Un’odissea partigiana

Alla vigilia del Settantesimo anniversario della Liberazione, pubblichiamo un estratto da Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio di Mimmo Franzinelli e Nicola Graziano edito da Feltrinelli.

Cronaca di una pagina poco conosciuta della storia italiana postbellica, la ricerca si concentra sull’internamento in manicomio di molti ex partigiani che, macchiatisi di reati comuni, non riuscirono a beneficiare dell’amnistia promossa nel 1946 da Palmiro Togliatti, a differenza di quasi tutti i quadri fascisti e repubblichini. I documenti emersi dagli archivi dell’OPG di Aversa testimoniano tanto il paradossale ribaltamento giudiziario quanto l’opera meritoria di Angelo Maria Jacazzi – l’Angelo dei “pazzi per la libertà” – giovane militante comunista che si interessò alle vicende di questi internati provenienti da tutta Italia. Nicola Graziano presenta oggi 24 aprile il libro alla Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, insieme al fotografo Nicola Baldieri e alla storica Maddalena Carli, all’interno del ciclo di incontri “Siena e il suo doppio. Percorsi nel passato e letture del presente attorno a San Niccolò Città dei Matti”.

“Pazzi per la libertà” nel manicomio di Aversa

Dalla Real Casa de’ Matti al Manicomio Criminale

Per alcuni partigiani accusati di fatti di sangue, la strategia difensiva impostata da avvocati “militanti” quali Lelio Basso, Gian Domenico Pisapia e Umberto Terracini vuol mitigare le pene con il riconoscimento della seminfermità mentale. La diminuzione del periodo di reclusione è controbilanciata dalla “misura di sicurezza” dai tre ai cinque anni di manicomio giudiziario, per un periodo di “custodia” in ottemperanza alle prescrizioni del Codice Rocco sulla pericolosità sociale… Si prevede che, con il decorso del tempo e la decantazione delle passioni, provvedimenti di clemenza scongiureranno l’internamento tra i pazzi. Valutazione poi smentita dai fatti.

Amnistie e indulti aprono infatti le porte alla massa dei fascisti, a quelli già condannati come ai tanti in attesa di giudizio; anche molti resistenti beneficiano del provvedimento, che tuttavia esclude la detenzione manicomiale. Negli anni Cinquanta, i “pazzi per la libertà” sono pertanto rinchiusi in strutture opprimenti, privati di diritti e sottoposti a ordinarie vessazioni quotidiane. La macchina manicomiale mina la salute mentale dei partigiani, li debilita e in taluni casi li condurrà anzitempo alla tomba.
Tra le destinazioni dei partigiani “seminfermi di mente” spicca il manicomio di Aversa, antica città normanna in provincia di Caserta, teatro di vicende fondamentali, di assoluto rilievo nel campo della psichiatria, con importanti risvolti storici e culturali, oltre che nella scienza medica.

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Nel riordinare l’archivio della sezione, l’estate del 1954, Jacazzi trova due lettere inevase, scritte dal Comitato provinciale di Solidarietà democratica di Reggio Emilia e dalla segreteria della Federazione comunista di Venezia. Entrambe segnalano l’internamento di ex partigiani nel Manicomio giudiziario di Aversa e chiedono un intervento solidaristico. Il veneziano Primo De Lazzari, già combattente della Brigata Garibaldi “Erminio Ferretto”, presenta il caso del garibaldino Guerino Pelizzari, mentre il reggiano Vivaldo Salsi illustra le disavventure di Romano Bosi, riconosciuto seminfermo di mente in un processo alla Resistenza. Siccome il messaggio di Salsi risale addirittura all’agosto 1952, Jacazzi si scusa dell’imperdonabile ritardo (“Inutile ora dolerci di questa trascuratezza dei compagni precedentemente responsabili, né fare degli addebiti; purtroppo il Partito nel Mezzogiorno ha ancora di queste lacune”) e, da uomo concreto qual è, si reca con un esponente del sindacato ospedaliero di Napoli dal direttore Giovanni Amati, cui prospetta l’opportunità di trasferire Pelizzari in un ospedale psichiatrico veneziano e Bosi in una struttura assistenziale di Reggio Emilia.

Il direttore appare sensibile e disponibile, “a differenza di tutta la direzione medica e amministrativa che è davvero un’indecenza”, annota il 21 giugno 1955 Jacazzi. E scopre con stupore che vi sono vari casi analoghi. Colpito da una realtà inimmaginabile, decide di approfondire la delicata questione. Giorno dopo giorno, si assume l’impegnativa mediazione tra i “pazzi”, la direzione dell’istituto, le strutture assistenziali della sinistra e le famiglie d’origine degli sventurati. Il suo intervento allevia diverse situazioni, incrina il muro dell’isolamento che minaccia di precipitare gli internati nella follia, ottiene loro “licenze di esperimento” e in numerosi casi ne ottiene il rilascio anticipato da parte del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

La complessa opera di “patronato” trova quali interlocutori alcuni parlamentari della sinistra (Umberto Terracini, Antonio Giolitti, Luigi Longo, Giorgio Napolitano, Gian Carlo Pajetta, Pietro Secchia…), che cercano – invero senza grandi risultati – di sensibilizzare il ministero di Grazia e Giustizia.Il 22 giugno 1957 Angelo Jacazzi chiarisce a Terracini – a margine dell’VIII Congresso del Pci – il senso del proprio impegno: “Mi sforzo di aiutare i compagni che capitano qui nel Manicomio o nella Casa di cura e custodia, in mancanza di avvocati volonterosi…”.

