Ordini esecutivi, da Roosevelt a Trump

In tempi di ordini esecutivi presidenziali che cercano di mettere al bando intere comunità discriminandole su base etno-religiosa, pubblichiamo un reportage di Luca Peretti da un suo viaggio alla Franklin D. Roosevelt Presidential Library and Museum, dove in una recente mostra si ripercorrono le tappe di un ordine esecutivo con cui Roosevelt, nel 1942, fece internare oltre centomila giapponesi americani.

Le Presidential Library sono un’istituzione americana, tanto radicata quanto poco conosciuta fuori dagli Stati Uniti: un network composto da tredici biblioteche-museo dedicate agli ultimi presidenti americani, da Hoover (aperta però solo negli anni Sessanta) fino a Bush figlio, e nel 2020 dovrebbe aprire quella di Obama. Vi si conservano documenti, memorie, libri, tutto ciò che riguarda i presidenti, che spesso sono lì sepolti. Sono insomma i luoghi dove si va per studiare e conoscere la vita e le opere degli uomini che hanno guidato gli Stati Uniti e dei loro principali collaboratori e spesso famigliari (a partire naturalmente dalle first lady).

Il primo a creare la propria biblioteca e inaugurarla al pubblico addirittura mentre era ancora in carica – per quell’inaspettato, e oggi non più possibile, third term – è stato Franklin Delano Roosevelt (FDR) nel 1941. Originario di un paesino sul fiume Hudson  (Hyde Park) a circa due ore da Manhattan, proprio qui FDR costruì la sua biblioteca e stabilì il suo lascito materiale e intellettuale, facendo nascere una consuetudine che dura fino ad oggi. Molto è cambiato nella zona da quando il presidente della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale era in carica. Quello che era all’epoca un pullulare di industrie appare oggi al visitatore come una tipica zona post-industriale della lunga Rust Belt americana. Dal trenino che da New York costeggia l’Hudson si scorgono bellissime fabbriche dai mattoncini rossi in rovina, mentre il centro di Poughkeepsie, trentamila abitanti, dieci minuti dalla Franklin D. Roosevelt Presidential Library and Museum, è parzialmente abbandonato.

Da queste parti, un secolo fa, c’era anche una fabbrica della FIAT che ha avuto breve vita, mentre il centro culturale italiano – fondato nel 1928 – svetta ancora al centro del paese insieme alla statua di Colombo (non si segnalano dibattiti per la sua rimozione). Sia FDR, nato nel 1882, che la lontana cugina poi moglie Eleanor erano di casa da queste parti dello stato di New York, dove la buona-borghesia-quasi-aristocrazia nel nord-est americano ha le sue mansion più belle. Fa una certa impressione vederle ora, in contrasto con il declino post-industriale, resti di un mondo, le belle case e le fabbriche, che a queste latitudini praticamente non esiste più.

La FDR Presidential Library and Museum non è però soltanto una di quelle ville sfarzose, è anche l’esempio di come si costruisce la propria memoria, visto che il presidente stesso costruì il suo archivio, tanto che Robert D.W. Connor, l’archivista nazionale del tempo, ebbe a dire che FDR “is the nation’s answer to the historian’s prayer”.[1] 

Una memoria che, a differenza di altri musei agiografici, cerca anche di portare in luce i caratteri controversi e gli aspetti meno gloriosi (o presunti tali) delle persone a cui sono dedicate: da quelli piccoli, come le presunte relazioni extra-coniugali di cui sono protagonisti FDR e Eleanor, a quelli più vistosi, come l’Executive Order 9066. Se FDR è ricordato soprattutto per il ciclo di riforme progressiste che sono passate alla storia con il nome di “New Deal”, si ricorda molto meno che fu anche il presidente che firmò l’ordine di internamento di più di centomila di giapponesi americani dopo l’attacco di Pearl Harbor, attraverso appunto l’Executive Order 9066 del febbraio del 1942.

