“Chi è senza patrimonio scagli la prima pietra”.
L’incandescente mattina di febbraio in cui Beatriz Viterbo morì, dopo un’imperiosa agonia che non si abbassò un solo istante al sentimentalismo né al timore, notai che le armature di ferro di Plaza Constitución avevano cambiato non so quale pubblicità di sigarette; il fatto mi dolse, perché compresi che l’incessante e vasto universo già si separava da lei e che quel mutamento era il primo di una serie infinita. Cambierà l’universo ma non io, pensai con malinconica vanità; talora, lo so, la mia vana devozione l’aveva esasperata; morta, potevo consacrarmi alla sua memoria, senza speranza ma anche senza umiliazione.
Jorge Luis Borges, L’Aleph
L’idea e la pratica di “salvaguardia del patrimonio” costituiscono al giorno d’oggi elementi imprescindibili del senso comune e della coscienza collettiva: basti pensare allo scandalo suscitato dei recenti crolli delle rovine di Pompei e, prima ancora, della cattedrale di Noto, o al successo di un libro come Vandali!, di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Il concetto di patrimonio si inserisce a pieno titolo in quello che Appadurai ha definito come “ideascape”: un paradigma culturale del mondo contemporaneo che, sebbene declinato in maniera diversa a seconda dei contesti, non trova ormai nessuna opposizione sostanziale o, perlomeno, nessuna opposizione che possa esplicitamente dichiararsi tale. L’imperativo categorico è che il patrimonio, sia esso artistico, architettonico o ambientale, deve essere salvaguardato e difeso da qualunque scempio. Si tratta, per l’appunto, di una nozione condivisa e ormai ineludibile, una risposta collettiva alla modernità, per cui nessun impeto futuristico di marinettiana memoria potrebbe, con un certo seguito e con un minimo di credibilità, sostenere la necessità di mettere al rogo tutte le vestigia del nostro passato per consegnarci puri e casti al futuro e alla tecnologia. Lo sappiamo bene noi abitanti del Belpaese, che della nostra ricchezza artistica, archeologica e architettonica spesso e volentieri facciamo un consolatorio scudo contro la decadenza del presente! Non troppo distante da quella del patrimonio, nell’ambito del quotidiano troviamo la variopinta sfera del vintage: la nostalgia per quello che non abbiamo mai perso (semplicemente perché non lo abbiamo avuto), il cui orologio ormai sta superando quello del tempo presente (gli anni Novanta sono già vintage. Gli anni Ottanta ormai ne sono un topos. Noi siamo stra-vintage. E il bello è che ce ne compiacciamo, io per prima). Proprio per questo, analizzare in maniera critica tali concetti è complicato: la logica patrimoniale (così come quella del vintage), la necessità di proteggere e difendere la parte migliore del nostro passato, della nostra identità e di noi stessi, il bisogno di memoria, affondano le loro radici nella nostra storia culturale e nella nostra costitutività umana, nel nostro “essere”; chiamano in causa la nostra emotività, il nostro senso estetico, la nostra Weltanschauung.
Nondimeno, proprio per il suo essere un concetto fluido, che per natura si presta alle più diverse declinazioni e, di conseguenza, alle più imprevedibili (e a volte contrastanti) manipolazioni e strumentalizzazioni, per il suo essere parte del nostro vissuto e delle nostre adesioni politiche e identitarie, è quanto mai necessario adottare una prospettiva critica nei confronti della “questione del patrimonio”. Insomma: siamo tutti d’accordo sul fatto che sia necessario preservare gli ecosistemi naturali e i beni artistici e culturali, ma proviamo a chiederci come, e perché. É in questo, credo, che un punto di vista antropologico può rivelare la sua utilità: nel porsi come critica culturale, ossia, citando Berardino Palumbo, «come un tentativo di entrare nel meccanismo della produzione di “cose culturali” e guardare le logiche di potere che lo muovono […] interrogarsi sulle politiche dello spazio/tempo, dunque sulle poetiche della memoria e dell’identità, e sulle forme di immaginazione storiografica che le pratiche legate all’istituzionalizzazione dei beni culturali consentono di mettere in atto nei diversi, quotidiani, contesti socio-politici. Bisogna, infine, intraprendere un’analisi critica dei rapporti tra simili modi di costruire identità e memoria, le procedure e i meccanismi che portano alla costruzione e all’istituzionalizzazione degli oggetti culturali, il contesto burocratico e politico (lo Stato-Nazione) che mette in moto e gestisce tali processi e gli stessi quadri concettuali attraverso i quali le diverse discipline sociali cercano di leggerli» (Berardino Palumbo, L’Unesco e il campanile, Meltemi, 2003, p. 32). Prescindendo dalle pressioni e dal ruolo delle politiche locali, nazionali e transnazionali, che renderebbero il discorso molto più complesso, quello che mi propongo di fare nelle (troppo) poche righe che seguono è proprio sollevare alcune questioni che possano fungere da guida in una riflessione sulla natura (o naturalizzazione?) del patrimonio, sulle poste in gioco che esso coinvolge e sui paradossi che solleva.
