimazione, in quel fare che ricostruiva dimenticando, che dissipava la memoria dei luoghi rendendoci, man mano che venivamo su, orfani della nostra storia:
Il nostro essere nelle lamiere, / tra i residui, gli scoli, l’amianto, / le case mai finite, i copertoni, / e poi cieli che sembrano vergini, / pieni di luci dei tempi lontani, / gli sguardi terragni dei cani, /le volpi intraviste di notte.
Certo, i problemi dell’Irpinia e dell’Italia lo hanno anche costantemente nutrito: Figli di un tremore, / nati sopravvissuti, / nel paesaggio le case / diroccate, spaccate; / eredi del proseguire / di sbalzi, soprassalti, / lo spazio per sbranarci / con le parole o amarci.
Con Domenico ci incontravamo non più di due o tre volte l’anno, durante le feste di Natale o a Ferragosto, quando facevo ritorno al nostro paese. Insieme camminavamo a caso, finendo sempre al paese vecchio. Il centro storico di Grottaminarda è stato abbandonato per via del terremoto del ’62, poi in seguito al sisma dell’80 è stato quasi completamente distrutto e lottizzato. Un ultimo grazioso rione miracolosamente sopravvissuto, La fratta, dopo il 2000 avrebbe subito la stessa sorte. Insomma, con Domenico sentivamo di essere in un luogo senza più memoria né storia, forse il nostro amore per i luoghi nasceva e si nutriva, come spesso accade, di una profonda mancanza.
“Sono passato al vecchio paese:
sapeva del tuo sguardo,
delle parole crociate, dei passi lenti,
delle mani dietro la schiena larga,
della centoventisette che non volevi cambiare,
dell’estate quando ci osservavi bambini,
dei rospi in giardino e della salsa a bollire.
Sapeva, sa e saprà se riuscirò a raccontarlo
a chi viene, a un passante, al figlio di qualcuno.
Non c’è nulla che non resti trattenuto poco o molto,
la vita è un breve elenco di minuscoli dettagli.”
Come tutti gli scrittori della sua generazione, Domenico ha vissuto la scissione dei tanti meridioni d’Italia, lo smembramento delle comunità dovuto alla continua emigrazione giovanile: Terra, poter dire terra, / che poi è lei a pronunciarci / e siamo solo frasi da poco, / quello che ha per scaldarsi.
O ancora
La mia terra è diversa nel tuo sguardo, / riesco a perdonarla di più. / A vedere oltre ciò che non può dare, riscoprirla come fossi al primo passo. (…) Io sono diverso nel tuo sguardo, riesco a perdonarmi di più.
Le parole terra, provincia, paese, che denotano un lessico antimoderno, non devono trarre in inganno. Domenico Carrara non era avvezzo a facili assoluzioni, non c’è nella sua scrittura un’indistinta nostalgia interclassista ad offuscare le responsabilità, lo sperpero dei fondi pubblici, l’uso clientelare del potere dei nostri ceti medi e delle classi dirigenti locali.
Con lui, se di provinciale si tratta, è nell’accezione più nobile di chi sa che il provincialismo è un rapporto di subalternità intellettuale, morale e materiale verso il potere, che nasce nel cuore delle città, ed è un discorso importato dalla quieta accettazione dei valori del mondo urbano. Non è questo il caso. Domenico ha sempre preferito l’inazione “attiva” rispetto alla distruzione, la diserzione rispetto alla violenza, oppure i vicoli, i bar, le piazze, rispetto ai “traguardi calati dall’alto”. Semmai nei suoi versi vi è un umanesimo cosmopolita che lo avvicina agli approdi di un altro poeta irpino scomparso in circostanze tragiche: l’andrettese Pasquale Stiso. Di Pasquale Stiso amava più di tutte quella poesia che recita “Io sono restato ragazzo / anche se fili bianchi / compaiono alle tempie / e l’ombra della morte / s’insinua sottile / nel cuore.” Penso che pochi, come Domenico, potessero incarnare e sentire propri questi versi del “poeta ritrovato” Stiso, com lo ha definito Paolo Speranza in un bel libro a lui dedicato.
Forse, Domenico, anche egli uomo di sinistra, vicino alle sorti del mondo operaio e subalterno, riesce a intercettare la sensibilità di Stiso verso i contadini e braccianti di Andretta, e portarla, in altre forme, nelle urgenze del nostro secolo. Tra i due poeti intercorre una distanza di sessant’anni, eppure entrambi restano intellettuali della provincia, in grado di portare il locale in una dimensione universale. Entrambi non si fanno assorbire dalla città, ma restano piantati nei problemi della provincia.
È questo, a livello sociale, il punto più dolente della sua dipartita. Domenico era un intellettuale organico al luogo di provenienza, è stato dunque sempre dentro i problemi e la realtà concreta dei luoghi in cui viveva. Non aveva mode letterarie o riviste da inseguire, anzi somigliava sempre più alle sue parole e sapeva che il suo ruolo era di retroguardia e di difesa di una provincia fragile, priva di anticorpi contro gli annosi problemi sociali e politici, a cui una volta per tutte ha risposto:
Mentre da sopra i palchi / parlano d’uguaglianza / c’è chi a montarli muore, / non uguale abbastanza.
Nel ripetersi delle cose è l’ultima traccia di un percorso in fieri. Al di là della misura e del talento in evoluzione, il libro ci dice che nessuno prenderà il suo posto. Il suo stesso paese, o la Valle dell’Ufita, ora sono tornati muti. Tutto è di nuovo avvolto dal silenzio. Un silenzio noto e ancestrale, che magari fa comodo a qualcuno. Nel ripetersi delle cose va letto perché ha la forza di rompere questo silenzio.
“Ci sarà un posto per noi
storie minori, comparse
che sfilano un momento,
nati alla fine del mondo.
Ci sarà un luogo preciso,
qualcosa appena intuito
che senti esistere, brami
come il chiarore la sera.”