Note su Io sono Li, il nuovo film di Andrea Segre

Shun Li e il poeta, fra la laguna e il cielo.

In cosa consiste la poesia? Trovare corrispondenze inattese fra le salienze del mondo che diventano rime, ritmi; inventare armonie, che a quel mondo danno un volto nuovo. È ciò che fa Bepi “il poeta” istriano con le parole di una lingua non sua: l’italiano o il chioggiotto. È ciò che fa Lian, ragazza cinese dall’occupazione misteriosa, eseguendo i movimenti del Qi gong davanti alle onde di un mare Adriatico dal volto quotidiano. È ciò che Shun Li cerca di ritrovare, posando sul pelo dell’acqua lumi di carta a forma di fiore che, con il loro baluginare, illuminano la notte di una vita cacciata nell’interiorità dalla segregazione. È ciò che fa Andrea Segre, seguendo il percorso di quel lumino sulla superficie quieta della laguna, e spiccando da lì un movimento di camera improvviso che rima con la campata di un ponte e rivela immediatamente le risonanze fra le vite di chi oggi abita la provincia italiana.

Io sono Li, il nuovo film di Andrea Segre, dimostra che queste risonanze, alla base della poesia, permettono di indagare la realtà ancor meglio di ciò che per genere – ovvero per un’idea socialmente condivisa sul modo di consumare le immagini – viene definito “film documentario”. Perché le rime contengono agevolmente la denuncia, lo sdegno, l’esternazione politica, ma in più, con quel che c’è di inatteso, riescono a far esplodere le immagini e aprire alla partecipazione dello spettatore l’atto di conoscenza del mondo che risiede in ogni loro generazione.

Come la risacca della laguna, che conserva invisibile parte delle acque entrate con la marea, le immagini di Andrea Segre ritengono la fragranza delle narrazioni orientali di Kim Ki Duk, racconti che nascondono un ordine metafisico che giace indisturbato dietro il sottile velo di epifanie cinematografiche. Il carattere di inchiesta sul Nordest che scava sulle pulsioni più occulte è quello che abbiamo visto ne L’Imbalsamatore di Matteo Garrone. Ma resta inconfondibile il modo che Segre ha di percorrere il reale con lo sguardo della camera, restando vicino ai suoi protagonisti senza mai abbandonarli, fra primi piani delle cose e semisoggettive che chiedono allo spettatore di partecipare davvero all’avventura di quella scoperta. Segre non indulge mai al risaputo, controlla le tentazioni del grottesco cui il ritratto di quella realtà sociale facilmente invita. Spinge sapientemente ai margini della sceneggiatura le banalità del discorso sull’immigrazione di cui sono ricolme le bocche degli amministratori locali e quelle dei politici invitati nei talk show televisivi. La follia di quella barbarie ideologica, che ancora pretende il rispetto dovuto al pensiero politico, viene fatta tornare alla dimensione che più le pertiene: quella dell’inconcludente chiacchiericcio da bar che si fa presto a finire e a ricominciare, come anche a dimenticare. Segre fa poesia con le piccole cose, da cui fa scaturire eterni rituali di rinascita che guidano silenziosamente lo spettatore a meditare sul tempo, sulla caducità di vite che si incrociano per caso scambiando i loro bagagli di dolori, attese, rinunce. E da quel nodo ripartono.

Al centro dell’equilibrio cosmico fra acqua e terra, fuoco e aria, Segre svolge il filo di un piccolo racconto di vita quotidiana, lasciando nell’ombra le messe in scena fragorose dei Romei e Giuliette di tutti i tempi. Fra le calli di Chioggia, ci spiega che l’amore si cela nel ritmo di passi che calpestano semplici lastre umide, nel modo di lanciare insieme un’occhiata sul mare, nei silenzi complici davanti a una fotografia. Piccole risonanze preziose che bisogna imparare ad ascoltare, e che affiorano delicatamente nella poesia cinematografica di Andrea Segre.

La fitta nebbia mattutina, che si stende sulla laguna e inghiotte il vaporetto, lentamente si dirada e lascia emergere i profili dei palazzi che a mezzogiorno comporranno gli splendidi panorami veneziani sotto un cielo terso. E lo sguardo si allunga verso un orizzonte che dal mare si spinge fin sulle cime delle montagne innevate.

Grazie Andrea Segre, per averci regalato lo splendore semplice e invadente di una giornata di sereno in questo inverno del nostro cinema italiano.

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