Periferie, populismo penale e antimafia emotiva.
Torniamo sui fatti di Ostia, ricollegandoci al contributo di Pietro Saitta su Sottoproletariato, “mafia” e crisi del radicalismo di sinistra dove si problematizza la posizione di una parte della sinistra radicale che aveva esultato per l’arresto di Roberto Spada, autore dell’aggressione ai giornalisti Rai dello scorso 7 novembre.
Raramente l’elezione del presidente di una circoscrizione comunale ha ottenuto un’attenzione mediatica simile a quella registrata attorno al Municipio X di Roma. Meglio conosciuto come Lido di Ostia, dal nome del suo principale nucleo abitativo, il Municipio X si compone di otto quartieri sparsi nell’ampio territorio che separa Roma dal mare. Oltre alle contingenze politiche nazionali (la concomitanza con le elezioni siciliane) e agli episodi di cronaca contingenti (l’aggressione ai giornalisti Rai, ma anche l’incendio di un locale circolo Pd), l’attenzione mediatica riservata al caso va collegata al fatto che andava eletto il nuovo mini-sindaco dopo due anni di commissariamento prefettizio, esito dello scioglimento del Municipio X per infiltrazioni mafiose. Uno scioglimento collegabile solo in parte alla malavita di periferia al centro del dibattito attuale, in cui si punta il dito su Ostia associandola a Corleone. Il Municipio è commissariato in seguito all’inchiesta Mondo di Mezzo, meglio nota con la sfortunata etichetta di “Mafia Capitale”, di cui si è parlato fino allo sfinimento e su cui non è mancato il nostro contributo in questo blog. In seguito alle indagini, il Prefetto di Roma opta per lo scioglimento a causa di “una rilevante contiguità tra il presidente del X Municipio e i sodali di Mafia Capitale […] soprattutto in relazione all’affidamento del servizio di verde pubblico”.
Per tale contiguità, il 20 luglio 2017 l’ex-presidente (del Pd) viene condannato in primo grado a cinque anni di carcere. Si tratta della prima volta, a più di 25 anni dall’introduzione della normativa sugli scioglimenti per mafia, che si agisce su un ente del governo sub-comunale; anche se Ostia, sottolineiamo, è stata commissariata pure nel 1991, ma per gravi casi di corruzione. Fu una Tangentopoli ante litteram: quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa e la nascita del pool milanese, a Ostia Mani Pulite era già roba vecchia. Il problema, oggi come allora, è il “diffuso malcostume amministrativo”, come sosteneva la relazione della Commissione antimafia nel 1991 (p. 28). Malcostume sporadicamente osteggiato, più spesso metabolizzato: nel 1991 i commercianti “scendono in piazza compatti e denunciano come il peso della corruzione si sia fatto insostenibile”, ma dopo la caciara certe “stagnanti consuetudini” che caratterizzano l’uso privatistico della cosa pubblica presto sfiatano e la “rivolta antimazzetta (…) strada facendo perde di intensità sino a lasciar sospettare che a un certo punto si preferisca un ritorno alle vecchie abitudini” (A. Fulloni, Il caso di Ostia. Storia del preludio di Tangentopoli, Editoriale Lido, Roma 1998, p. 28).
Oggi come allora le vecchie abitudini proseguono: dal 2015 la gestione commissariale avvia a Ostia controlli stringenti sull’operato degli uffici municipali, con particolare attenzione al settore cruciale per l’economia locale (le concessioni balneari e la gestione della risorsa mare) confermando una situazione di illegalità diffusa, con permessi irregolari negli ultimi 30 anni e abusi edilizi in 71 stabilimenti su 73. Il funzionamento sregolato del comparto attira gli interessi e i reinvestimenti delle organizzazioni criminali locali. A Ostia hanno gestito stabilimenti balneari le propaggini di Cosa Nostra, gli epigoni della Banda della Magliana (per inciso, proprio gli esponenti della “batteria” di Ostia-Acilia furono tra i primi promotori della più nota Banda) e le due organizzazioni autoctone prevalenti, la cui caratura criminale ha spinto la magistratura a contestargli il reato di associazione mafiosa. Si tratta dei Fasciani e – appunto – degli Spada. Pur con importanti differenze, possiamo considerare le due compagini come estese famiglie imprenditoriali violente, tradizionalmente dedite all’usura e alle estorsioni, al narcotraffico e al controllo delle piazze di spaccio, degli alloggi popolari e della distribuzione delle slot machine. Per costoro il mercato è la sede dell’ascesa sociale e vi reinvestono senza incontrare resistenze, adagiandosi facilmente nell’economia del mare che, come accennato, poggia da tempo su registri non proprio trasparenti.
