Tra semiotica, ermeneutica e storia dell’arte. Su “Opacità della pittura. Saggi sulla rappresentazione nel Quattrocento” di Louis Marin

La Casa Usher ha pubblicato la traduzione di Opacité de la peinture, importante raccolta di scritti del grande studioso francese Louis Marin (1931-1992) dedicati, come recita il sottotitolo, al tema della rappresentazione nella pittura quattrocentesca.

Direttore di studi presso la prestigiosa École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi nell’ultima parte della sua lunga carriera, Marin ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della recente riflessione filosofica sull’immagine e sulla rappresentazione, aprendo una feconda linea di indagine sui rispettivi statuti ontologici.
Con uno stile di pensiero capace di attraversare diversi confini disciplinari, lo studioso ha coltivato ammirevolmente l’arte di coniugare saperi distinti, facendo “reagire” in modo positivo, tra l’altro, linguistica, semiotica, ermeneutica e storia dell’arte. Ciò gli ha consentito di esaminare gli oggetti delle sue indagini a partire da interrogativi inediti (o quasi) per molti dei paradigmi di ricerca tradizionali. Opacità della pittura racchiude l’intero asse delle coordinate teoriche dell’autore e offre un saggio delle potenzialità analitiche dei modelli da lui elaborati, permettendo di valutarne i punti di forza e le debolezze.

Marin sviluppa e mette alla prova il suo programma di ricerca cimentandosi nel confronto con cinque opere arcinote del Rinascimento italiano e con una serie iconografica considerata nella sua evoluzione quattrocentesca. Sei scritti sono dedicati rispettivamente all’esame delle pitture di Luca Signorelli nella Sacrestia di San Giovanni del santuario mariano di Loreto, di Pinturicchio nella cappella Baglioni in Santa Maria Maggiore a Spello, di Paolo Uccello nelle lunette nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella a Firenze, di Piero della Francesca nel coro di San Francesco ad Arezzo, di Filippo Lippi nel Duomo di Prato e infine di un gruppo di Annunciazioni toscane.
Uno degli obiettivi preminenti degli scritti contenuti nel volume consiste nel mettere in luce la teoria che rende possibili i dipinti elencati e che ne governa il regime semiotico. Diversamente da quanto accade di norma nelle ricerche analogamente orientate essa, però, non viene cercata nella letteratura artistica. Marin, infatti, si allontana piuttosto nettamente dalle tendenze usuali e consolidate, provando a dedurre – o “disimplicare”, per dirla con lo studioso – la teoria direttamente dalle opere mediante un meticoloso lavoro analitico. La differenza è di non poco conto e deriva in buona misura dalla matrice strutturalista-semiotica del pensiero di Marin, per la quale, in estrema sintesi, ogni opera contiene le regole del suo gioco.

Lasciando al lettore il compito e il gusto di affrontare nel dettaglio il merito dei singoli testi e di rilevarne gli aspetti problematici – non pochi, ma incastonati in un’intelaiatura nel complesso molto suggestiva – questa recensione desidera evidenziare alcuni dei fondamenti che autorizzano Marin a concentrare gli sforzi nella direzione indicata. Si proverà quindi a illuminare qualche nervatura del suo pensiero, non sempre di facile accessibilità, cercando di tenersi il più possibile lontano dalla scorciatoia del ricorso alla citazione.

Disimplicare la teoria dalle opere, come detto, è uno degli scopi cardinali del progetto analitico di Marin. Questo programma si fonda su una complessa impalcatura di tesi strettamente interrelate, relative alla natura della pittura e in particolare di quella figurativa. L’assunto che funge da architrave può essere sintetizzato così: la pittura (figurativa) dispone di due facoltà fondamentali, che si manifestano sempre in compresenza: essa rappresenta e allo stesso tempo provvede a mostrare i modi in cui svolge questa azione. La seconda proprietà, che sposta l’attenzione sull’essenza della pittura stessa, ha occupato un posto marginale nella storia del pensiero occidentale sull’immagine. Per Marin, invece, essa va portata in primo piano per almeno due ragioni: 1) vi si annida una componente centrale nella teoria che sorregge le immagini e, 2) svolge un ruolo decisivo nella produzione di senso della sfera iconica.

È di qualche interesse osservare che una sollecitazione ad occuparsi di questa particolare dimensione della pittura era giunta a Marin, già negli anni Settanta, dalla meditazione sui lavori di Michael Fried (soprattutto Art and Objecthood, del 1967). In Détruire la peinture (Editions Galilee, 1977, p. 130), Marin dichiarava, infatti, di voler generalizzare le tesi di Fried sulla dimensione “autocritica” della pittura modernista, scrivendo: «ogni dipinto, ogni opera di pittura e in particolare di quella rappresentativa è se non esplicitamente, almeno implicitamente autocritica: nel senso che pone pittoricamente i problemi fondamentali inerenti alla pittura, alla rappresentazione della pittura stessa» (p. 130).

