Pamuk. La verginità degli oggetti

Chiara Scarlato legge Il Museo dell’innocenza, primo romanzo dell’autore turco dopo il Nobel ricevuto nel 2006. Il libro è uscito nel 2009 per Einaudi.

La storia d’amore raccontata da Orhan Pamuk nel romanzo Il Museo dell’innocenza – come ogni storia d’amore – gode di un certo grado di banalità e prevedibilità, se si tiene in considerazione soltanto il fatto che in essa ci sono un inizio, uno sviluppo e una fine, così come accade in generale per qualsiasi tipo di narrazione. Tuttavia, questo particolare tipo di esperienza mimetica testimonia uno dei modi grazie ai quali il soggetto aumenta la capacità della sua memoria, utilizzando gli oggetti come depositi di ricordi.

Infatti Kemal e Füsun – i due personaggi principali – raccontano se stessi soltanto attraverso i ricordi e le parole che i loro oggetti hanno registrato e, in un certo senso, tradotto in qualcosa di immateriale. Lo stare al mondo di Kemal, in seguito all’incontro fortuito con Füsun, si modifica in maniera sostanziale al punto che l’uomo inizia a raccogliere tutti gli oggetti che sono entrati in contatto con le parti del corpo di Füsun, tutte quelle cose che hanno registrato presenza tattile e che ora sono le uniche in grado di portare il senso dell’assenza in tutta la sua tragica presenza. Füsun, infatti, ha reiterato la propria morte dentro agli occhi di Kemal ogni volta che il suo corpo non è stato davanti a quegli stessi occhi: l’obiettivo di Kemal di continuare a vivere in presenza di Füsun si completa nel riconoscimento di una certa permeabilità della materia che permette di considerare gli oggetti come estensione di un corpo. Questo accade perché gli «oggetti che sopravvivono a quei momenti felici conservano i ricordi, i colori, l’odore e l’impressione di quegli attimi con maggiore fedeltà di quanto facciano le persone che ci procurano quella felicità» (p. 79).

Ma non si tratta soltanto di questo. Partendo dal presupposto che ciascuno ha la tendenza a potenziare la propria singolarità nel rapporto con l’altro, Kemal nel suo Museo dell’innocenza non vuole soltanto vivere i ricordi di lei ma anche reiterare i differenti stati che hanno segnato il passaggio verso il punto in cui le loro vite si sono incontrate. Nell’edificio che un tempo era stato l’abitazione di Füsun, Kemal accumula e riposiziona degli oggetti che diventano chiavi di accesso per la sistematizzazione puntuale di una serie di suggestioni – solitamente disordinate e presenti nei ricordi – che disegnano e trasformano esperienze vissute in qualcosa di non già realmente accaduto, poiché non più autentico ma frutto di una seconda elaborazione e di una successiva traduzione, in un processo di infinita e reiterata significazione.

In questo procedimento, l’oggetto rappresenta il punto fondamentale di accesso alla memoria, considerando la sua costituzione sostanziale di elemento parlante. Esiste infatti una differenza terminologica tra oggetto (Gegenstand) e cosa (Ding) e, nella prospettiva heideggeriana, un oggetto può diventare cosa soltanto quando riesce a trasmettere l’immagine di un mondo nel «gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali». La quadruplicità di terra, cielo, divini e mortali costituisce il Geviert, cioè il dispositivo che permette di comprendere la doppia natura della cosa nel suo movimento di presenza e assenza. È soltanto attraverso la cosa che è possibile ascoltare l’imperfezione dell’essere umano che si racconta tramite le cose, seguendo un linguaggio che non può essere interiorizzato, né può acquisire un significato nel sistema di normale codificazione simbolica.

Questa incompletezza – del tutto evidente nella vita di Kemal e Füsun – è raccontata da una quadruplice operazione che riesce a rendere l’amore che li ha legati una categoria attraverso la quale esperire una nuova modalità di passaggio nella considerazione di ciò che da oggetto diventa cosa. Il gesto di Kemal di raccogliere gli oggetti della vita segmentata che si legge nelle tazzine ancora macchiate dalle tracce di tè, nei soprammobili, negli abiti, nella grattugia e in tutto ciò che effettivamente è stato parte dei giorni suoi e dei giorni di Füsun – e che potenzialmente potrebbe essere parte della vita di una qualsiasi persona altra, mantenendo un investimento di significato del tutto differente – si completa nel racconto di Kemal allo scrittore Orhan Pamuk che decide di fissare in un romanzo la narrazione di queste vite e dei loro oggetti, non ancora cose. Una prima appropriazione del processo di trasformazione si sviluppa quando il lettore trova analogie tra gli oggetti rappresentati e le cose a cui si lega la sua particolare vita, ma l’esperienza si potenzia ulteriormente quando la casa riempita da Kemal con tutti gli oggetti che lui ha raccolto nella sua collezione subisce una trasformazione e da luogo privato diventa un luogo pubblico: il Museo dell’innocenza.

