Il paradosso del curatore

Smembrare e de-localizzare patrimoni artistici.

Si lamenta da tempo il fatto che l’arte ha smesso di svolgere una funzione etica, politica o critica. L’arte è ridotta a elemento costituente di un mondo, il mondo dell’arte appunto, dove dominano strategie di comunicazione e di marketing, insieme a logiche di mercato e finanziarizzazione del valore dell’opera.

Protagonista di questo mondo non è più l’artista, ma il curatore, vero e proprio centro propulsivo di questo sistema della comunicazione e dell’economia. Negli anni passati ci si è concentrati soprattutto sul mondo dell’arte contemporanea, cui ci si riferisce spesso in senso tecnico come al mondo dell’arte tout court. In questo campo il curatore ha la funzione di un talent scout, per non dire addirittura di un cool hunter. Egli è anche l’esperto di marketing dell’artista, colui che sa cogliere i tratti interessanti per il mercato e per la critica di opere nuove, che in un certo senso comprende l’opera meglio del suo stesso autore e che per questa ragione ne cura l’immagine, la comunicazione e gli interessi.

Il curatore è il protagonista discreto del mondo dell’arte, come in un recente libro, Curator. Autobiografia di un mestiere misterioso (Marsilio 2014), ci ha spiegato uno di loro, Francesco Bonami. L’istituzione, il museo, è solo uno dei poli lungo cui si muove l’attività del curatore, il quale ha di mira gli investitori, le quotazioni di mercato, la finanza dell’arte. L’istituzione pubblica, con la sua capacità di dare prestigio a un’opera d’arte, è solo una delle variabili di questo sistema.

Il mondo dell’arte, dunque, assume sempre di più i tratti di un mercato finanziario, di un sistema economico. In tale contesto era logico che anche il museo, relegato fin qui alla funzione di una sorta di “banca centrale” che vigila sul valore degli investimenti e dei prezzi, articolasse una strategia di risposta.

Nel presente articolo, di conseguenza, si tenta di spostare l’attenzione sui curatori dei musei. Non dei musei di arte contemporanea, bensì dei musei di arte antica e moderna, dell’arte che fino a oggi abbiamo giudicato non secondo i valori del mercato ma secondo i valori (eterni) della bellezza, del genio, dell’aura, della tradizione. Anche questa arte entra ora nel circuito del mercato, ma lo fa, ci pare, secondo logiche proprie, ridisegnando gli orizzonti e le possibilità di una lettura in senso finanziario dei destini dell’arte nella tarda modernità. Quel che segue è il tentativo di abbozzare una lettura, o almeno di suggerire alcune chiavi di accesso in vista di essa, per comprendere come la “grande arte”, l’“arte bella”, così come l’ha canonizzata la prima modernità, stia divenendo anch’essa oggetto del mondo (altamente finanziarizzato) dell’arte contemporanea.

Un articolo dello scrittore Kanishk Tharoor proposto da «Internazionale» (n. 1152, 6/12 maggio 2016) e originariamente apparso sul «Guardian», dal titolo “Il Louvre arriva ad Abu Dhabi”, propone un interessante parallelismo tra la situazione dei musei contemporanei e la nascita dei musei pubblici moderni:

Quando i rivoluzionari francesi lo inaugurarono nel 1791, il Louvre di Parigi segnò una rottura con il passato. Spazzava via la vecchia tradizione delle camere delle meraviglie e delle collezioni principesche, il cui scopo era sbalordire i visitatori, glorificare i monarchi che le possedevano e consolidare il loro diritto di governare. Esponeva invece dipinti e sculture in una progressione di correnti storiche e artistiche, ciascuna delle quali esprimeva un “genio” nazionale o culturale, e si rivolgeva ai visitatori non come intenditori aristocratici ma come cittadini. Il Louvre ambiva a servire un pubblico che, per quanto messo in ombra dall’immagine della nazione, era concepito per essere il più ampio possibile. («Internazionale», n. 1152, p. 73)

Il paradosso dei grandi musei occidentali che aprono sedi negli emirati della Penisola arabica starebbe per lui nel fatto che i despoti arabi non coltivano il gusto per l’erudizione e per la storia come strumento di democrazia. Per loro l’arte legittima il potere, come accadeva per i monarchi di antico regime. Mi pare che Tharoor colga solo in parte nel segno. È logico che gli emiri facciano un simile uso dell’arte; il paradosso non sta dalla loro parte. Non si tratta di un paradosso del committente. Il paradosso è piuttosto dalla parte del curatore. Gli studiosi, formatisi a una scuola d’impronta “occidentale”, sono abituati ormai a considerare in modo critico il retroterra storicistico alla base dell’organizzazione di istituzioni come il Louvre. Leggere la storia dell’arte cercando le “progressioni di correnti storiche e artistiche” alla ricerca del “genio” è un’attitudine ormai da tempo ampiamente ricondotta dalla critica ai suoi presupposti ideologici.

Il punto è che si tratta di un atteggiamento critico che si è mosso finora all’interno dei confini della “civiltà occidentale”, rispetto al quale prevale ancora la sensazione di una sostanziale co-appartenenza del gesto artistico e del suo referente storico. Walter Benjamin, rifacendosi a Wölfflin, sostiene ad esempio che l’arte tardo-antica esprima un pathos della condizione umana estraneo all’arte che la precede in quanto è il corrispettivo di un’epoca di crisi. Svanisce l’individualità geniale dell’artista, ma resta il rapporto di scambio tra un’epoca storica e la sua arte. Tale rapporto risulta anzi rafforzato: nell’opera d’arte non si sente più tanto la voce di un singolo quanto il movimento di un’epoca. Siamo abituati a pensare in termini di un’intima coerenza interna i grandi movimenti storici: i progetti estetici, non importa se di produzione o di conservazione delle opere d’arte, sono consonanti con rivoluzioni e decadenze che investono tutta la società e la cultura nel suo complesso.

