Sul rapporto tra identità e nazione, a partire da “Italia senza nazione”, curato da Antonio Montefusco (Quodlibet, 2019)
Osservando i lavori di Enrico Castellani o di Agostino Bonalumi, l’occhio dello spettatore deve scontrarsi con una materia che preme al di sotto della superficie della tela, quasi a bucare lo spazio bidimensionale, assunto fino ad allora come convenzione pressoché indiscussa della rappresentazione pittorica. Nella poetica di questi artisti italiani del secondo Novecento, la tela non rappresenta soltanto un supporto convenzionale, quanto piuttosto il luogo a partire dal quale condurre una riflessione concreta sulla forma. Questa tendenza all’estroflessione dello spazio pittorico esibisce un’evidenza elementare – l’estrema artificiosità dello spazio bidimensionale – di cui i tagli e i buchi di Lucio Fontana si facevano già latori. È interessante tuttavia notare che per svolgere questa operazione – per andare oltre la tela, per estroflettere lo spazio convenzionale – gli artisti non possano fare a meno di adoperare la tela stessa, mantenendola come sostegno atto a distruggere la convenzione. In questo particolare intervento negativo dell’artista, la tela si configura come il luogo di una critica formale, conservando al contempo il suo statuto di barriera tra lo spazio della rappresentazione artistica e quello fisico dello spettatore.
È possibile in un certo senso adoperare questa contraddizione costitutiva del «movimento spazialista» per svolgere alcune considerazioni a margine del volume curato da Antonio Montefusco, Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea (Quodlibet, 2019). Percorrendo una strada alternativa rispetto alle auto-interrogazioni e alle autoanalisi dell’Italian Thought, oggetto di recenti dibattiti e pubblicazioni 1, gli autori e le autrici dei nove saggi raccolti da Montefusco ambiscono a estendere la riflessione sul pensiero italiano insistendo in particolare sulla sua tendenza all’estroflessione, intesa come «tensione verso il fuori rispetto a ogni determinazione nazionale» (p. 20). Tale peculiarità verrebbe confermata dalle principali opere letterarie e filosofiche che fondano l’IT, marcate dalla necessità di stabilire nessi tra cultura, letteratura e politica. Il volume non intende effettuare una disamina interna alla Theory, ma cerca viceversa di restituire un affresco da fuori del pensiero italiano (per citare il titolo del noto saggio di Esposito), attraversandone contraddizioni e aporie. Detta diversamente: i dieci autori coinvolti nel progetto non mirano ad affermare o a negare l’esistenza della Theory o la sua composizione, quanto piuttosto a evidenziare la portata politica del suo modello, segnalando la capacità di costituire una narrazione alternativa rispetto al discorso politico dominante.
Italia senza nazione marca un paradosso strutturale per certi versi invalicabile: contro un nazionalismo identitario e una «brandizzazione» della Theory all’interno del mercato accademico, i saggi raccolti nel volume individuano una territorialità diffusa del pensiero italiano, elucidata attraverso le categorie del «non filosofico» e del negativo come strumenti di analisi dei rapporti di forza che intervengono in uno spazio difficile da perimetrare entro rigidi confini geografici. Questa particolare proposta critica ha il merito di assumere la contraddizione senza risolverla nei dogmi di un pensiero logico-analitico, mantenendola piuttosto attiva come strumento positivo di indagine. Se da una parte, la triangolazione tra vita, politica e storia si presenta come una marca costitutiva dell’Italian Thought, dall’altra, la stessa sua peculiare impostazione conoscitiva sfugge dalla costruzione di una fisionomia identitaria, servendo piuttosto a smascherare i presupposti teorici che fondano un’identità forte, rivendicata da agenti storici e politici che la utilizzano a discapito e a esclusione di alterità e minoranze. Questo «felice paradosso» costituisce al contempo la fisionomia dell’IT, nella sua «dimensione non nazionale e dunque, in quanto tale, cosmopolitica, come la definiva Gramsci, o deterritorializzata, come direbbero Deleuze e Guattari» (p. 71). L’apparente antinomia prodotta sul piano teorico – il superamento dell’identità attraverso la genealogia di un pensiero contrassegnato da forti spinte istituzionalizzanti – fa eco a una più ampia evidenza storico-politica dell’«Italia senza nazione», esplicitata, come scrive Daniele Balicco, in una «tradizione culturale che non riesce ad identificarsi con la storia moderna del suo Stato» (p. 146).
