Pensieri oziosi su crisi, debito e default

di Riccardo Pariboni

Un simulacro di spettro si aggira per l’Europa. E, nonostante quanto pensino e dicano Napolitano e altre vivaci intellettualità, non si tratta affatto del pericolo rappresentato dal debito pubblico, ma piuttosto dalle misure pensate (minacciate?) per contrastare il debito pubblico stesso.

È stato già messo in luce da tanti, e anche piuttosto chiaramente, come la cura da cavallo che l’Europa e le istituzioni sovranazionali pretendono dai paesi con una esposizione debitoria pesante (Grecia, Italia e Spagna oggi, i paesi sudamericani negli anni ’80) sia, più che una soluzione, una generalizzazione e un’elevazione a livello sistemico di una situazione di crisi permanente, una situazione d’emergenza che permetta misure drastiche che mascherano nient’altro che una massiccia redistribuzione di reddito e potere dalle fasce più deboli a quelle privilegiate della popolazione. Tutto ciò, senza ovviamente minimamente andare ad intaccare il problema per il quale erano state concepite o dietro al quale erano state mascherate.

La spiegazione di tutto questo non è affatto complicata o astratta (ed oltre a essere a portata di ragionamento di qualsiasi persona di buon senso, non dovrebbe sfuggire a chi ha seguito almeno per un anno un qualsiasi corso di economia): come è risaputo, gli indicatori critici di “stabilità” di un paese sono rappresentati dai rapporti deficit/PIL e debito/PIL. Ora, non è complicato capire che misure capestro come quelle che oggi la Grecia si vede imposte (taglio drastico della spesa pubblica e sociale, congelamento dei salari, licenziamenti nel settore pubblico, scure sulle pensioni e sul welfare) non possano che avere effetti drammaticamente recessivi e depressivi sull’economia interna. Cosa che si traduce in una diminuzione del denominatore degli indici sopra menzionati, con la conseguenza che ad una riduzione in termini assoluti del debito non segue affatto una riduzione del rapporto tra debito e prodotto interno lordo.

È francamente curioso come nessun osservatore mainstream colga con chiarezza quanto accade nella pratica di un paese appena al di là del Mediterraneo, da mesi sotto tutela e assistenza, che nonostante le lacrime ed il sangue è chiamato anche in questi giorni ad un ulteriore e criminale sacrificio, con effetti molto probabilmente mortali sulla coesione sociale ed il livello di benessere.

Incidentalmente, non si può affatto valutare quanto accade in Grecia come un caso specifico e non generalizzabile. Decenni di applicazione del “Washington Consensus” ad opera di FMI e Banca Mondiale hanno prodotto unicamente questi risultati, a tutte le latitudini dove sono stati applicati i dogmi prescritti, ottenendo unicamente la profondizzazione della crisi del debito in America Latina e nel Sud-est Asiatico e rafforzando un processo di dipendenza e colonizzazione da parte del nord del mondo che fortunatamente, negli ultimi dieci anni, sembra essere stato arrestato e forse definitivamente rovesciato, almeno in quello che un tempo veniva considerato come il “patio trasero” [1] degli Stati Uniti.

Preso atto che non c’è alcuna ragione né teorica né empirica per attendersi un risultato diverso in Italia (o in Spagna, Irlanda e tutti gli altri paesi oggi nel mirino della speculazione del grande capitale finanziario internazionale), sgomberato il campo dalla possibilità e soprattutto dall’opportunità di cercare soluzioni tra le braccia di chi, le istituzioni europee, difende e propugna un’ortodossia di tagli e privatizzazioni come unica ricetta possibile, è doveroso provare ad immaginare vie alternative.

Curiosamente, la situazione critica in cui versano i conti patrii contiene in sé i germi di una paradossale posizione di forza, che lascia prefigurare una via d’uscita radicale dalla crisi del debito. Si è scritto e detto molto su come questo debito non ci appartenga, su come non spetti a noi farcene carico, su come debba finalmente pagare chi ha sempre prosperato come un parassita grazie a privilegi e rendite di posizione. Tutto vero, tutto giusto. Proprio per questo la via d’uscita risiede in una posizione chiara e univoca, potremmo definirla una minaccia, che i paesi sotto attacco speculativo devono assumere di fronte ai mercati internazionali, questo nuovo soggetto della geo-politica, una minaccia che, colloquialmente, può essere riassunta in estrema sintesi: «non abbiamo i mezzi e non li avremo mai per ripagare un stock abnorme di debito pubblico. Inoltre, non ne abbiamo nessuna intenzione, perché anche solo tentarlo avrebbe conseguenze disastrose per il nostro presente ed il nostro futuro». Tutto questo si traduce con una semplice parola, paventata come un esito funesto e che invece deve diventare uno strumento eccezionale di pressione: default. Default che non può essere controllato o guidato (controllato e guidato da chi?), un default che deve invece essere semplice riappropriazione e liberazione da soffocanti e permanenti catene.

