Torna, in una nuova traduzione, Nel paese dei mostri selvaggi di Maurice Sendak.
È finalmente tornato nelle librerie italiane il capolavoro di Maurice Sendak Nel paese dei mostri selvaggi, del 1963. La prima edizione italiana uscì nel 1981 per le edizioni Emme, e poi nel 1999 per Babalibri. Ora nel catalogo Adelphi di selvaggi non ci sono più solo i detective di Bolaño, ma anche i mostri di Sendak.
La traduzione dell’edizione di Emme, poi ripresa da Babalibri, era stata affidata ad Antonio Porta, poeta, figura di grande rilievo del mondo editoriale italiano, insegnante, critico, e pare anche tennista niente male. Adelphi invece ha commissionato una nuova traduzione a Lisa Topi, peraltro una delle anime di Topipittori, casa editrice di libri illustrati per bambini e ragazzi.
Quella di Sendak era una lingua a suo modo semplice, semplice nel senso più alto di questo aggettivo, ovvero chiara, efficace, poetica nella sua linearità e potenza espressiva, in meravigliosa articolazione con le illustrazioni: le parole non distolgono mai troppo l’attenzione dalle immagini; in cambio, l’esattezza di quelle parole riceve dalle immagini forza e ulteriore precisione emotiva. È un equilibrio letterariamente e artisticamente mirabolante. Il tutto, in un’opera in cui Sendak riesce a conferire ai suoi mostri selvaggi un carattere che non si sa mai con certezza se di aggressività, bonarietà o goffaggine, in un’ambiguità che è uno degli elementi fondamentali di questo libro.
Una lingua a suo modo semplice, dicevamo. Ecco perché, se da una parte la traduzione di Antonio Porta aveva il pregio di offrire ai lettori e lettrici un testo felicemente influenzato dall’attitudine poetica del traduttore, dall’altra quella di Lisa Topi ha il merito di portarci più vicini alla limpidezza della lingua di Sendak. Ma limpidezza non significa semplificazione, e non dobbiamo dimenticare che il tema qui è quello delle scelte dei traduttori, non dell’autore. Proviamo a scendere brevemente nel dettaglio delle scelte di Maurice Sendak e di quelle conseguenti di Antonio Porta e Lisa Topi.
Prima di tutto, il titolo. Tradurre Where the Wild Things Are con Nel paese dei mostri selvaggi è appropriato ma non scontato. Lisa Topi e Adelphi hanno ripreso la prima versione del titolo italiano. A tal proposito torna in mente un altro caso con la parola «wild»: The Call of the Wild, di Jack London, o Il richiamo della foresta.
Nella prefazione alla sua nuova traduzione del romanzo di London per Bompiani (2015), Michele Mari scrive a proposito del «problema della resa italiana di un titolo come The Call of the Wild»: «perché mai intraprendere una nuova traduzione se non si incomincia dal titolo? Perché migliorare un testo ovunque tranne che nella sua prima e fondamentale soglia? […] Per il nostro romanzo il problema è delicato e complesso: in primo luogo, perché si tratta di un libro letto “di norma” nell’adolescenza, e dunque filtratosi in noi con un grado di pervasività e di fisiologico autobiografismo impensabile per opere incontrate più avanti negli anni; in secondo luogo, perché nella lingua italiana non esiste, nemmeno per approssimazione, il corrispondente di wild. C’è l’aggettivo “selvaggio”, naturalmente, ma nel titolo di London wild è sostantivo [Sendak invece lo usa come semplice aggettivo, N.d.A.]. Le ragioni feticistico-regressive dell’affetto e della memoria non mi hanno lasciato molta scelta, anche perché, per trovare la forza di rinunciare a questo titolo, avrei dovuto disporre di un’adeguata contropartita sul piano della filologia».
Mari ha così confermato Il richiamo della foresta. Bene. Nel valutare il caso del libro illustrato di Sendak (e non solo il titolo), invece, quanto contano quelle «ragioni feticistico-regressive» o, più semplicemente, quell’affetto o nostalgia per la traduzione di Porta?
A proposito: abbiamo sempre dato per scontato che «things» sia opportuno tradurlo come «mostri» e «wild things» come «mostri selvaggi», e va bene. Su questo punto torna in mente il bel film del 2012 Beasts of the Southern Wild, di Benh Zeitlin: chi ha tradotto il titolo per il circuito cinematografico italiano, forse pensando proprio a Sendak, ha optato per Re della Terra Selvaggia.
In una delle prime pagine, Sendak scrive solamente «and grew–». Topi sceglie opportunamente di rendere il trattino con i puntini di sospensione: «e crebbe…»; mentre Antonio Porta opta per una triplice ripetizione, più ritmica ma meno “fedele”, quasi che la dimensione di lettura ad alta voce abbia contato più dell’aderenza testuale: «crebbe crebbe crebbe».
Ma è nella pagina successiva che abbiamo un esempio notevole. Sendak scrive: «and grew until his ceiling hung with vines / and the walls became the world all round». Porta procede così: «crebbe fino al soffitto ormai fatto di rami e di foglie / e pure le pareti si trasformarono in foresta». Stavolta è Lisa Topi a optare per una soluzione più immaginifica: «crebbe finché il soffitto si coprì di rami / e dalle pareti entrò il mondo».