Nel rapporto di fruizione che l’individuo instaura con gli oggetti che lo circondano, esiste uno scarto di incommensurabilità che rende quegli stessi oggetti dei punti di apertura e di riappropriazione comune, soprattutto quando questi risultano dislocati dal loro ambiente naturale in una dimensione di ricostruzione e riposizionamento: nello spazio del museo di Istanbul la storia di due singolarità si potenzia in storia comunitaria. Il museo in se stesso è un luogo dell’incompletezza perché la sola visita non restituisce alcuna narrazione: è come se si entrasse all’interno di un negozio di antiquariato con dei proprietari eclettici che hanno deciso di disporre la merce in una maniera insolita.

Per riuscire a trovare quella complementarità che Kemal ha vissuto con Füsun non è sufficiente entrare nei loro luoghi e nei loro oggetti ma occorre ascoltare il racconto di Kemal, ascoltarlo nel linguaggio letterario mediato dalla figura dello scrittore Orhan Pamuk che realmente aveva incrociato la vita di queste due persone, risignificate in personaggi. Pamuk diventa Kemal nel romanzo e traduce ancora una volta la storia in modo tale che possa diventare materia di finzione, portando in primo piano il ruolo che gioca la distanza tra lettore e scrittore nell’appropriazione di un testo letterario, dal quale non ci si aspetta alcun contenuto di realtà.

Eppure, come era accaduto già nell’incipit del lungo saggio dedicato alla sua Istanbul, Pamuk enfatizza il rapporto che la sua scrittura intrattiene con il lettore, privilegiando un discorso che lega la fiducia all’ascolto, consapevole del fatto che l’unica seconda esistenza che si può vivere è racchiusa all’interno del «libro che si ha tra le mani» (p. 9) e che per questo il lettore deve affidarsi allo scrittore così come un amante deve affidarsi alla persona che ama e viceversa. Soltanto sulla base di questo presupposto è possibile instaurare un rapporto di corrispondenza grazie al quale la memoria diventa il dispositivo di conservazione della vita stessa.

La storia degli oggetti del museo nasconde il suo carattere intertestuale nell’attivazione di un processo cognitivo autonomo che è parte della percezione di ciascuno dei visitatori e il documentario Istanbul e il Museo dell’innocenza di Pamuk, girato da Grant Gee, mette in luce le diverse implicazioni che si sviluppano contestualmente a questa operazione. Le immagini delle stanze della casa rappresentano il simulacro esterno di una Istanbul che non trova più i suoi racconti negli oggetti conservati. La città è dislocata in una temporalità presente che non vive più di quei significati e che tuttavia di volta in volta riesce ad accendersi e spegnersi nei ricordi delle testimonianze dirette di chi ha regalato un po’ di memoria a quegli oggetti, una memoria che per sua costituzione non può più trovare alcuna verifica esperienziale. In questo modo, la raccolta maniacale degli oggetti sporcati da unici segmenti di vita diventa strumento essenziale per la costruzione di contenuti che riescono a svilupparsi soltanto all’interno di una narrazione, che, in questo caso, coinvolge inoltre diversi piani di sovrapposizione. Infatti, nel documentario si incrociano due linee biografiche: la vita di Kemal, racchiusa nell’edificio e la vita di Orhan, racchiusa nelle strade di Istanbul. Kemal trova le parole per raccontarsi nella voce fuori campo che legge alcune parti del romanzo, accompagnate dalle riprese degli oggetti che completano la narrazione mentre Orhan si racconta durante un’intervista con il giornalista Emre Ayvaz e le immagini di questo scambio si incontrano su schermi di vecchi televisori, in locali e stanze abbandonate. E poi c’è Istanbul, Istanbul con le sue macchine e la sua gente, Istanbul che vive di notte. Sono due prospettive a confronto: la fissità degli oggetti contro il movimento del cambiamento che non riesce a trovare una forma in qualcosa di stabile e per questo spinge a ritrovare un’identità perduta nel passato e a lasciarla lì, conservata, a comporla nello spazio definito per riuscire ad abbandonarla, in definitiva.

A questo punto, non diventa nemmeno più importante conoscere se Kemal e Füsun siano realmente esistiti e se quegli oggetti abbiano davvero toccato le loro vite. Il gesto fondamentale è al contrario riuscire a entrare in contatto con le cose, lasciare che la nostra memoria le tocchi e poi aggrapparsi a esse per liberare e togliere il peso delle immagini che raccolgono le emozioni e le persone, che registrano gli ambienti e le situazioni. Il Museo dell’innocenza è proiezione di condivisione della possibilità di continuare a vivere nel continuo movimento di dono e restituzione in cui si confrontano i diversi momenti dell’esistenza di ciascun individuo che da solo non può comporre la propria esistenza. Lasciare spazio e parola alle cose, scrivere su di esse e dentro esse, impossessarsi della loro vita e portarle fuori dal loro stato di verginità: utilizzarle come strumenti di estensione per continuare a riempire di significato le giornate, senza perdere nulla di ciò che è stato.

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