A occhio scoperto

Note di antropologia visuale in Chiapas.

Di recente ho partecipato a una giornata inaugurale dedicata alla fotografia. Stavo cercando un posto dove sedermi, quando un signore mi si è avvicinato e mi ha chiesto incuriosito “Mi spieghi cos’è l’antropologia visuale, che con tutte queste specializzazioni non ci sto più capendo nulla?”. Guardo il mio interlocutore contenta, ma anche un po’ rassegnata mentre penso ancora una volta da dove partire. Comincio da cosa significa fare ricerca con o da cosa significa fare ricerca sull’immagine?  Dal fare etnografia attraverso il mezzo fotografico o a partire dalla storia e dall’uso sociale della fotografia? Occuparsi di antropologia visuale significa, nel mio caso, avere la salda consapevolezza che questi due aspetti – la riflessione critica e l’applicabilità tecnica – facciano parte di uno stesso incipit, un punto di partenza che lega indissolubilmente due termini allo stesso vocabolario.

Al giorno d’oggi siamo ben lontani dal ritenere l’immagine una prova documentata di verità. Era questa l’idea, ad esempio, che si poteva ritrovare in Balinese Character. A Photographic Analysis (1942) di Margaret Mead e Gregory Bateson: in quel volume l’immagine, a integrare la scrittura, dava prova del reale in modo oggettivo e cercava di documentare rigorosamente l’ethos della cultura balinese. In netto contrasto, dagli anni Sessanta si è iniziato a pensare la fotografia (e così il cinema) come un linguaggio, testimonianza di una relazione che si instaura con il campo e che induce differenti modalità di analisi. Pur mantenendo la sua dimensione documentaria, l’immagine fotografica diventa descrizione densa in senso geertziano, interpretazione dello sguardo che osserva, spazio di negoziazione di significati. Emergono gli aspetti problematici insiti nella rappresentazione e, accanto all’autorialità del fotografo-ricercatore, la premura di dar voce ai soggetti raffigurati. Perdendo parte del loro carattere documentario le immagini sono diventate, come scrive Francesco Faeta, “documenti inquietanti” inadeguati a documentare.

Le fotografie testimonieranno non più, o non prevalentemente, intorno ai processi etnografici che rappresentano, ma intorno ad un’antropologia dello sguardo e della visione, alle modalità di autorappresentazione, alle forme di estrinsecazione culturale di un nucleo psicologico e psicologico-sociale.1

Eppure, nonostante la consapevolezza metodologica ormai consolidata all’interno delle scienze sociali, la scelta di orientare i miei studi verso il visuale porta con sé numerosi interrogativi circa il “fare ricerca” sulle immagini. Occupandomi principalmente di fotografia mi trovo a far fronte per esempio alla fissità dell’immagine che, al contrario di quanto avviene per l’analisi filmica, sacrifica molta dinamicità del movimento. Quali possono essere i punti di forza di un’analisi incentrata sulle immagini fotografiche? E vista la moltitudine di immagini che possiamo produrre, i diversi stili che possiamo adottare, le altrettante letture che ne possono nascere, come accostarsi all’immagine e alla sua rappresentazione?

Nell’ultimo anno ho svolto una ricerca di campo nello stato messicano del Chiapas, con l’obiettivo di analizzare le forme di autorappresentazione fotografica indigena sviluppatesi nel corso del Novecento. Nell’avvicinarmi ad un contesto a me totalmente estraneo, mentre provavo a comprendere i cambiamenti sociali e politici in corso, l’immagine è stata non solo il mio primo oggetto di studio quanto un ottimo strumento di ricerca. Con sorpresa, aggirando il timore che un’analisi sulla produzione fotografica potesse delimitare notevolmente il campo – nel trovarmi cioè a confronto esclusivamente con fotografi e specialisti “addetti ai lavori” –, sono inciampata in alcuni interessanti esperimenti applicabili a contesti ampi, esperienze che sono poi rivelate felici scoperte metodologiche.