Nel dicembre 1958 Pajetta scrive al compagno di Aversa che gli ha trasmesso la lettera di un partigiano internato in manicomio, e pare scusarsi per l’inerzia del gruppo parlamentare comunista: “Se non ci siamo mossi in fretta, è stato perché non volevamo dare l’impressione che si trattasse di una questione soltanto di partito, e pregiudicare così un esito, che speriamo positivo”. Nel commiato, il deputato piemontese (incarcerato durante il fascismo per una dozzina di anni) rileva in tono autocritico che, “particolarmente noi, che abbiamo provato il carcere, dovremo fare qualcosa di più, dimostrare meno di aver dimenticato la nostra esperienza”.

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Il retroterra politico inchioda gli ex partigiani della detenzione manicomiale. Negli anni cinquanta si alternano alla guida del paese governi centristi, che hanno nei guardasigilli e nei funzionari ministeriali lo strenuo ostacolo a misure di clemenza.Il gabinetto Pella (monocolore democristiano sostenuto da monarchici e missini) ha come guardasigilli Antonio Azara, già presidente di sezione della Cassazione e componente dei comitati scientifici delle riviste “La nobiltà della stirpe” e “Diritto razzista”. Inquisito nell’immediato dopoguerra per apologia di fascismo, presenta una quantità di attestati da parte di alti ufficiali delle forze armate e di giuristi; prosciolto, lascia la magistratura per la politica e per un ventennio siede in Senato per la Dc. Nel 1953 questo ineffabile ministro – in piena coerenza con il proprio passato – blocca qualsiasi misura favorevole agli ex partigiani, incarcerati o internati in manicomio che siano.

Angelo Jacazzi serba un forte ricordo di quell’esperienza solidaristica. Ha conservato nel suo archivio la corrispondenza con i “pazzi per la libertà” e, sfogliandola a oltre mezzo secolo di distanza, ancora si emoziona: “Mi sono occupato di questi ex partigiani per un senso di solidarietà, umana e politica. Sono rimasto colpito dall’estrema dignità con cui affrontavano il loro problema, senza smanie né polemiche”.Un internato gli ha detto, mestamente: “Fossi stato condannato all’ergastolo, sarei libero. Invece ho avuto la seminfermità, e sto qui dentro”. Quando Jacazzi riferisce quello sfogo a Terracini, il senatore comunista ci riflette per un attimo e poi ammette di sentirsi doppiamente in colpa: come avvocato, essendosi battuto per il riconoscimento del vizio di mente; come legislatore, per non aver saputo abrogare le norme che inchiodano al manicomio persone assolutamente sane, che avevano combattuto i nazifascisti.

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Dietro le inferriate: il diritto e il rovescio

L’eccezione e la regola: ovvero due pesi e due misure

Il caso dei partigiani finiti in manicomio per seminfermità mentale completa il contraddittorio dell’Italia impegnata nella ricostruzione postbellica, in un precario equilibrio tra innovazione democratica e persistenze fasciste. Bisogna ricollegarlo a quanto avviene sull’altro fronte, ovvero all’atteggiamento della magistratura verso i crimini perpetrati dai sostenitori di Mussolini e Hitler. A fronte della severità verso gli ex “ribelli” sta la generalizzata clemenza verso gli ex fascisti. Due pesi, due misure. Amnistiato il reato di collaborazionismo con il tedesco invasore, magistrati formatisi professionalmente sotto la dittatura utilizzano con le camicie nere criteri premiali, opposti a quelli applicati ai loro avversari.

Negli anni cinquanta, mentre i “pazzi per la libertà” entrano in manicomio, una quantità di torturatori e pluriomicidi già arruolati nella Rsi e nei reparti nazisti (SS italiane in primis) sono liberi. A un decennio dalla fine della guerra, vengono scarcerati gli ultimi responsabili di crimini fascisti, siano essi tra i maggiori responsabili della dittatura ventennale, oppure i volonterosi esecutori di omicidi e persino di eccidi, inclusi cacciatori e delatori di ebrei.

Ai responsabili della dittatura e della guerra civile non serve il “trucco” della seminfermità mentale; funzionano meglio le interpretazioni estensive dell’amnistia Togliatti. Il comandante della X Mas, Junio Valerio Borghese, torna libero nel febbraio 1949; il capo militare della Rsi, maresciallo Rodolfo Graziani, è scarcerato nel settembre 1950; sono da tempo in libertà ex ministri del Duce e segretari del Partito nazionale fascista, ex presidenti del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e caporioni della Milizia volontaria.

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