Tanto per cominciare, quello di patrimonio è un concetto ambiguo, difficile da definire, perché difficili da definire sono i valori (o meglio la “famiglia di valori”) che ne stanno alla base. Oggetto di negoziazione e spesso di conflitto, patrimonio è tutto ciò che deriva dal nostro passato, che i nostri padri hanno costruito, ma anche che ci è stato consegnato dalla natura, e noi intendiamo preservare. Quello patrimoniale è un valore estrinseco che pretende di basarsi su caratteristiche intrinseche. Emerge qui il primo paradosso: il fatto che esso esista da prima, per definizione, e nello stesso tempo esista come tale solo nel momento in cui viene riconosciuto. Inoltre di recente è entrato nel corpus “ufficiale” del patrimonio, quello dell’Unesco, anche tutto ciò che è competenza, oralità, pratica: ecco così nascere la sfera del “patrimonio immateriale dell’umanità”, una borgesiana lista che comprende pupi siciliani, patrimonio orale Yoruba, intaglio di croci lituano, per il quale i problemi di ordine teorico sono ancora più complessi (si vedano in proposito gli studi portati avanti da Barbara Kirshenblatt-Gimblett). Ed ecco l’altro grande paradosso del patrimonio: esso nasce come un antidoto contro gli effetti omogeneizzanti della globalizzazione, ma è reso possibile proprio dai suoi meccanismi, il più determinante dei quali è il turismo culturale. Il principio costitutivo del patrimonio collettivo è la selettività, che si fonda sulle nozioni di storia, memoria, rappresentatività, urgenza, autenticità. Tali nozioni però, già di per sé difficili da oggettivare, si piegano alla logica patrimoniale e piegano quest’ultima alle loro logiche. Il patrimonio infatti è il frutto di un’“addomesticazione della storia”, dell’assegnazione di uno spazio che la concretizza e la rappresenta, che ne costituisce i realia, che la mescola con la memoria e di questa le trasmette la natura selettiva, costruita e, in ultima analisi, quasi arbitraria. La storia a cui fa riferimento il patrimonio non è una storia vissuta, né una storia-conoscenza, bensì una storia-selezione e una storia-valorizzazione. Il patrimonio appare dunque nella sua nudità come una vera e propria costruzione sociale, frutto di un lavoro di rappresentazione, di manipolazione e di trasfigurazione: una filiazione inversa che lo mette al cuore dell’elaborazione dell’identità. Alla fine, se scorriamo l’elenco dei siti protetti dall’Unesco, ci ritroviamo di fronte a un corpus patrimoniale vastissimo ed eterogeneo, in cui ogni elemento ha in comune con tutti gli altri solo il fatto di far parte della medesima lista: la patrimonializzazione svela così la sua natura metaculturale. Eppure, la selezione che è all’origine del patrimonio è occultata dalla sua naturalizzazione: come ha fatto notare Palumbo nel suo lavoro su una cittadina siciliana – indicata con lo pseudonimo di Catalfaro – oggetti, pratiche e poetiche dello spazio/tempo sono facilmente manipolati da persone che ostentano con esse un rapporto naturale. Si crea così un meccanismo di “oggettivazione culturale”, ossia di produzione di cose culturali naturalizzate ed essenzializzate: un insieme di tratti che vengono fissati come patrimonio vanno a definire un’identità, un soggetto politico collettivo. Ed è qui che, accanto alla naturalizzazione, si inserisce dunque un’ideologizzazione.