Una importante scoperta è stata ad esempio la constatazione che la fotografia potesse essere, in alcune situazioni, un grande stimolo al dialogo. L’uso della foto elicitazione, 2 la tecnica che sollecita la conversazione attraverso l’immagine, permette di far emergere descrizioni più profonde delle esperienze vissute e aiuta spiegare concetti che risultano complessi da argomentare con le sole parole, soprattutto quando gli interlocutori sono di due lingue differenti. Ampiamente utilizzata all’interno delle scienze sociali, la foto elicitazione mi è tornata utile in momenti in cui le persone con cui stavo parlando non si trovavano a loro agio nell’affrontare un’intervista o per toccare alcuni temi delicati riguardo alla vita indigena, alle emozioni e alle premure che non è opportuno condividere. L’immagine è servita a creare una vicinanza, non solo di ricerca, ma personale e affettiva con i miei interlocutori.

Spesso, forse per evitare una narrazione eccessivamente romantica dell’esperienza di ricerca, aspetto su cui si è già abbondantemente scritto, si evita di enfatizzare quanto l’aspetto emotivo risulti importante per il campo; presi dall’ansia di arrivare ad un risultato soddisfacente, ci dimentichiamo quanto l’entusiasmo, la stanchezza, le difficoltà di un contesto o di un oggetto di studio risultino fondamentali nella nostra stessa esperienza di ricercatori.

Allo stesso tempo, affinché la nostra ricerca produca i suoi frutti, non possiamo esimerci da una sensibilità etnografica che ci porta a rispettare tempi, luoghi, volontà silenziose o dichiaratamente espresse. Così come l’antropologia, la fotografia ha una sua logica interna: ha un suo autore, dei referenti principali (che possono essere o meno i soggetti ritratti nell’immagine), un pubblico (specialista o meno), degli spazi di rappresentazione. Soprattutto, la fotografia ha un suo tempo. Anche se quest’ultimo è sembrato accelerarsi in maniera frenetica con l’avvento della fotografia digitale, tanto che oggi siamo colpiti quotidianamente dal suo carattere istantaneo, ogni fase di questo “tempo fotografico” ha una sua rilevanza analitica (si pensi, ad esempio, al processo sempre più frequente di editing di un’immagine sul web).

Nel corso della mia permanenza in Chiapas ho osservato i momenti di realizzazione di diverse serie fotografiche nella casa-laboratorio del Chiapas Photography Project, un progetto fotografico fondato nel 1992 dall’artista nordamericana-messicana Carlota Duarte per promuovere l’utilizzo del mezzo fotografico tra le comunità maya presenti sul territorio. Ho avuto modo di accompagnare Carlota e le fotografe Juana López López e Antonia Girón Intzín nello svolgimento delle attività interne al progetto, che promuove oggi corsi base di fotografia presso alcune associazioni sociali. Durante una di queste esperienze ho anche avuto la fortuna di inserirmi all’interno di un’attività proponendo, come sottosezione della mia ricerca, un piccolo laboratorio fotografico sul tema dell’autorappresentazione di sé.3

Ho chiesto alle partecipanti, quattro donne di differenti età e provenienti da alcuni pueblos della zona, di scattare cinque immagini rappresentative della loro personalità, come se mi dovessero raccontare le proprie storie di vita senza parole, solo attraverso le immagini. In un secondo momento, solo dopo aver stampato le fotografie, ho chiesto loro di spiegarmi perché avessero scelto di scattare quelle immagini.4 I risultati di questa esperienza hanno messo in luce i desideri, i timori e la determinazione delle partecipanti che si sono messe alla prova utilizzando la macchina fotografica per la prima volta. Le ho viste prendere confidenza con la camera, aggirarsi per gli spazi in cerca di uno spunto, scegliere con cura un oggetto e ritrarsi attraverso quello. Ognuna si è costruita il proprio tempo fotografico, a volte anche isolandosi per ore. Quando ci siamo trovate a confrontarci, attraverso le immagini si è parlato di biografie, di vita nella comunità, di questioni di genere.   