Nello stesso periodo, furono vittima di misure restrittive anche gli altri nemici degli Usa, ma in misura infinitamente minore, con  circa 11000 tedeschi internati e 3000 italiani. Dopo la guerra, si parlò poco anche negli Stati Uniti di questa vicenda, fino alla fine degli anni Ottanta quando prima Ronald Reagan poi altri presidenti compiono una serie di atti simbolici e materiali di riparazione.[2] Del 1987 è anche la mostra A more Perfect Union: Japanese Americans and the Constitution organizzata dallo Smithsonian Institution, cioè uno dei luoghi dove viene illustrata, costruita e insegnata la storia e la memoria degli nazione. 

Fu un provvedimento molto criticato già all’epoca (anche dalla stessa Eleanor Roosvelt, in conflitto con il marito), non soltanto perché andava a colpire un gruppo integrato nella vita e nel sogno americano che contava professori universitari, artisti, e via dicendo, nonostante il razzismo che per anni si è scagliato contro la popolazione asiatico-americana; ma perché si notava come appunto l’Executive Order cavalcava questo sentimento razzista, discriminando cittadini americani (oltre il 70% degli internati lo era) per quello che erano e non per quello che avevano fatto – “persone che non hanno commesso nessun crimine”, come disse Eleanor Roosvelt.

Puntare l’attenzione su questo internamento spezza anche la narrativa bad guys/good guys che caratterizza molte esperienze a stelle e strisce, specie quelle che si svolgono lontano dal suolo americano, specie le guerre: «Noi – scrive Erica Harth nell’introduzione del libro che ha curato sulla memoria dell’internamento – che all’estero eravamo i campioni di libertà e democrazia abbiamo incarcerato fino a 120000 persone di etnia giapponese, colpevoli solo delle loro origini».[3]

Settantacinque anni dopo la FDR Presidential Library and Museum ricorda quell’atto con un’interessante mostra che ricostruisce la genesi di questo provvedimento, ma soprattutto la vita quotidiana dei campi di internamento attraverso le fotografie di alcuni dei più importanti fotografi dell’epoca, tra cui Dorothea Lange, autrice di Migrant Mother, la fotografica iconica della Grande Depressione, e Ansel Adams.

Inutile sottolineare la felice (o infelice a seconda delle sfumature) coincidenza, in tempi di altri infausti Executive Order presidenziali volti a togliere la libertà o impedire la circolazione di esseri umani in base alle loro etnia: in altre parole, il ciclico ritorno – se mai se ne va – del razzismo istituzionalizzato.

Nel settore del museo dedicato alle mostre temporanee, le foto di un gruppo di fotografi – incluso un giapponese americano – mostrano la vita quotidiana all’interno dei campi, dal lavoro, allo sport, al tempo libero (tanto, loro malgrado), alle interazioni pacifiche con i loro carcerieri.

Situati quasi solo nell’ovest degli Usa – dove vivevano la maggior parte dei giapponesi americani – questi campi erano spesso costruiti su territorio nativo americano, sotto la supervisione di una specifica agenzia governativa (la War Relocation Authority, WRA). La stessa WRA finanziava campagne fotografiche con fotografi più o meno noti (Dorothea Lange, Clem Albers, Francis Stewart, e Hikaru Iwasaki), le cui foto sono adesso in mostra integrate da quelle di altri fotografi “indipendenti”, come George e Frank Hirahara o Ansel Adams.

Circa duecento fotografie bellissime, che, come quelle più famose degli anni della depressione che recentemente l’Università di Yale ha rilasciato, raccontano situazioni difficili senza esteticizzare il dolore e la sofferenza. Il dibattito su come considerare questi campi, e come chiamarli, dura da allora: War Relocation Center, relocation camp, relocation center, internment camp, ma anche concentration camp[4] sono le varie definizioni su cui gli studiosi si sono interrogati.

Sicuramente luoghi dove esseri umani venivano privati della libertà su base etnica, ma siamo lontani anni luce dai campi di sterminio coevi: eppure, le immagini di un gruppo di giapponesi in fila davanti a un treno circondato da militari americani, o quella di bambini in mezzo alle valigie con attaccata etichette modello merce da vendere non possono che far venire in mente quelle tristemente più famose delle deportazioni degli ebrei.