L’ulteriore paradosso è che una postura del genere permette anche una uscita dalla palude perfettamente interna al “sistema”, uscita che sarebbe anche la più probabile e realizzabile: partendo dalla posizione di forza data da un pronunciamento chiaro che vada nella direzione di rinnegare gli impegni con speculatori e simili, sarebbe plausibile per i paesi indebitati contrattare con i propri creditori un rinegoziamento del debito, a condizioni maggiormente sostenibili, come ad esempio il dimezzamento dello stock da ripagare ed un allungamento delle scadenze dei titoli. Incidentalmente, questo otterrebbe anche il risultato di “tranquillizzare i mercati” (questa fantastica e nuova espressione, estremamente in voga), allontanando il rischio di insolvenza dello Stato interessato e togliendo alla speculazione il pretesto per il proprio agire.

Le possibili obiezioni?

  • Questo tipo di misure non sarebbero mai accettate dalle istituzioni internazionali e dalla comunità degli investitori? Per quanto riguarda il primo soggetto probabilmente no, ma questa è una scelta politica chiara che va fatta. Per quanto riguarda gli investitori, la risposta è probabilmente meno netta. Di fronte alla scelta tra vedere i titoli detenuti nel proprio portafoglio dimezzati nel valore o diventati carta straccia, la prima opzione potrebbe essere preferibile, e se non lo fosse lo deve diventare, non essendo soggetta a trattative ma semplicemente qualcosa di cui prendere atto.
  • E i piccoli risparmiatori, che investono i guadagni di una vita in BOT e CCT? Fermo restando che la quota di debito pubblico italiano detenuta da singoli cittadini è molto bassa (circa il 13%, tutto il resto è nelle mani di banche, società finanziarie e istituzioni sovranazionali), la perdita di valore dei titoli detenuti sarebbe più che compensata dal liberarsi da un vincolo che è usato da decenni come scusa per massicce operazioni di redistribuzione del reddito, delle quali la manovra finanziaria attuale è solamente l’ultimo episodio, ultimo episodio che, sotto questo aspetto, non ha assolutamente nulla di dissimile da quelle firmate Prodi-Padoa Schioppa e da quelle che probabilmente saranno immaginate da un futuro governo post-berlusconiano, così restando le cose.
  • È un’ipotesi realizzabile e giusta dal punto di vista economico? La domanda stessa, verosimilmente, non è legittima. Il considerare l’economia come una scienza esatta, con le sue leggi “fisiche” universalmente vere, è un inganno profondo ed ipocrita. Alle decisioni da prendere in campo economico sottendono sempre giudizi di valore, scelte di priorità, interessi di parte (che un tempo sarebbero stati definiti interessi di classe) da tutelare a scapito di altri. Non c’è nulla giusto o sbagliato in assoluto. Ci sono decisioni che sono giuste per le banche e per una percentuale piccolissima di popolazione, ci sono decisioni giuste per chi studia, lavora o percepisce una pensione. E sono due tipi di scelte che non si conciliano mai.

P.S.:
Un vecchio saggio sosteneva che la storia, quando si ripete, assume sempre le sembianze di una farsa. Era un vecchio saggio piuttosto lungimirante.

A distanza di qualche secolo dall’utilizzo che gli antichi Romani facevano del “divide et impera”, a distanza di qualche decennio dall’impero coloniale britannico che in India, fomentando le tensioni e le divisioni etniche, si presentava come necessario per il mantenimento dell’ordine e della pace, al giorno d’oggi le celebri agenzie di rating fanno esattamente lo stesso gioco, presentandosi come una guida ed un faro per il povero, piccolo, disinformato e sperduto investitore che ricerca tutela per evitare che i suoi soldi vadano in fumo a causa di un cattivo investimento. Proprio qui entrano in gioco Standard and Poor’s, Moody’s e pochissime altre, dando utili consigli su cosa è sicuro e cosa non lo è, su cosa è al riparo dalla speculazione e dalla crisi e cosa invece rischia di essere un “junk bond” (tralasciamo, per amore di discussione, il fatto che spesso non ci prendono. La condotta adottata agli albori della crisi dei sub-prime è cosa tristemente nota).

Peccato che la loro stessa presunta necessità sia data proprio dal loro agire come orientatori della speculazione stessa, come dispensatori di segnali che creano lo spostarsi di enormi flussi di capitali che portano esattamente ai misteriosi saliscendi borsistici dei quali tutti i giorni i nostri telegiornali approssimativamente ci informano, misteriosi saliscendi di cui fortunatamente il piccolo e innocente risparmiatore non si deve preoccupare perché l’agenzia di rating di fiducia gli offre sinteticamente tutte le informazioni di cui ha bisogno. Tutto fila, ma non c’è una certa circolarità logica in tutto il ragionamento?

Note

[1] Cortile sul retro della casa.

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