Così come la lettura delle immagini offre diversi livelli di interpretazione, fare ricerca con le immagini presuppone una buona conoscenza del proprio contesto di ricerca, o per lo meno richiede di confrontarsi quanto più possibile con chi quel contesto lo vive. In questo senso, la disposizione all’analisi delle dinamiche culturali affiora con una particolare rilevanza quando a fotografare è chi conosce a fondo il linguaggio della fotografia. È il caso per esempio del fotografo Abraham Gómez originario di San Juan Chamula, un pueblo di etnia tzotzil situato vicino alla città di San Cristóbal de Las Casas. A San Juan Chamula l’uso della macchina fotografica è severamente vietato, e la fotografia, combinandosi a forme di promozione turistica, è vissuta come un’aggressione esterna alle norme della tradizione. Nella sua serie Lik Xchuvajil (Le comenzó la locura), Abraham Gómez mette in discussione le credenze degli anziani di Chamula, fotografandosi mentre compie azioni contrarie alle norme comunitarie:

È un lavoro sulle credenze dei miei antenati. Io sono di Chamula, ma sono andato via per studiare, a scuola, in questo mondo occidentale che mi ha dato nuove forme di vedere le cose, non solo le credenze dei miei nonni. Dico sempre che parlo tra due mondi, che viaggio tra due mondi: il mondo tzotzil e il mondo occidentale. È il mondo occidentale quello che mi fa mettere in discussione le credenze dei miei antenati, che mi fa chiedere fino a che punto sono certe o non lo sono (Intervista ad Abraham Gómez, San Cristóbal de Las Casas, 22.05.2016).

In Abraham Gómez, il contesto culturale in cui si trova a fotografare diventa il primo punto di analisi, l’elemento cardine della riflessione. Ma a volte il contesto può assumere importanza anche se non viene rappresentato. Juana López López, anche lei originaria di San Juan Chamula, sta lavorando dal 2010 alla serie Snak’obal, (“ombra” in tzotzil) in cui tratta una riflessione sull’immagine a partire dalle figura in ombra di persone a lei care. Non potendo fotografarli direttamente, Juana rappresenta membri della sua famiglia attraverso la loro sagoma, che diventa così un rimando simbolico legato al luogo in cui vivono. Conoscere Abraham e Juana mi ha dato la possibilità di avvicinarmi ai processi di rappresentazione del sé da due diverse prospettive, entrambe provocatorie, capaci di rimodulare in senso critico il reale.

Nel guardare le loro fotografie, penso che il compito del ricercatore che desideri avvicinarsi allo studio delle immagini sia un po’ questo, capire quando una credenza rappresenti un modo di vivere nel mondo, o quando un’ombra non diventi solo un semplice riflesso ma qualcosa di significativo.

Riferimenti Bibliografici

Carey M. Noland, “Auto-Photography as Research Practice: Identity and Self-Esteem Research”, «Journal of Research Practice», Volume 2, 1 (2006), pp.1-19.

Douglas Harper, “Talking about pictures: a case for photo elicitation”, «Visual Studies», Vol. 17, No. 1, 2002.

Francesco Faeta, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, FrancoAngeli, Milano 1995.

Laura Miroslava Corkovic, La cultura indígena en la fotografía Mexicana de los 90s, Ediciones Universidad de Salamanca, Salamanca 2012.

Marcus Banks – Howard Morphy, Rethinking visual anthropology, Yale University Press, 1999.

Margaret Mead – Gregory Bateson, Balinese Character: A Photographic Analysis, Academy of Sciences, New York 1942.

Olivier Debroise, Fuga Mexicana: un recorrido por la fotografía en México, ed. Gustavo Gili, Barcelona 2005.

Robert Ziller, Photographing the self: Methods for observing personal orientations, CA Sage, Newbury Park 1990.

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Note

  1. Francesco Faeta, Strategie dell’occhio. Etnografia, antropologia, media, FrancoAngeli, Milano 1995, p.53.
  2. ulla tecnica della foto elicitazione si veda Douglas Harper, “Talking about pictures: a case for photo elicitation”, «Visual Studies», Vol. 17, No. 1, 2002.
  3. Il laboratorio si è svolto presso l’associazione CODIMUJ di San Cristóbal de Las Casas.
  4. Per questa esperienza ho fatto riferimento ad alcuni studi sull’auto-photography, come ad esempio quello di Carey M. Noland, “Auto-Photography as Research Practice: Identity and Self-Esteem Research”, «Journal of Research Practice», Volume 2, 1 (2006), pp.1-19.
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