Orientalismi ai tempi dell’ISIS

Qualche settimana fa, il deputato grillino Alessandro Di Battista ha reso pubbliche su internet alcune riflessioni su Isis, Iraq e in generale sullo scenario vicino orientale. Al di là degli slogan e della strumentalizzazione politica alimentata in egual misura da Pd e M5S, questo testo ha messo in evidenza alcune criticità che caratterizzano il dibattito e il discorso sulle crisi che da tempo ormai tartassano la regione. 

Non mi riferisco tanto alle inesattezze e ai luoghi comuni grossolani che spesso si leggono sulla stampa a proposito di Paesi arabi e mondo islamico in generale, quanto a un approccio, a una prospettiva limitata che per certi versi accomuna talvolta le voci “ufficiali” a quelle che si vorrebbero critiche e di opposizione, come appunto quella dell’onorevole Di Battista.

Tale approccio in realtà, non è affatto un fenomeno di recente apparizione, ma si iscrive in una tradizione orientalista, dove le diversità e le sfaccettature del Vicino e Medio Oriente, come di qualsiasi altra parte del mondo, vengono portate ai minimi termini, semplificate fino a restituire, all’opinione pubblica e non solo, un’immagine riduttiva e assolutamente distorta della realtà sociale e politica delle zone discusse. Ciò che è interessante evidenziare nel caso in esame, quindi, sono le forme e gli argomenti attraverso i quali tale prospettiva orientalista si esprime non solo appunto nella narrativa ufficiale, naturalmente più incline a questo tipo di errore, ma anche nella narrativa di chi, al contrario, si propone di contestarla. Così da una parte ci si stupisce sempre meno nell’ascoltare analisti ed esperti fare acrobatici quanto inopportuni parallelismi tra Gaza e Iraq, tra Hamas e Isis sui principali canali d’informazione, dall’altra con troppa facilità si indicano gli Stati Uniti o l’Arabia Saudita come i soli burattinai a tirare i fili del jihadismo globale. Perciò se risulta profondamente sbagliato fare della questione palestinese semplicemente uno dei vari conflitti che insanguinano il Vicino Oriente, una situazione problematica sullo stesso livello qualitativo di Siria o Libia e non il frutto della politica coloniale israeliana, lo è similmente sostenere in maniera acritica che tutti i gruppi jihadisti siano al soldo delle monarchie del Golfo e messi in piedi, soprattutto ai loro esordi a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, direttamente dagli Stati Uniti. Rispetto a questa ultima considerazione, non si tratta di fare sconti alle politiche di questi due Paesi sicuramente e largamente responsabili da un punto di vista storico di quanto, ad esempio, sta avvenendo in Iraq, ma di spingere verso una lettura corretta e approfondita che possa diffondere un’informazione più cosciente e rappresentare il contesto dal quale estrapolare possibili soluzioni.

Quindi, mentre si ricorda giustamente l’artificiosità dei confini tracciati da Monsieur Picot e Mister Sykes all’indomani della scomparsa dell’Impero Ottomano, non si può porre l’Iraq allo stesso livello della Grande Siria (Siria, Libano, Palestina e Giordania), la quale possiede da secoli una sua identità territoriale distinta. Non a caso l’Isis si è dato un nome che distingue tra le due aeree geografiche pur contestando le attuali frontiere. Un altro aspetto importante da tenere a mente è che i moderni Stati arabi indipendenti, a prescindere da quale fosse il loro assetto ideologico nel corso della storia, si sono adattati a queste frontiere e si sono sempre spesi per difenderle, dedicando più sforzi alla loro protezione che a una loro maggiore permeabilità, una tendenza andata accentuandosi nei più recenti decenni. Lo scopo di queste puntualizzazioni non è tanto quello di correggere un’inesattezza, quanto di rimettere al centro dell’attenzione in primis le politiche e le scelte degli Stati e dei governi protagonisti della geopolitica vicino-orientale. Se gli interessi e le azioni delle grandi potenze globali ovviamente devono essere prese in considerazione, tuttavia è necessario riconoscere e soppesare il ruolo giocato dagli attori locali, dalle potenze regionali. In altre parole si tratta di riconoscere a questi Paesi, nell’esercizio di qualsiasi analisi, la capacità di mettere in atto politiche proprie, non direttamente determinate dagli Stati Uniti o dalla Russia.

È questo un elemento che si tende a trascurare e che porta a dimenticare le responsabilità di questi Stati, nel bene e nel male, negli sviluppi diplomatici, nell’insorgenza di diversi fenomeni politici, sociali e culturali come anche nella determinazione degli andamenti economici della regione. Ad esempio, come è già stato sottolineato, è a oggi largamente riconosciuto il ruolo statunitense nel fomentare, sfruttare e sostenere gruppi e movimenti di matrice jihadista in varie zone del Vicino e Medio Oriente. Tuttavia spesso si dimentica il ruolo della repressione di Stato ai danni dell’Islam politico in vari Paesi arabi, primo fra tutti l’Egitto fin dall’alba del potere di Nasser, la quale ha contribuito in maniera fondamentale alla radicalizzazione di molti intellettuali e militanti islamisti, alla base dell’elaborazione e dell’organizzazione degli attuali movimenti jihadisti.

Per concludere, qualunque opinione e analisi che si voglia informata, critica e anche in contestazione delle versioni ufficiali, non deve cadere nell’errore di un orientalismo in virtù del quale le istanze sociali, le forze politiche fino a giungere agli Stati che compongono l’attuale “Oriente” hanno un’influenza ridotta e gli sviluppi negativi delle attuali crisi sono quasi esclusivamente frutto degli interessi e delle azioni delle potenze internazionali, Stati Uniti in testa. Il caos libico è diretta conseguenza dell’intervento di Francia e Gran Bretagna ma ha anche le sue radici nell’incapacità di Gheddafi di costruire istituzioni forti che superassero le divisioni tribali di quel Paese. Parimenti la ribellione sunnita a cavallo tra Siria e Iraq è figlia non solo dell’interesse americano nel dividere quest’ultimo Paese su base etnico-confessionale, ma anche e soprattutto del sostegno dato al settarismo sia dal premier iracheno uscente Al-Maliki che dalla dinastia degli Assad in Siria. In fondo non si tratta altro che di fare dell’autodeterminazione di questi Paesi la prima lente nella nostra lettura degli eventi.

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