La tesi fondamentale, il vero nucleo dell’assetto di Marin, viene quindi sviluppata e sistematizzata attraverso la teoria dell’enunciazione. Essa fornisce allo studioso francese il paradigma che postula l’esistenza della doppia qualità dei fenomeni comunicativi, dà conto della loro relazione, delle rispettive funzioni, e prospetta altresì un modello ontologico tutto sommato abbastanza facilmente esportabile nel dominio delle arti visive. L’intera architettura concettuale di Marin si articola, insomma, su alcuni dei principi del modello descritto, opportunamente combinati con certi principi della semiotica. Uno dei presupposti che autorizzano il trasferimento del modello nel campo della pittura è il seguente: per Marin l’enunciazione è un fenomeno non solo linguistico, ma riguarda anche la sostanza dell’espressione visiva. Tale premessa produce (anche) un preciso impegno ontologico. Sulla scorta dell’assunto, infatti, lo studioso può concepire i dipinti – definiti «segni» o «combinazioni di segni» – come enunciati (p. 23).

Quanto, invece, al tema della doppia natura della rappresentazione, Marin lavora a partire da uno dei punti cardine della teoria, che può essere riassunto grossomodo come segue: ogni enunciato dice qualcosa e, allo stesso tempo, «dice qualcosa della propria enunciazione, la commenta, la descrive, la mostra per il fatto stesso di esistere in quanto enunciato» (p. 24). Quindi, l’atto di enunciazione si concretizza sempre in modo duplice: si manifesta, cioè, transitivamente (nel dire qualcosa) e riflessivamente (nel mostrare di dire qualcosa). La sfera riflessiva – occorre sottolinearlo – presenta la caratteristica di lasciar affiorare alcune delle regole che si situano alla base dell’enunciato. Il punto delineato si presta anche alla descrizione del funzionamento base dell’immagine referenziale. Nell’ottica dello studioso, infatti, in un dipinto sono compresenti la rappresentazione transitiva e la sua dimensione riflessiva.

Per definire le due modalità del campo visivo, Marin ricorre a una coppia di metafore, “trasparenza” e “opacità”, che costituiscono delle vere e proprie macchine euristiche nell’economia complessiva del suo pensiero. I tropi in questione permettono, in particolare, di illuminare un paio di aspetti nevralgici del rappresentare con la pittura. La trasparenza è la qualità che risulta dal processo di occultamento del carattere materiale e finzionale dei segni pittorici. Detto altrimenti: una rappresentazione figurativa è trasparente quando si adopera per far dimenticare che si tratti, ad esempio, di colore steso su una superficie bidimensionale. Con la metafora dell’opacità, invece, si designano quelle componenti della pittura che attraggono l’attenzione sul suo carattere costitutivo e che aprono una finestra, per così dire, sul suo sistema operativo. Opaca è la mansione “presentativa” della rappresentazione, vale a dire quella funzione che consiste nel mettere lo spettatore nelle condizioni di vedere qualcosa, di vederlo in un certo modo e magari di essere persuaso da ciò che vede. La dimensione opaca, per Marin, concorre in modo determinante alla produzione di senso delle arti visive. Ne consegue che la ricerca del significato non può prescindere dall’esame di questo aspetto. Per l’ermeneutica della pittura, quindi, il come della rappresentazione assume la stessa importanza del cosa entro determinati contesti pragmatici.

Oltre a stabilire la rilevanza dell’opacità, la teoria dell’enunciazione dischiude a Marin anche la possibilità di analizzare alcuni dispositivi che regolano l’interazione tra opera e spettatore, offrendogli l’impalcatura concettuale adeguata per mettere a fuoco il funzionamento delle immagini sotto questo rispetto fondamentale. Molto schematicamente, l’idea della teoria che interessa a Marin è questa: ogni situazione enunciativa implica il posizionamento di chi dice o mostra e di chi ascolta, legge o guarda rispetto all’enunciato e quindi rispetto al proprio “interlocutore” virtuale o reale. Ogni enunciazione, pertanto, prevede un sistema di punti di vista e uno spettro di interazioni possibili.