Ciononostante, la chiave di lettura maggioritaria per interpretare questo scenario si ispira ed estremizza tutt’oggi il paradigma giuridico-penale e criminologico, che ha una eco diffusa nella pubblicistica “militante” e – spesso poco consapevolmente – nella stessa letteratura storico-sociale. Qui la costruzione del nesso causale fa delle mafie una variabile indipendente, un agente patogeno estraneo al contesto che infetta la “pacifica realtà imprenditoriale come quella laziale”, non in grado di intendere “il linguaggio delinquenziale ed il messaggio criminale” dei mafiosi. Sono proprio queste le parole della Direzione Nazionale Antimafia (Relazione 2016, p. 904), che dipinge il Lazio come un gioco di guardie e ladri, con mafie cattive contro imprenditori buoni. Impostazione simile si legge nel materiale giudiziario sui Fasciani quando si dice che il loro “salto di qualità” nell’economia del mare avrebbe “inquinato definitivamente il contesto d’impresa nel territorio” ostiense (Tribunale di Roma, Ordinanza a carico di Fasciani Carmine e altri, 2014, p. 81). Mi permetto di dissentire, perché una porzione non residuale dell’economia locale consolida negli anni un ceto imprenditoriale che basa la propria mobilità ascendente su opachi circuiti politico-amministrativi utili alla distribuzione particolaristica delle concessioni demaniali, all’abusivismo edilizio e alla privatizzazione spinta della risorsa mare.
In questo scenario, le “mafie” di Ostia sono una forma peculiare di impresa familiare violenta che non rappresenta un’infiltrazione esterna e predatoria ai danni di un “contesto d’impresa” sano, ma uno dei modi di fare impresa del tutto appropriato se inserito all’interno di quella specifica costruzione sociale del mercato, già ampiamente poggiata su circuiti collusivo-corruttivi.
Quest’ampia premessa di dettaglio potrà sembrare eccessiva di fronte a un dibattito schiacciato sulla dicotomia “mafia/non mafia”. Mi sembrava tuttavia necessario provare a mettere un po’ d’ordine nelle categorie e nei vocabolari della prevalente lettura “urlata” e talvolta “miope” che attribuisce alle mafie un ruolo preponderante nella regolazione sociale, ruolo che sarebbe esercitato solo attraverso la violenza organizzata e un potere politico contrapposto a quello dello Stato. La vulgata in uso è la seguente: è tutta colpa della mafia; a Ostia la mafia sta nelle periferie, dove si limita a controllare il territorio e le piazze di spaccio; la mafia è giuridicamente “mafia” perché descritta nel suo profilo militare (estorsione diffusa e violenza); la mafia di Ostia ha alleanze extra-organizzative con tante altre mafie, nel caso specifico sancite persino da legami familiari (gli Spada con i più noti Casamonica); la mafia è amica dei fascisti che stanno in quelle stesse periferie, quindi i fascisti sono mafiosi.
Tale sequenza, seppure farcita da sfumature e virtuosismi lessicali variabili in base alla competenza degli autori e delle autrici, agli orientamenti politico-ideologici, alle testate giornalistiche e agli interessi dei rispettivi editori, viene adottata trasversalmente da tutti, compresa l’antimafia militante e gli improvvisati ed estemporanei antimafiosi di destra e di sinistra, persino radicale.
Con queste perplessità su categorie e vocabolari in uso, ho preso parte anch’io – seppure in forma sporadica – allo scambio di vedute avvenuto sulla pagina Facebook di Pietro Saitta, ricostruito nel post precedente. Scambio che poi è circolato sulla mia pagina e ha suscitato un certo sgomento, specialmente tra certi attivisti dell’antimafia laziale. Tale sgomento si collega probabilmente al fatto che ho da poco pubblicato un volume sulle mafie a Roma e nel Lazio e se scrivo di mafia devo per forza essere “contro la mafia” in un modo solo, visto che nell’antimafia si dà pochissimo spazio al pluralismo. E invece proprio su questo occorre discernere, perché dire che si è “contro la mafia” non solo è scontato, ma è anche tautologico e infruttuoso. Occorre chiarire cosa si intenda per mafia, come si concepiscono le sue interconnessioni “esterne”, quali strumenti e argomentazioni si adottano per riconoscerla, quale grado di sospensione di giudizio ci si concede rispetto a problematizzare lo Stato come bene assoluto per antonomasia.
Posizionarsi su questi e su altri elementi ha conseguenze non di poco conto sulle interpretazioni e sulle proposte (anche) “politiche” per arginare l’operatività, le condizioni di genesi e le conseguenze sociali ed economiche delle mafie. In questo quadro, le mie considerazioni su Facebook nascevano a commento di un articolo del Globalist, intitolato Ostia, l’appoggio a CasaPound arriva dal boss legato ai Casamonica, che alimentava le note tesi sulle presunte “fascio-mafie”, farcendole di imprecisioni e allusioni tendenziose piuttosto fuorvianti. Utilizzare ogni strumento per arginare il consenso ai fascisti di Ostia è condivisibile, ma adottarne di più adeguati e poggiati su analisi sufficientemente complesse sarebbe preferibile. Era il 30 ottobre e Roberto Spada era a piede libero, non formalmente componente di alcun clan sebbene fratello del più noto Carmine detto Romoletto, già condannato a 10 anni per estorsione aggravata dal metodo mafioso.