Colpisce, tra le altre, una foto dell’interno di una baracca di un campo con gagliardetto della California che campeggia orgoglioso: del resto, malgrado fossero rinchiusi e umiliati, l’attaccamento di molti giapponesi americani alla propria patria non venne meno, andando anche a combattere nel 442nd Infantry Regiment e nel 100th Infantry Battalion dell’esercito americano composti quasi solo da cittadini di origini giapponese. Soldati che, tra l’altro, furono protagonisti anche della campagna d’Italia, come ricostruisce da Andrea Giannasi nel suo I Nisei in guerra. La partecipazione dei nippoamericani alla campagna d’Italia (1944-1945) (Prospettiva editrice, 2010).

Molto interessante è la storia delle foto che Adams fa al campo di Manzanar, uno dei più importanti, parte delle quali sono esposte alla mostra. Già molto conosciuto come fotografo di paesaggi, Adams visita il campo nell’autunno del 1943, e pochi mesi dopo le foto sono esposte nello stesso campo con funzione educativa, “i giapponesi americani vengono così ‘educati visualmente’ su come si dovevano percepire” ha scritto l’americanista Ingrid Gessner.[5] Già nel 1944, Adams pubblica un libro, Born Free and Equal, con le sue foto, che vengono anche esposte in varie città e musei, incluso il MoMA, prima di essere donate alla Library of Congress nel 1965. Adams si muove quindi sul crinale di dimostrare come i giapponesi erano fedeli e patriottici, mentre Clem Albers e Dorothea Lange erano più radicali. Quest’ultima accusa addirittura Adams di idealizzare l’internamento.[6]

Altre foto particolarmente sconvolgenti sono quelle dell’esodo di interi quartieri delle città della West Coast, con proprietà lasciate (e che non sempre riavranno indietro) e negozi che dovevano essere ceduti: in una foto, campeggia un cartello che inquietantemente segnala come ci siano “new management white americans”. E sicuramente, anche l’Executive Order 9066 si può inserire all’interno della lunga lotta di un certo tipo di establishment Usa per preservare una presunta bianchezza americana, a discapito degli elementi perturbanti che via via si presentano (e che, in passato, avevano solo diverse variazioni di bianco, per così dire, come irlandesi, italiani, est europei). Come scrive lo studioso Greg Robinson «l’internamento non fu semplicemente un errore dovuto all’eccessivo zelo ma una tragedia per la democrazia […]. Il governò violò il principio essenziale della democrazia: che tutti i cittadini hanno gli stessi diritti».[7]

Che questa mostra venga proposta adesso, quando siamo nel bel pezzo dell’episodio forse più importante e pericoloso di questa assurda lotta, quando il presidente bianchissimo ha spodestato l’ospite nero indesiderato dalla White House, è estremamente significativo.

[L’autore ringrazia Giulia Sbaffi]

Note

[1] Citato in Miriam A. Drake (a cura di), Encyclopedia of Library and Information Science, Second Edition, Marcel Dekker Inc., 2003, p. 2539.

[2] Si veda, tra gli altri, l’introduzione e l’appendice in Erica Harth (a cura di), Last Witnesses. Reflections on the wartime internment of Japanese Americans, Palgrave, 2001

[3] Harth 2001, p. 1.

[4] Per Ingrid Gessner, autrice di un’interessante saggio sulla memoria visuale dei campi, interment camps è il più accurato, proprio per distinguerli dai campi nazisti. “A Note on Terminology”, in From Sites of Memory to Cybersights. (Re)Framing Japanese American Experiences, Universitätsverlag Winter, 2007, p. xvi.

[5] Gessner, 2007, p. 264.

[6] Citata in Gessner, 2007 p. 273.

[7] Greg Robinson, By Order of the President FDR and the Internment of Japanese Americans, Harvard University Press, 2003, p.6

 

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