Nella pagina dopo, Lisa Topi dà per implicito che di quel mondo entrato dalle pareti facesse parte anche un mare, perché il passaggio della sua apparizione («an ocean tumbled by») viene omesso in favore di, direttamente, «e sulle creste del mare apparve una barca», mentre Porta qui rimane più aderente: «e si formò perfino un mare».
In compenso, nel passaggio successivo per Porta «in and out of weeks» diventa «per mesi e mesi», mentre per Topi le settimane rimangono più fedelmente settimane, «intere settimane».
Max, lo scalmanato piccolo protagonista, arriva infine al paese delle wild things. Porta nomina il luogo dell’approdo «nel paese dove abitano i mostri selvaggi», ricollegandosi al titolo, mentre Lisa Topi snellisce l’originale e li nomina nella seconda parte della frase, usando il verbo «ringhiare» in forma transitiva: «Quando approdò, i mostri ringhiarono terribili ruggiti», quasi a posizionarsi più vicino all’originale «they roared their terrible roars»: roared/roars viene mantenuto quindi tramite un’onomatopea e un’allitterazione. Si sarebbe forse potuta mantenere perfino la figura etimologica: ruggire un ruggito.
È nella pagina successiva che la traduzione di Porta dimostra allo stesso tempo tanto la sua propensione poetica quanto il fatto di essere, semplicemente e comprensibilmente, invecchiata. Sendak scrive: «let the wild rumpus start!». Topi rende la frase con «scateniamo il finimondo!», mentre per Porta era: «attacchiamo la ridda selvaggia!»
Se un libro ti fa cercare almeno una parola nel dizionario è generalmente un buon segno (se non qualcosa da “pretendere” da un’opera letteraria); in questo caso però dobbiamo tenere conto che la scelta di Porta, letta oggi, rischia di lasciare perplessi i giovani ascoltatori – e non solo – e di costringere chi gli sta leggendo la storia a voce alta a interrompere la narrazione e a spiegare cosa sia una «ridda», termine fra il prezioso e il desueto.
A proposito di «rumpus» e «ridda». In un testo sui nomi nella letteratura per l’infanzia e per ragazzi (nel volume Giornate della traduzione letteraria 2012, a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani), Francesca Novajra ricorda come, quando si decide come tradurre per i bambini questa o quell’altra parola, non si deve temere «di ricorrere a parole nuove e difficili». La pensa come lei anche E.B. White, autore fra le altre cose di un classico come Le avventure di Stuart Little. In un’intervista alla «Paris Review» dice: «Chi cambia marcia quando scrive per bambini è probabile che finisca per grippare. […] Chi scrive per bambini abbassando il tono sta semplicemente sprecando il suo tempo. Il tono va alzato e non abbassato. […] Alcuni autori per l’infanzia evitano deliberatamente l’uso di parole che ritengono sconosciute ai bambini. Questo fiacca la prosa, e temo annoi il lettore. I bambini stanno a qualsiasi gioco, io lancio parole difficili e loro me le rimandano oltre la rete. I bambini amano le parole difficili purché siano calate in un contesto che catturi la loro attenzione». Parole sante, ma, di nuovo, non dimentichiamo che nel nostro caso è di scelte di traduzione che stiamo parlando, non di scrittura del testo fonte, cosa che complica il concetto di libertà nelle opzioni terminologiche.
Max decide infine di tornare a casa, in un luogo «where someone loved him best of all». Anche in questo caso, è Lisa Topi a prendersi più libertà: «qualcuno che lo amasse terribilmente». Porta scrive invece: «qualcuno che lo amava più di ogni altra cosa al mondo».
Ma nella pagina successiva Porta riequilibra la situazione, con una piccola inversione a cui lo deve aver spinto il suo istinto poetico. Sendak: «we’ll eat you up–we love you so!»
Topi: «Ti amiamo così tanto! Ti mangeremmo!» Porta: «noi ti vogliamo mangiare – così tanto ti amiamo!»
Concluso il viaggio di ritorno – che Sendak, con un altro colpo da maestro dei suoi, non lascia capire con certezza se sia durato un anno, settimane o un solo giorno –, Lisa Topi accorcia la frase di Sendak («fino a quella notte dove in camera sua trovò la cena»), mentre Porta ne rispetta più fedelmente la lunghezza e la disposizione («…dove trovò la cena ad aspettarlo»). Fino all’ultima pagina e alla sola frase che la costituisce: «and it was still hot» (Sendak), «che era ancora calda» (Porta), «ancora calda» (Topi).
Comparare due traduzioni facendo una sorta di gara di «fedeltà» o «infedeltà» sarebbe irragionevole e peraltro contrario, per molti versi, allo spirito stesso della traduzione, della migliore traduzione. Il piccolo confronto fatto qui vuol essere invece un omaggio grato alla traduzione libera e allo stesso tempo fedele di Antonio Porta e un segno di giubilo rivolto a Lisa Topi e ad Adelphi per aver reso di nuovo disponibile – e a tale livello qualitativo – questo capolavoro della letteratura del Novecento, e non solo di quella per bambini e bambine: quelle stesse bambine e bambini pronti a scatenare tanto una ridda quanto un finimondo. E, vi prego, noi insieme a loro.