Storia e memoria, abbiamo detto: la prima delle dicotomie sulle quali si equilibra di volta in volta il concetto di patrimonio. Ma non l’unica: materiale e simbolico, locale e globale, pubblico e privato. E ancora: realtà e rappresentazione, tradizione e innovazione. Quest’ultima coppia è una delle più problematiche: la logica patrimoniale, della conservazione, deve infatti continuamente confrontarsi con quella dell’innovazione e della modernità, della necessità di strutture e infrastrutture, di aree industriali, ma anche con quella della sicurezza, delle esigenze sociali, della mancanza di denaro da destinare alla salvaguardia. Da che parte ci si schiera, quando la creazione di un parco comporta una ricaduta in termini economici o lavorativi per noi stessi? È possibile estendere i valori e i metodi della museologia (collezione, documentazione, preservazione, presentazione, valutazione ed interpretazione) a un intero territorio antropizzato, a una città, e addirittura alle persone viventi, alle loro conoscenze, alle loro pratiche? Non si rischia, salvaguardando l’esistente, di porre un freno alle possibili evoluzioni della cultura, della civiltà, della creatività umana e, in ultima analisi, della storia? Cosa succede quando un edificio, un luogo o una pratica che prima erano semplicemente vissuti, a un certo punto vengono “mostrati” e indicati come rappresentativi di qualcos’altro (la creatività umana, il genius loci, i fasti di civiltà scomparse)? Quello che è certo, è che il valore patrimoniale cozza necessariamente con il valore d’uso, e la patrimonializzazione è «una relazione metaculturale con quello che prima era solo un habitus» nella misura in cui «la valorizzazione, la regolazione e la strumentalizzazione alterano la relazione di determinati assetti culturali con coloro che sono identificati con essi» (Barbara Kirshenblatt-Gimblett, World Heritage and Cultural Economics, in I. Karp, C. A. Kratz, L. Szwaja, T. Ybarra-Frausto, a cura di, Museum Frictions. Public Cultures/Global Transformations, Duke University Press, 2006, p. 162). C’è, insomma, un’agency che è intrinseca alla patrimonializzazione e che a sua volta causa ricadute e implicazioni sociali, politiche, economiche, e più in generale di gestione dello spazio.
All’opera in tutti i gruppi, istituzioni e collettività, per tutto ciò che riguarda la trasmissione, la protezione e il restauro di beni, il patrimonio è allo stesso tempo fattore di produzione, bene economico, capitale culturale, oggetto di consumo… un vero e proprio “fatto sociale totale”. Per questo esso costituisce una nozione-incrocio, che mette insieme le diverse scienze umane e sociali. Per non dimenticare la connessione tra il patrimonio e il potere: potere di trasmissione e potere di appropriazione, potere di inserimento nell’ambito della cultura legittima. Inoltre la patrimonializzazione in quanto pratica, non solo giuridica, ma anche economica e commerciale, comporta il bisogno di precise figure di mediatori (associativi o istituzionali), incaricate o autoincaricatesi di decidere che cosa meriti di essere salvato, di portarne avanti le istanze. La loro esistenza mette in luce ancora una volta l’aspetto negoziato del patrimonio: la selezione di ciò che lo costituisce non è il frutto della rigida applicazione di una griglia di criteri, né coloro che la operano possono essere ridotti a un’unica fascia di attori sociali: non solo esperti e intellettuali, ma anche politici, architetti, storici e altri “stakeholders” partecipano a un dibattito continuo in cui il patrimonio si assesta nei punti di equilibrio di vari tiri alla fune, che avvengono su molteplici livelli: comunale, statale, transnazionale. Per non dimenticare i cittadini/proprietari degli immobili, o dei terreni coinvolti, per i quali la logica della salvaguardia comporterebbe una rinuncia al possesso e allo sfruttamento del bene, che non di rado protestano, si ribellano, o semplicemente ignorano le disposizioni prese. Con ciò non voglio “ridurre” la patrimonializzazione a un semplice sottoprodotto di spinte economiche o politiche, quanto sottolineare come essa si presti a rispondere a retoriche, giustificazioni e strategie di vario tipo, oltre che all’appropriazione di specifici orientamenti professionali e opposti schieramenti politici: così, un concetto che ci appare come autoevidente svela, a un’analisi più approfondita, insidie impreviste.