Nell’ambito della pittura, com’è noto, sono diversi gli elementi che cooperano alla costruzione dei punti di vista e ad istituire il modo della relazione tra l’autore, l’immagine e il fruitore. Si tratta di elementi che svolgono una funzione analoga a quella dei cosiddetti deittici nel linguaggio, quelle espressioni, cioè, che in un enunciato fanno riferimento alla sua situazione spazio-temporale e alle persone che lo emettono o lo ricevono. Per Marin, i sistemi di definizione dello spazio (e in primo luogo quello prospettico) rivestono un ruolo primario nel modellare l’interazione dello spettatore con la scena rappresentata, provvedendo a predisporne la collocazione di fronte ad essa. Lo studioso dedica non poche pagine, ad esempio, alla discussione dell’influenza che la posizione di chi guarda suggerita dalla prospettiva esercita sull’esperienza cognitiva ed emotiva delle immagini. Lo sguardo congegnato dalla costruzione legittima, consentendo tra l’altro di inferire il punto di vista ideale dell’autore, è infatti uno strumento strategicamente decisivo per orientare la comprensione del senso.

Una citazione da Jacques Fontanille (L’osservatore come soggetto enunciativo, tr. it. parziale di Les espaces subjectives. Introduction à la sémiotique de l’observateur contenuta nel volume Semiotica in nuce. Vol. II. Teoria del discorso, curato da Paolo Fabbri e Gianfranco Marrone) permette di riassumere icasticamente il nodo delle dinamiche dell’intersoggettività appena accennate: «la scelta di un punto di vista rappresenta, per l’enunciatore, uno dei mezzi più certi per imporre all’enunciatario [vale a dire il fruitore] una lettura univoca dell’enunciato: la scelta del punto di vista infatti equivale per lui a simulare nell’enunciato la sua stessa posizione d’enunciazione che l’enunciatario dovrà adottare per ricostruire la significazione» (p. 47).

Nella semantica e nella pragmatica della rappresentazione costruite da Marin a partire dai fenomeni enunciativi, possiedono considerevole e ovvio rilievo anche i segni più evidenti della deissi, come la direzione e le trame degli sguardi dei personaggi raffigurati e i loro gesti di indicazione. Tutti elementi questi in grado di gestire la disposizione degli osservatori rispetto agli eventi messi in scena. Frontalità e profilo dei protagonisti dell’immagine – il debito con le ricerche di Meyer Schapiro (Parole e immagini: letterale e simbolico nell’illustrazione del testo, in Per una semiotica del linguaggio visivo, pp. 120-191) è qui evidente – sono importanti veicoli di significato e agenti di prim’ordine nella modalizzazione dello spettatore: l’apostrofe rivolta attraverso uno sguardo innesca, ad esempio, un nesso intersoggettivo del tipo io/tu, sollecitando gamme di possibilità emotive assai diverse da quelle implicate nelle situazioni di absorption, per dirla con Michael Fried (Absorption and Theatricality. Painting and Beholder in the Age of Diderot, Berkeley and Los Angeles 1980). Un indice proteso, d’altra parte, nell’assetto delineato è capace di attivare un intero sistema di rapporti spaziali.

Alla genesi del senso contribuiscono poi, per Marin, altri dispositivi tipicamente “presentativi” e complementari rispetto a quelli menzionati, come l’inquadratura e i suoi margini, le cornici interne ed esterne al campo figurativo, quelle concrete e quelle ideali, nonché la “scenografia” di un dipinto, da intendersi in senso propriamente teatrale (quinte, pavimenti, volte) e «tutto il lavoro della pittura tra piano, superficie, sfondo e supporto della rappresentazione» (p. 95). I congegni enumerati – va detto – certo non sfuggono all’attenzione dell’analisi storico-artistica tradizionale: il più delle volte, tuttavia, sono considerati quali semplici ornamenti o, nella migliore delle ipotesi, parti strutturali ma in chiave meramente estetica. Nell’orizzonte teorico di Marin, invece, hanno un’incidenza forte, in particolare, sulla messa in immagine dei racconti, sia per quanto riguarda l’articolazione della temporalità, sia, soprattutto, per ciò che concerne l’espressione di determinate proposte esegetiche: alle inquadrature, ai montaggi, alle relazioni tra lo spazio planare e quello di profondità, infatti, viene opportunamente riconosciuto il potere di magnificare o narcotizzare i “contenuti” delle storie. Le immagini, dunque, non sono semplici illustrazioni o depositi del testo, ma lo ricreano secondo modalità peculiari.