Il fatto che Roberto Spada avesse gestito una palestra in uno stabile abusivo – peraltro del patrimonio comunale – non ne faceva un caso particolare, né la sua prassi poteva dirsi inappropriata in un contesto in cui – lo abbiamo detto – l’abusivismo, l’informalità e l’illegalità è diffusa a tutti i livelli. Per di più la descrizione dell’appartenenza di Spada alla nota famiglia sinti in quell’articolo e in altri di testate nazionali assume persino toni tendenti all’esotismo se non al razzismo: una famiglia che conta decine e decine di parenti, distribuiti in tutto il Lazio, Abruzzo e Molise, la cui afferenza può non dover comportare necessariamente l’adesione a un “clan”, o quantomeno non spetta alla stampa deciderlo né può essere un’argomentazione utile alla delegittimazione dell’avversario politico, leggasi Casapound. E qui sta il punto: il consenso sociale di cui gode Roberto Spada insiste in una delle aree che esprime un certo seguito elettorale all’estrema destra ostiense. Da qui le argomentazioni che alimentano la delegittimazione politica con argomentazioni legaliste, che criminalizza i fascisti associando loro un’etichetta para-mafiosa. Per inciso, gli ambienti neofascisti, specie se commisti al tifo organizzato, sono spesso un serbatoio di violenza per la malavita capitolina. Ciononostante, tentare di arginare questa ondata nera puntando esclusivamente sulla sua presunta consistenza criminale è sintomo della debolezza di una sinistra che ha perso le periferie e che alla denuncia politica sostituisce quella in tribunale.
Gli Spada e Casapound hanno in comune gli stessi spazi di disagio sociale concentrato che, se non incanalato attraverso istanze progressiste, finisce per alimentare consenso neofascista. Di fronte a ciò sarebbe più stimolante agire o argomentare in chiave politica, affrontando le ragioni di quel disagio socio-spaziale, ricostruendo le reti e ri-occupando i luoghi capaci di tradurlo in istanze collettive e arginare così – con ogni mezzo – le squadracce di destra estrema. In altre parole, Ostia va considerata una periferia prima ancora d’essere un Litorale, e Casapound si contrasta affrontando le diseguaglianze e il diritto alla casa, il miglioramento della mobilità e la protezione del paesaggio del litorale, prima ancora di ricorrere all’etichetta mafia come mero strumento di delegittimazione politica.
Lo si legge spesso: la varietà di rappresentazioni in uso fa delle “mafie” un concetto contingente che va perennemente ridefinito tra vocabolario giudiziario, immaginari in circolazione ed esposizione mediatica. Questa costante ridefinizione non è l’esito di un confronto plurale e rappresentativo, ma di un cortocircuito tra pensiero di Stato e strutture repressive in cui il ricorso all’etichetta mafia è spesso usato per arginare e criminalizzare le “classi pericolose” che stanno ai margini del consorzio sociale. Per cui, quando nello scenario febbrile descritto sinora avviene l’aggressione alla troupe della Rai e, l’indomani, l’arresto di Roberto Spada, sembra inevitabile che gli venga imputata l’aggravante mafiosa; così la mafiosità mediatica presto diviene mafiosità giudiziaria.
A scanso di equivoci: ho descritto come “mafiose” le condotte di una parte di quest’ampia famiglia, peraltro già riconosciute in sede giudicante. Eppure, il capo d’imputazione sollevato in seguito all’aggressione non può non suscitare il sospetto che sia esito di una esposizione eccessiva, la stessa che ha dimenticato il problema politico per farne – più comodamente – solo un problema criminale, analiticamente avulso da un contesto in cui la violenza diffusa è perno della regolazione sociale, e le capocciate sono l’algebra delle relazioni sociali. A mio avviso questa ondata di populismo penale è imbarazzante per la sinistra, non solo quella radicale, ed è preoccupante questa forma di giustizia emotiva e “social”, così come è altrettanto miope e fuorviante concentrarci sulle “classi pericolose” delle periferie di Ostia mettendo un cono d’ombra sui circuiti dell’economia del mare, che restano sottotraccia e che i giornalisti non li intimidiscono a capocciate, ma con le querele: fanno meno notizia e non generano roboanti penne antimafia sotto-scorta, troppo spesso ancillari di una certa politica da salotto.