Nelle circa duecento pagine del libro, il concetto moderno di nazione risulta, sin dal titolo, depotenziato. Come osserva Montefusco nella sua introduzione, la tendenza all’estroflessione e al “fuori” del pensiero italiano permette di «disfare un discorso di identità (italiana o altra che sia)» (p. 10). La costruzione architettonica dei saggi – il carattere trasversale – risulta coerente con le modalità analogiche condivise dagli autori del pensiero italiano (da Dante a Machiavelli, da Vico a Leopardi). Secondo Esposito, infatti, «quello che gli autori italiani, essi stessi contemporaneamente filosofi, politici, scrittori, artisti, fanno è tenere una porta aperta tra i linguaggi della ragione e del senso, della deduzione e del racconto, del logos e del mito – altrove chiusa da un progetto formalizzato e astratto di matematizzazione del mondo» (p. 65). La messa in evidenza di questa strategia conoscitiva consente di intravedere nel volume soluzioni possibili alla dicotomia identità-alterità, scorgendo nel presente i segni di un discorso mai scisso da un orizzonte di storicità.
Riflettere su un’Italia senza nazione significa dunque spostare la riflessione sulla politicità del pensiero italiano dall’identità nazionale alla sua forma. In una recente intervista ricordata da Montefusco, Mario Tronti identificava non a caso, nell’Italian Thought, «un pensiero che si è radicato in questo Paese, in questa “forma-nazione” ancor prima che diventasse una vera e propria nazione o uno Stato» 2. Fuori da ogni retorica risorgimentale, l’Italia svelerebbe nella storia del suo pensiero la sua forma complessa e policentrica; e il suo “popolo” si mostrerebbe quasi mai compatto, attraversato da continue frequenze, intercettabili in primo luogo nella dimensione linguistica. Da qui l’estrema attualità e politicità di un pensiero che tenta costantemente di uscire dalla logica identitaria forte, riconoscendo, per dirla con Remotti, «il ruolo “formativo”, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell’alterità».
Lo stesso spazio letterario viene assunto nel volume come luogo in cui è possibile valutare l’incidenza di una «deterritorializzazione» del pensiero italiano. Non è un caso che gli autori indicati dalla genealogia tracciata da Esposito (pp. 59-72) siano distanti dalla fisionomia rigida del filosofo moderno, rivendicando viceversa, con il loro atteggiamento speculativo, un discorso di frontiera tra spazio politico e spazio letterario «radicalmente refrattario sia alla chiusura logico-analitica della tradizione anglosassone, sia alla purezza tecnica della metafisica tedesca» (p. 69). Come ha in effetti osservato Asor Rosa, «si potrebbe dire che, paradossalmente, il letterato italiano pretende di fare il politico senza rinunziare ad essere retore» 3.
La figura più ricorrente nel volume è quella di Dante, capace di riassumere l’intero paradigma di un pensiero posto di fronte a un dissidio tra progettualità politica e superamento di un’epistemologia centralista. Nella restituzione dei nuclei fondativi del pensiero italiano, la traiettoria biografica di Dante assume una doppia funzione: da una parte, essa rivela, con la sua opera, l’impasse del progetto politico nazionale, sfuggendo all’immagine pacificata e altisonante promossa dalla retorica risorgimentale; dall’altra, essa scopre l’attitudine del pensiero italiano al movimento, inteso come trasformazione, conversione del passo dell’esiliato in energia pronta ad alimentare un pensiero multiforme, colto nella possibilità di intervenire simultaneamente nello spazio letterario e in quello politico, senza mai obbedire a una logica gerarchica di priorità. Nel suo saggio Scrittori, Popolo, Italian Thought (pp. 73-98), Montefusco cita a questo proposito una frase di Francesco De Sanctis, che rappresenta in un certo senso uno dei nuclei fondativi dell’intero volume. Nel suo tentativo di stabilire una fisionomia della letteratura italiana nazionale su modello europeo, De Sanctis aveva infatti dovuto scontrarsi con un’evidenza scandalosa: «Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine». L’affermazione di De Sanctis rappresenta in un certo senso un’ulteriore conferma della proposta rizomatica presentata in Italia senza nazione. Come osserva infatti Esposito:
Risulta singolare che un lavoro, nato con l’intento di definire, e anche costruire, un’identità di carattere nazionale, la colga proprio nella continua alterazione di ciò che dovrebbe essere, in una sorta di decostruzione dell’identità. È come se la storia della nostra letteratura – l’unica a poter supplire alla mancata unità politica – non potesse avere l’esito positivo di aggregare le classi dirigenti del Paese, perché minata, e quasi impedita, da una crisi originaria, già a partire da Petrarca e dal petrarchismo, e riprodotta in maniera potenziata lungo tutto il suo percorso (p. 69).