Nel nostro caso, il progetto di delocalizzazione dei musei, i quali hanno a suo tempo legittimato l’idea di una scienza universale (borghese) dell’arte fondata sul concetto di genio, sembra andare di pari passo con un crescente senso critico da parte degli studiosi verso questo genere di programmi ideologici. Eppure oggi un tale senso critico si pone al servizio non solo di visioni politiche autoritarie, ma anche della polverizzazione dello statuto teorico di una storia dell’arte emancipata dall’idea di documentare una pretesa storia del genio.

Avendo origini iraniane, quando capitai da ragazzo nella sala del Louvre che ricorda i grandi donatori del museo, fui emozionato nel leggere il nome di due scià di Persia vissuti a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Era l’epoca del colonialismo e i due sovrani furono probabilmente felici di compiacere i loro alleati europei regalando reperti archeologici che forse per loro non avevano grande valore. A seguito dell’insorgere di una più viva coscienza nazionale, altri scià (questa volta dell’Iran) cominciarono a promuovere un’archeologia “in proprio”, sostenendo le collaborazioni tra studiosi iraniani e occidentali negli scavi e creando istituzioni museali nazionali. Il risultato è che oggi le donazioni dei vecchi scià al Louvre restano a Parigi, a beneficio dei figli occidentalizzati di iraniani (cosmopoliti) che non vivono più nel paese d’origine, mentre i nuovi scià (e i nuovissimi ayatollah) non smettono di promuovere il “nazionalismo archeologico” in patria.

Questa, però, è una storia vecchia, buona per essere compresa attraverso vecchie lenti: a seconda dei bisogni quelle dello storicismo o quelle di una storia dell’arte “senza nomi”. I musei distaccati negli emirati del Golfo creano invece una situazione inedita, indecifrabile con queste categorie. Di fatto, tra curatori e committenti non sembra esserci un linguaggio comune, né appare all’orizzonte l’opportunità di formulare nuove categorie di comprensione dell’arte. Si crea un vuoto, colmabile solo da un mondo dell’arte che è sempre più, come suggerisce Tiziana Andina, modello dei processi tipici del mondo della finanza. E dopo l’esplosione della bolla dell’arte contemporanea e delle grandi gallerie private, il museo pubblico sembra essere il nuovo terreno di evoluzione per la finanziarizzazione del mondo dell’arte. La cosa è tanto più evidente se prestiamo attenzione al fatto che questi musei si costituiscono perlopiù attraverso prestiti dei musei occidentali ai loro gemelli arabi. La logica della finanza, entrata nel mondo dell’arte, non è più quella della compravendita e delle quotazioni, ma è quella del prestito.

Se il prestito resta l’unico valore d’uso dell’arte, occorre chiedersi qual è il suo interesse. Un interesse politico, naturalmente: la prosecuzione della politica estera con mezzi artistici. Meglio, la prosecuzione della politica dei prestiti (e dei debiti) sovrani con altri mezzi. È una logica che al fondo si lascia comprendere forse attraverso le modalità arcaiche del dono descritte da Marcel Mauss: un prestito dal valore inestimabile (un Monet, un Tiziano, l’arte che non ha prezzo) presuppone una risposta superiore, che porta alla distruzione dei rispettivi patrimoni.

C’è poi un sottobosco commerciale. Alla base di un prestito inestimabile vige l’idea, buona per i mercanti d’arte, che, se un Caravaggio, in quanto opera inestimabile, può essere ormai solo oggetto di prestito e non di acquisto, il mecenate neofita potrà tuttavia fare man bassa di caravaggeschi (o di “Caravaggi” miracolosamente scoperti nelle soffitte, come giustamente fa notare Tomaso Montanari), che saranno opportunamente rivalutati grazie al fatto che è stato attivato il meccanismo degli scambi e della compravendita.

Si creeranno nuovi valori inestimabili. Ma non lo si farà più seguendo in primo luogo la logica accademica e scientifica di riconsiderare il valore (estetico, artistico, sociale, culturale, storico) di autori, opere o secoli finora ignorati. Lo si farà in base alla logica politica sopra nominata della distruzione del valore. Non diversamente dai terroristi che distruggono siti archeologici unici e poi vendono al mercato nero i frammenti dei reperti distrutti, i curatori dei grandi musei, smembrandone il patrimonio e delocalizzandolo al di fuori da ogni contesto storico o culturale, introducono un elemento di perversione nel concetto tradizionale di valore artistico.

Quando hanno guardato all’Europa come a una fonte di cultura, oltre a comprare opere d’arte, formare collezioni e fondare musei, Russia e America hanno allo stesso tempo creato un nuovo pubblico e nuove prospettive per l’arte a venire. Hanno prodotto valore, hanno per così dire dato vita a una nuova industria dell’arte. Il fenomeno cui assistiamo oggi è invece quello della massimizzazione del profitto su un valore precostituito: un processo che accelera l’esplosione della bolla al mercato degli scambi dei valori culturali correnti.

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