Una riflessione di Claudio Cavallari, insegnante della scuola primaria nel bolognese, sulle dinamiche normalizzanti e pseudoscientifiche della valutazione formativa rispetto agli alunni di origine straniera.
Ha scritto Valentina Bugli, in una bella raccolta di saggi edita dalle edizioni dell’asino, riflettendo sulla attitudine della scuola a normalizzare, che «i giovani di origine straniera crescono all’interno di un meccanismo che funziona in maniera più allargata per tutti i cittadini di origine straniera: le loro esperienze sono spesso ridotte a esperienze di povertà (poverini aiutiamoli), a esperienze di disonestà (delinquenti, rinchiudiamoli), a esperienze di diversità (neri, tornate al vostro paese)» (cfr. Crescere nonostante, a cura di S. Laffi, p. 58). Questa cornice riduzionista è all’opera, spesso, anche a scuola.
Corrono tempi di profonde trasformazioni dell’istituzione scolastica. Un equilibrio delicato, talvolta precario, scandisce i bilanciamenti tra un processo che si vorrebbe di modernizzazione e le spesso rudimentali spinte al rinnovato consolidamento di prassi che rifiutano ostinatamente di congedarsi, retaggio di un passato non proprio glorioso e assai parco di entusiasmi. Barometro e arbitro di tali frenetiche oscillazioni, l’insegnante si trova oggi sempre più spesso costretto ad annoverare il più acrobatico funambolismo tra le competenze cui più di frequente egli si cura di fare ricorso.
Nel fronteggiare le esplosioni che da una società in crisi si ripercuotono, con modalità sorprendentemente creative, nello specchio dell’aula, e nell’affannosa rincorsa di un vento di riforma che promette di condurre la scuola su lidi tanto storicamente altri, quanto educativamente indesiderabili, chi insegna continua oggi a nutrire il proprio forsennato equilibrismo di una sola e potente certezza: quella di restare, nella società, sempre invisibile per quanto cruciale.
Che non si riconosca agli insegnanti la monumentale importanza della funzione che svolgono è argomento tristemente noto in Italia. Così come risulta palese, ai più, la desertificazione che i processi di una burocratizzazione predatoria e di una valutazione compulsiva fanno pesare sugli aspetti qualitativi della funzione didattica ed educativa. Nella morsa che tali tensioni stringono, nel loro rinserrarsi quotidiano, l’aspetto motivazionale – vocazionale verrebbe da dire – che sostiene l’insegnante nel suo lavoro, non sempre è in grado di rappresentare un punto di tenuta affidabile. Laddove infatti la sensibilità e la competenza del singolo insegnante vengono poste come unico contrafforte alle tendenze di cui sopra, il rapporto formativo-educativo si trova inevitabilmente esposto sull’orlo di un abissale, rischioso arbitrio.
Sono gli insegnanti a fare la differenza. È un dato dell’esperienza comune. Ovviamente nulla da eccepire quando questa differenza prende forma nell’incontro con maestri, o professori, capaci di accendere desideri, di entusiasmare studenti e alunni nel loro percorso di crescita e di apprendimento. Ma, come si sa, non sempre purtroppo è così. Declinata negativamente questa differenza traduce talvolta un potere nefasto, un potere che appone stigmi, tracce indelebili, un potere che rischia addirittura, in alcuni casi, di deturpare rovinosamente giovani vite. Non si pensi però che sia per forza necessario far correre il pensiero lontano, verso gli aberranti – sempre meno rari – casi in cui l’incompetenza, e troppo spesso un’eccessiva fatica abbandonata a se stessa, di un insegnante deflagra in episodi che finiscono sulle prime pagine delle cronache locali.
A chi lavora a, o con, la scuola è dato accorgersi di una violenza più subdola e quotidiana che attraversa silenziosamente le aule, sedimentando giornalmente percezioni svalutanti di insuccesso, di inadeguatezza, di marginalità tra molti giovani alunni. Discriminazioni quotidiane, sovente razziste, tanto più letali quanto meno riconducibili ad isolati e folli episodi di “smarrimento” dell’insegnante, ma confermati nella costante imposizione di una razionalità presuntuosa e scientista, nonché falsamente democratica, secondo la quale esisterebbe un’oggettività inconfutabile degli strumenti preposti alla valutazione trasversale degli alunni.
Nella scuola primaria soprattutto, la natura performativo-prestazionale dell’impegno scolastico richiesto a bambini di età compresa tra i sei e gli undici anni – esseri umani in piena e cruciale formazione – disattende ciecamente quel bisogno di riconoscimento di sé, della propria specificità, che non soltanto sottende il processo di una sana maturazione individuale, ma che getta altresì le basi di un efficace e fruttuoso percorso formativo. In questo senso, la cognitivizzazione dei processi di apprendimento non soltanto derubrica d’un colpo l’ampio spettro di competenze trasversali (emotive, affettive, creative, ecc.) che sarebbero invece loro funzionali, ma rischia, soprattutto nei casi di alunni che vivono un temporaneo momento di difficoltà, di costituirsi quale fattore di blocco di quelle stesse abilità cognitive che pretenderebbe al contrario di potenziare. È superfluo sottolineare come in simili situazioni un processo di etichettamento, spesso supportato da certificazioni diagnostiche che mal presentate raddoppiano e consolidano lo stigma già in corso, incida profondamente sull’autostima del bambino determinando in lui come unico apprendimento possibile quello di un sentimento di impotenza capace di paralizzarlo, atrofizzando, a volte irrimediabilmente, lo sviluppo delle sue qualità, oltre che l’acquisizione di importanti competenze.
