Opacità e alienazione dell’essere umano

Una nota su “La pura superficie” di Guido Mazzoni, Donzelli 2017.

Mazzoni pura superficie
Alberto Burri, Rosso plastica

Cos’è la superficialità, lo stare in superficie?

È questo quesito che fin da subito si pone nella mente del lettore che affronta l’ultimo libro di Guido Mazzoni, uscito nel 2017 per l’editore Donzelli, ma ancora – e credo per molto, ed è per questo che ne scrivo – capace di mettere in crisi chi sta di fronte alla pagina. Trentaquattro tra prose e poesie capaci di lasciare un segno, a differenza di buona parte dei libri di poesia che vengono pubblicati oggi e che durano al massimo il tempo di un paio di recensioni o la menzione in qualche concorso letterario. E uso ‘crisi’ qui nel senso etimologico del termine, come processo di separazione o discernimento degli elementi della nostra realtà, attivato nel lettore dalle suggestioni che il testo di Mazzoni continuamente propone.

Il titolo, del resto, avvia il discernimento fin da subito: è netto e privo di ambiguità – La pura superficie – concetto centrale e continuamente dipanato nel testo, determinandone la grande coesione. La superficie è la dimensione, ormai definitivamente consolidata, in cui si vive nel XXII secolo, finita l’epoca dei contrasti ideologici e delle rivoluzioni politiche. È uno stato socialmente costruito, e quindi subìto, ma anche cercato dal singolo individuo quando la vita tenta di rivelarsi potente per come è. Ne è metafora efficace la fuga del protagonista dinnanzi ad un insetto che soffre mentre sbatte freneticamente contro il vetro di una finestra alla ricerca di una via di fuga (Grammatica) o lo spegnere sul nascere la tensione psichica suscitata alla visione dell’attacco dell’11 settembre attraverso la visione della tv (I destini generali), ma anche l’usare parole trite per nascondersi nei rapporti di ogni giorno:

Esce di casa per una ragione, la dimentica, / sale su un autobus, incontra le persone, le scherma col linguaggio / dice “studente fuorisede”, “tatuata”, “filippino” / per non vedere il fuorisede, la donna tatuata, il filippino. [da Uscire]

La superficie è l’esito del funzionamento di un meccanismo mentale che appiattisce la portata emotiva della vita rendendo più difficile il contatto con la realtà, oscurando i ricordi, scolorendo la percezione delle cose (‘opacità’ è uno dei concetti centrali del testo), alienando il soggetto dagli altri.

Diceva infatti il grande teorico della psicoanalisi Wilfred Bion in Apprendere dall’esperienza (1962) che il bisogno di essere consapevole di un’esperienza emotiva, analogo al bisogno cognitivo di essere consapevole degli oggetti concreti della realtà, è fondamentale per mantenere una sensazione di verità psichica e quindi di benessere mentale.

La condizione descritta da Mazzoni è una crosta di normalità piccolo-borghese che rende gli individui adattati ma soli, automi senza divisioni, senza complessità o conflitti interni. È la condizione dell’uomo montaliano degli Ossi di seppia descritta in Forse un mattino andando in un’aria di vetro, come rievoca distintamente la prosa Sfaldamento.

Ma nel testo ci sono anche altri richiami a Montale, ad esempio l’immagine insistita della palma nella poesia Stevens: «La palma alla fine della mente, / oltre l’ultimo pensiero […] La palma svetta / al bordo dello spazio…», che rimanda alla «giovinetta palma» nominata dal poeta genovese in Ripenso il tuo sorriso.

Verrebbe quindi da supporre l’importanza di Montale nella formazione artistica dell’autore, ma è anche possibile trovare altri riferimenti letterari: per i contenuti e la struttura stessa del libro il Francis Ponge de Il partito preso delle cose, ma anche, volendo, il Sartre della Nausea – «nulla mi giustifica», si dice ad esempio in una delle prose.

Chi narra è spesso un io alienato, che a volte diventa una terza persona singolare, altre una prima plurale. In ogni caso, anche quando è il protagonista centrale, l’io narrante è fuori dalle cose, le osserva senza parteciparvi profondamente, se ne chiede continuamente il senso.

La sua è, più che altro, una riflessione filosofica su ciò che vive e sull’alterazione di quella che si chiama abitualmente continuità dell’esistenza – questo emerge ad esempio la bellissima prosa Croydon, venti righe a costituire un unico ininterrotto periodo estremamente evocativo. Questo io fatica a sentirsi parte di qualcosa, stenta a lasciare la superficie, che non è in verità solo una difesa ma una necessità, quella di ognuno di non sentire l’assoluta gratuità e inspiegabilità di ciò che accade (si tratti dell’incidente di una persona, di un attentato terroristico, di un rapporto sessuale o di altro).