La propensione al movimento – la conversione della vita in opera – viene esaminata nel volume non soltanto nella sola dimensione «alta» della tradizione letteraria italiana, ma in relazione a figure che appartengono a quella che Luca Salza definisce, sulla scorta di Deleuze e Guattari, un’«Italia minore» (pp. 123-144). Protagonista di questa soggettività dal basso, che esprime il rifiuto per un’imposizione identitaria, è il soldato italiano della Grande Guerra: quel Vincenzo Rabito che batte a macchina la sua straordinaria Terra matta, intessuta di una lingua preletteraria e antagonista rispetto al centralismo della Patria4. L’evento simbolico – o meglio la «festa», l’«interruzione del corso normale degli eventi» (p. 125) – è Caporetto, veicolo e quasi anticipazione di ogni manifesto pacifista di una moltitudine non organizzata. Contro la retorica del Piave, Caporetto rivelerebbe per Salza l’attualità politica di un’emergenza imprevista «di un non-popolo, di un popolo senza identità, di un popolo che non è nazione» (p. 124), aprendo una «eterotopia» certo precaria, ma pronta a far emergere una soggettività diasporica, nomade. Su questo adagio trova spazio nel volume il «cervello in fuga», secondo Montefusco «figura» – in senso biblico – «dell’intellettuale esiliato e apolide che trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento, illuminando a ritroso il capitale culturale di partenza, che risulta impossibile da contenere nello spazio del paese, essenzialmente in ragione delle conseguenze di quello “sviluppo senza progresso” denunciato da Pasolini all’alba di quello che, un tempo, si era chiamato “neocapitalismo”» (p. 11).
Italia senza nazione insiste dunque sull’importanza che contingenze e contesti hanno nella ridefinizione di un posizionamento critico e nella creazione di pensiero situato in quanto «atto conoscitivo che vede le differenze partendo innanzi tutto dalla propria differenza, declinandola, presentandosi come parziale e non universale e facendo di tale parzialità il punto da cui guardare alle altre» (p. 194). Mai come in questo caso assume un significato concreto la struttura dell’opera collettiva, che permette di ricavare una moltitudine di luoghi e di voci. Questa moltiplicazione di punti di vista differenti, unita all’estrema mobilità di un pensiero rizomatico, capace di attivare i paradossi e di mantenere le contraddizioni come energie produttive dei discorsi, danno al volume un valore straordinario, rafforzato dalla convinzione «che esclusivamente adottando una prospettiva parziale si può ottenere una visione oggettiva» (p. 195). Disegnando una cartografia complessa priva di ogni realismo geografico, Italia senza nazione riproduce un movimento critico-negativo e al contempo propositivo orientato a tracciare nel presente «nuovi spazi di agibilità» per il futuro (p. 25), contro un’ossessione identitaria che infiamma nostalgici e nuovi nazionalisti.
Note
- Ricordo in particolare, tra i volumi citati da A. Montefusco nell’introduzione al suo volume: D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, il Mulino, Bologna 2012; S. Contarini, D. Luglio (a cura di), L’Italian Theory existe-t-elle ?, Mimesis, Milano 2015; E. Lisciani-Petrini, G. Strummiello, (a cura di), Effetto Italian Thought, Quodlibet, Macerata 2017
- Intervista a Mario Tronti in E. Lisciani-Petrini, G. Strummiello (a cura di), Effetto Italian Thought, Quodlibet, Macerata 2017, p. 41
- A. Asor Rosa, Letteratura italiana, I. Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, pp. 23, 27 (citato in Italia senza nazione, p. 9)
- «E ancora hanno la sfaciatagine di dire: “Padria”, che sono delenquente, che io, se muoro, quello che l’ultima parola che io ce devo dire è: “Sputatece a questa Padria, perché non hanno coscenza per i combatente della querra 15-18”», V. Rabito, Terra matta, Einaudi, Torino 2007, p. 63 (citato in Italia senza nazione, p. 123).