Tale è il caso di una scuola primaria del centro di Bologna, rispetto alla quale chi scrive è coinvolto professionalmente. Si tratta di un contesto in cui talune insegnanti applicano la sistematica disconferma di alcuni bambini – guarda caso stranieri – il cui rendimento scolastico è valutato gravemente al di sotto della norma. Il fatto è che si tratta di alunni che attraversano un periodo di difficoltà dal punto di vista emotivo, e che spesso hanno alle spalle situazioni di scarsa integrazione sociale, con famiglie che faticano, come è normale, ad interfacciarsi con una cultura scolastica ed istituzionale differente da quella in cui sono cresciute, agendo in certi casi in modo conflittuale rispetto alla posizione che la scuola manifesta nei confronti del bambino. Tutti elementi, questi, che entrano prepotentemente in gioco nel rendere difficoltoso l’apprendimento e scarso il rendimento di questi bambini all’interno del contesto scolastico.
In contesti diversi infatti, dove questi bambini hanno possibilità di sperimentare un ambiente non giudicante e ben predisposto al riconoscimento delle loro più diverse qualità, si può osservare come l’intelligenza emotiva, relazionale e creativa abbia buon gioco nel rafforzare in loro autostima e senso di autoefficacia, contribuendo al conseguimento di risultati più che soddisfacenti anche sotto il profilo cognitivo. Le loro insegnanti tuttavia, rifiutano risolutamente di abiurare al verbo della valutazione computazionale dei risultati scolastici e, trincerandosi dietro alle diagnosi neuropsichiatriche relative al Q.I. di questi alunni (sic!), gli rimandano senza troppi giri di parole la constatazione della loro incapacità di raggiungere obiettivi minimi, accompagnandola spesso con fiumi di insufficienze in verifiche, interrogazioni e pagelle – per giustizia nei confronti degli altri bambini (ri-sic!).
L’adagio popolare secondo cui, apponendo un voto ad uno studente, l’insegnante giudica in realtà il proprio lavoro, pare qui caduto nella più desolante desuetudine. Il ritardo cognitivo presunto, ma anche la provenienza culturale di questi bambini, diventano, nelle parole incredibili di queste insegnanti, giustificazioni in grado di sollevarle da ogni responsabilità educativa nei loro confronti, fatta salva quella di sprecare inutilmente tempo ed energie insistendo sulla necessità del loro recupero, riproponendo allo sfinimento la litania di quelle stesse metodologie che hanno già precedentemente fallito.
L’esempio fornito da queste insegnanti ci restituisce un volto dell’istituzione scolastica brutalmente trasfigurato. In esso si riflette il grigio operare di un dispositivo di normalizzazione in cui l’insegnante si riduce mestamente ad agente disciplinare occupato a sanzionare le diversità per ricondurle entro parametri di accettabilità, o per squalificarle come patologie del tutto indipendenti dal proprio operato, e rispetto alle quali nulla si può fare se non affidarle alla cura oggettivante di esperti capaci di ricondurre soggettività non pienamente omologate nel tracciato di un’assistenza socio-sanitaria che durerà, quanto meno nei suoi effetti, per sempre. Sfugge probabilmente a questo tipo di insegnanti l’importanza di cui essi sono investiti dagli stessi bambini, per i quali il bisogno di essere riconosciuti, valorizzati, apprezzati e stimolati nella crescita da parte degli adulti di riferimento, è condizione elettiva della formazione della propria persona e dell’accettabilità della propria esistenza. Operare contro il soddisfacimento di tale necessità primaria significa agire una deprivazione violenta nei confronti dei bambini, significa aprire in loro dolorose ferite, spesso non rimarginabili.
Il problema vero sta tuttavia nel fatto che la violenza, il razzismo, la discriminazione, nell’invisibilità della loro dimensione più quotidiana e serpeggiante ci mostrano sempre un’altra faccia: quella della necessità, quella dell’emergenza, o quella della penuria di risorse. La corresponsabilità istituzionale e politica è in tal senso mastodontica, e non può essere taciuta. Lungi dunque dall’accanirsi soltanto contro gli insegnanti che sbagliano, l’esigenza prioritaria che scuote dalle sue fondamenta il mondo della scuola, primaria e non, riguarda l’importanza di rompere quel guscio di isolamento che condanna gli insegnanti da un lato all’impotenza e dall’altro alla fruizione di un potere talvolta troppo grande. Se il corpo insegnanti potesse diventare una comunità educativa capace di interrogarsi sullo statuto etico e politico della propria funzione, rimettendo al centro della metodologia didattica i pilastri del desiderio, del riconoscimento, della valorizzazione delle differenze, forse un passo più lontano dagli episodi di discriminazione e razzismo, ma anche dalle retoriche mercatiste del modello di scuola che si profila all’orizzonte, potrebbe essere fatto.