Alla luce di quanto detto, non sorprenderà che l’architettura raffigurata occupi un posto speciale nelle analisi dello studioso. Essa esibisce, emblematicamente, la duplice facoltà della rappresentazione: è l’esempio cristallino della figura transitiva e presentativa, perché sostituisce un referente reale o immaginario e, allo stesso tempo, si incarica di ostendere, di sottolineare, di organizzare il materiale narrativo, rivelando l’artificio e mostrando alcune delle regole del gioco. L’architettura è quindi “personaggio” ma anche “istruzione per l’uso”, elemento della storia e elemento che facendo funzionare la storia stessa ne irreggimenta la ricezione.

In ragione di questi presupposti generali, Marin si impegna a focalizzare, in tutti i saggi della raccolta, specialmente il rapporto tra l’architettura reale e quella della finzione. Esamina con minuzia i punti dell’ideale trapasso dall’una all’altra e i modi in cui l’interazione tra le due detta le regole dell’osservazione, sprigiona effetti di senso e fa affiorare il significato.

Nell’impostazione delle interpretazioni di Marin si trovano, inoltre, i semi di una narratologia visiva che, seppur incompleta e disorganica, prospetta un terreno di ricerca assai fertile per le discipline che si occupano di immagini. La seconda parte del libro abbozza un modello narratologico fondato sulla tesi, ormai familiare, secondo la quale i lavori degli artisti contengono in nuce le proprie direttive; procede quindi attraverso la scansione lenticolare delle opere, dalle quali sono enucleate le teorie narrative implicite.

Sin qui si è provato a porre in luce alcuni dei pilastri epistemologici del volume. Conviene aggiungere, almeno, che Marin si dimostra pienamente consapevole delle possibili accuse di anacronismo del suo metodo e sensibile nei confronti degli argomenti dello storicismo, tornando a più riprese sul problema della legittimazione del suo programma di ricerca. La posizione di fondo dello studioso, in proposito, pare potersi riassumere nella distinzione, ridotta ai minimi termini, tra leggi (enunciazione) e proprietà (opacità e trasparenza) universali che vincolano, entro certi limiti, la significazione delle immagini, e le teorie che innervano i funzionamenti individuali delle opere (o di gruppi di opere), obbedendo «a costrizioni storiche, culturali e sociali» e variando col variare dei contesti (p. 26).

Il libro, comunque, al di là dei risultati delle singole indagini, ha il suo punto di forza maggiore nel carattere seminale delle principali direttrici che lo attraversano e che in questa sede si è cercato di rendere disponibili. Esso pone certamente non poche sollecitazioni, in particolare, all’orizzonte degli studi storico-artistici. Anche solo una lista delle parole chiave del volume dovrebbe essere sufficiente a rendere solare la pertinenza e la rilevanza dei temi affrontati per la disciplina anche ai più convinti assertori del “culto del fatto”. Nell’elenco ideale compaiono di diritto, infatti, diverse teorie (della rappresentazione, dell’immagine, della descrizione) e almeno un paio di pratiche nodali (ermeneutica e semiotica della pittura) con tutta la loro attrezzatura conoscitiva, la cui utilità per la prassi della storia dell’arte sembra oggi difficilmente contestabile.

Sapere di cosa (e come) si fa storia, del resto, dovrebbe costituire il requisito minimo per qualsiasi opzione metodologica. Opacità della pittura, come capita solitamente con i buoni libri, ha diversi spunti da offrire sul problema e prospetta un fascio di posizioni con cui è perlomeno opportuno fare i conti, quale che sia il giudizio complessivo sull’opera di Marin. D’altra parte, l’invito del testo a «pensare con la pittura» (Giovanni Careri, Prefazione, p. 10) – tema caro, tra gli altri, anche a Hubert Damisch – è troppo ghiotto per essere lasciato cadere.

[Questa recensione è già apparsa su News-Art. Notizie dal mondo dell’arte]

Louis Marin, Opacità della pittura. Saggi sulla rappresentazione nel Quattrocento,
tr. di Elisabetta Gigante, la Casa Usher, Firenze – Lucca 2012.

Sommario
Prefazione, di Giovanni Careri 7
Avvertenza 14
Tavole
Introduzione 15
Parte prima 
Le architetture della rappresentazione
1. Luca Signorelli a Loreto 21
   Bibliografia 58
2. Pinturicchio a Spello 66
   Bibliografia 89
3. Paolo Uccello nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella a Firenze 95
   Bibliografia 123
 
Parte seconda
Le sincopi del racconto
4. Piero della Francesca ad Arezzo 133
   Bibliografia 158
5. Annunciazioni toscane 163
   Bibliografia 205
6. Filippo Lippi a Prato 210
   Bibliografia 239

Indice delle illustrazioni 247
Indice dei nomi 251
Indice delle nozioni 257

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