La superficialità quindi come sinonimo di quelle costruzioni mentali, teorie o del linguaggio che usiamo per spiegare gli eventi, ma anche come lo stato prevalente delle nostre vita del singolo, che su di essa «esiste e scivola ogni giorno». La pura superficie è un libro metaforico e concettuale, nonostante ciò la materia con cui è creato è fatta di oggetti vividi, di frasi essenziali nell’aggettivazione, di descrizioni puntuali e di referenti personali e spazio-temporali chiari, che evitano il rischio di allontanare il lettore dal testo, di farlo smarrire in astrazioni fumose e fini a se stesse. L’obiettivo di chi scrive è sempre quello di inquadrare il problema con precisione, pur in modo sintetico e simbolico, cioè usando una modalità di scrittura di tipo poetico.

C’è qualche redenzione in tutto ciò? Non si intravede, ma si sente l’esigenza di uscirne, di uscire da un «sapere inerte» recuperando l’immaginazione, passando – è possibile, forse necessario – da una fase di violenta distruzione artistica, filosofica, forse politica contro un sistema (quello occidentale) fatto di routine materiali e di luoghi comuni scambiati per certezze. Uno slancio superomistico che mira al recupero della propria natura pulsionale più primitiva e al superamento lucido e coraggioso di quella morale convenzionale e di quella retorica sociale e intellettuale che costringe l’individualità in prospettive esistenziali, modalità di pensiero e schemi comportamentali asfittici e alienanti, apparentemente condivisibili ed evoluti ma in fondo spietati (amicizie di circostanza, divertimenti e distrazioni di massa, modalità di lavoro non dignitose, uso frenetico della tecnologia).

«Distruggere o capire», del resto, è il dilemma finale con cui si conclude una delle poesie del testo, Étoile. Ma la critica al sistema da parte dei personaggi è anche più esplicita e si evidenzia nell’ammirazione sotterranea che un individuo occidentale contemporaneo, afflitto da una condizione interiore di non-esistenza, potrebbe provare dinnanzi ad atti terribili e assoluti come il sacrificio autodistruttivo o il disegno violento e grandioso di un gruppo terroristico – si leggano ad esempio le prose I destini generali e Sedici soldati siriani.

Un’ulteriore soluzione potrebbe essere quella di recuperare la dimensione del sogno e del corpo: il primo come «altro lato del vero», il secondo come aggancio e prova tangibile e ineliminabile dell’esistenza soggettiva attraverso il peso della fisicità e delle pulsioni. Emblematica in tal senso la prosa Barely legal, una riflessione amorale sul porno e sulla sua fruizione, in cui le etichette convenzionali sul fenomeno si sgretolano attraverso un sapiente, e inquietante, cambio di prospettiva.

D’altronde lo spettro della psicoanalisi sembra aleggiare sul libro: come detto, in alcune prose si parla di sogni e viene valorizzata la portata dell’esperienza onirica nello psichismo individuale come ambito di libertà e di rivelazione, mentre all’inizio di Sedici soldati siriani viene riportata una frase che lo psicoanalista rivolge al protagonista della prosa intorno a uno dei temi centrali del libro: «recuperare il significato della propria esistenza». Frequenti sono poi termini che si possono ricollegare più o meno direttamente all’ambito psicoanalitico: «periferia della coscienza», «ipnosi», «regione invisibile» (come inconscio), «masochista/esibizionista/borderline», «genitori interni», «avversario interno», «piano di realtà». La pura superficie è una radicale critica alle costruzioni teoriche e alle sovrastrutture sociali che permettono all’individuo contemporaneo di sopravvivere e adattarsi, perdendo però il contatto con la parte più vitale di sé. La società, il modo di vedere gli altri e noi stessi sono un grattacielo che ci collassa addosso gradualmente, mentre cerchiamo di ripararci grazie alla sua solida struttura, dalla grandine che sferza le strade, come ci lascia intendere la bellissima metafora onirica che Mazzoni usa nella breve prosa Grattacielo. È un libro complesso, lucido e, in fondo, disperato.

Vorrei concludere soffermandomi su una questione oggi forse di lana caprina, ovvero: si tratta di un libro di poesia o di prosa? Per quanto valga porsi questa domanda, ritengo che si tratti fondamentalmente di un libro di prosa, anche quando scritta andando a capo realizzando così dei versi: nulla di particolare è da rilevare nel discorso dell’autore da un punto di vista metrico o musicale (salvo in alcuni frangenti), tutto è centrato decisamente sul contenuto, di solito secondo un andamento raziocinante e logico-sequenziale. L’autore, inoltre, mi pare perda un po’ di potenza ed efficacia espressiva quando ragiona in versi, che a volte sono chiaramente dei versi tipografici. Però, mi viene da dire, è certamente una prosa poetica, cioè simbolica, fortemente metaforica, in cui ogni parola o immagine acquisisce un peso assoluto. Lo stile di scrittura inoltre è complesso, giocato su un mix sapiente di articolazione sintattica e semplicità, con l’inserimento puntuale di espressioni colloquiali o gergali che hanno un effetto di sorpresa e incidono in chi legge più fortemente ancora i concetti che le avevano precedute («preservativo», «cazzate», «scopare», «stronzo», «cali le mutande», «merda»). È uno stile di scrittura molto denso, capace di lasciare un grande piacere estetico nel lettore senza mai sovrastare o saturare il messaggio che veicola, cosa che denota la piena maturità della scrittura di Mazzoni, oltre che l’elevato peso specifico stilistico, e non solo contenutistico, del libro.

La pura superficie è un libro su cui soffermarsi, che non credo si possa apprezzare veramente al primo contatto: così almeno è capitato a me: inizialmente l’ho quasi rifiutato, lasciandolo per mesi a impolverarsi nella libreria dopo una prima lettura veloce (quella stessa superficialità di cui parla il testo?), forse difendendomi dalla fredda drammaticità dei contenuti e dallo stile molto concettuale dell’autore. È un testo che richiede silenzio, come tutti i buoni libri di poesia (ma allora è un libro di poesia?). Quel silenzio che sta nelle «pause tra le parole», come dice il protagonista di una prosa, in cui è possibile scoprire qualcosa di molto più significativo per noi, di veramente «primario».

Cosa chiedere di più ad un libro?

Quattro superfici

Gli altri in quanto esseri esteriori,
superfici o corpi. Chi dice io invece non ha corpo,
vede soltanto le proprie mani, le guarda come pròtesi,
osserva gli altri mentre tengono la propria
vita interna dentro i volti,
scopre di avere un volto solo nelle foto.
È osceno essere esposto, essere una cosa – io, quest’auto,
la vetrina del barbiere, la busta
delle patatine sul marciapiede di via Gallia.
La seconda superficie è la percezione,
il modo in cui crea un piano di realtà semplificando.
A volte, in sogno, vedo le persone
senza la parete addominale, con gli organi aperti.
È un sogno, significa molto.
In questa poesia significa ciò che normalmente
resta impercepito, la meccanica del corpo, il tubo
di feci che portate dentro per esempio, la sorpresa
di quando la merda si mostra all’esterno come una sostanza aliena.
La terza superficie è il linguaggio,
le sue astrazioni, l’idea che possa esistere qualcosa
come ciò che i segni possaesistere e qualcosa
cercano in questa frase di esprimere.
La quarta è l’immagine interna degli altri,
il loro peso immenso, il loro campo.
Agisco per voi, scrivo questa poesia per essere accolto,
divento libero solo quando morite internamente.
Il rimorchio sbanda contro la nostra auto fra Chiusi e Roma,
io lo osservo senza angoscia, è una specie
di sguardo puro, di cinematografia della mia morte. Ma Daniele
Balicco resta calmo, l’automobile passa, per qualche minuto
non parliamo, poi tornano gli aneddoti,
le biografie, quattro persone.
L’inglese ha un’espressione che mi piace molto,
small talk. Sono i discorsi di superficie,
le parole di contatto, ciò che Heidegger,
in Essere e tempo, chiama la chiacchiera, das Gerede. In italiano,
nella nostra lingua interna, la parola che usiamo più spesso
per indicare tutto questo è ‘cazzate’.
Le opinioni su ciò che ignoriamo, i discorsi
che escono dai cellulari e entrano nei vagoni
in mezzo a tutti: i figli, un’infezione all’unghia, la Juventus,
i nemici privati che non conosciamo – gli altri
parlano di cazzate. Chi dice io fa eccezione, è l’unico
che esista veramente, è il soggetto.
Quando Daniele Balicco riprende il controllo siamo vivi,
parliamo di cazzate. Non aderisco a nulla, mi sembra
che non aderiate a nulla, siete la parte che manca
nel vostro mondo, siete un luogo inabitato.

[da “La pura superficie”, Donzelli 2017]

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