Gli scritti dal carcere di Alaa Abd el-Fattah, appena pubblicati da hopefulmonster.
Alaa Abd el-Fattah è un blogger, programmatore informatico e una delle figure di spicco della rivolta egiziana del 2011 contro il regime di Hosni Mubarak. Abd el-Fattah è stato arrestato più volte e rilasciato, sino al suo ultimo arresto da parte dei servizi di sicurezza egiziani nel settembre 2019. In seguito al suo arresto ha subito torture in carcere. Abd el-Fattah è stato poi sottoposto a un processo farsa con le accuse di “appartenere a un gruppo terrorista”, “uso improprio dei social media” e “pubblicazione di notizie false”. Il 20 dicembre 2021 verrà giudicato senza che l’accusa abbia fornito prove sui capi di imputazione o alcun tipo di documentazione alla difesa, a cui non è stato consentito di argomentare in difesa di Abd el-Fattah durante le recenti udienze. Nello stralcio che proponiamo qui, dal suo libro Non siete stati ancora sconfitti (hopefulmonster 2021, traduzione di Monica Ruocco), Alaa condivide delle sue riflessioni avvenute nel periodo di libertà vigilata che visse nel 2019, a ridosso dell’anniversario del massacro di Rabaa al-Adawiya, luogo dove nel 2013 un sit-in di protesta contro il colpo di stato di Abdel Fattah el-Sisi è durato per sei settimane.
II
Questo sì che è un giorno da ricordare. La temperatura notturna è calata e, con essa, l’attività degli insetti nel “chiosco” annesso alla stazione di polizia di Doqqi dove trascorro ogni notte in libertà vigilata. Sono caduto in un sonno profondo, dopo due settimane trascorse a girarmi e rigirarmi nel letto. Mi sono svegliato presto, in forma. Faccio i miei esercizi mattutini, poi esco dal mio “chiosco” di isolamento e vado in bagno, con una sensazione di ottimismo per il nuovo giorno. Mi sto sforzando di ignorare i dettagli che regolano la vita in una stazione di polizia. Non voglio sapere cosa succede attorno a me. Ho completamente perso la mia curiosità per i meccanismi che regolano il funzionamento dello stato egiziano, in particolare gli organi che governano i nostri corpi. Mentre la mia mente cerca diligentemente di ignorare ciò che mi circonda, la mia spalla registra un’anomalia e i muscoli iniziano a contrarsi. Manca meno di un’ora al mio rilascio.
Con le lenzuola sulle mie spalle indolenzite, mi avvio meccanicamente verso la mia auto (dove la biancheria sarà conservata per tutto il giorno). Il mio sguardo percepisce un maggiore spiegamento degli apparati di sicurezza: fucili automaticipronti, mezzi corazzati. La mia mente ignora i dettagli, ma il mio cuore si stringe e lo spasmo si irradia fino al collo. Con difficoltà, guido verso la mia destinazione, che si trova nelle vicinanze.
Sono ospite a casa di amici, ai quali mi unisco per la colazione in una casa brulicante di bambini e di gioia, ma il dolore nel mio corpo mi impedisce di partecipare attivamente. Due ore dopo, finalmente noto decine di messaggi di amici preoccupati, alcuni dei quali mi avvisano di non parlare o fare commenti, scrivere o diffondere messaggi. È successo qualcosa durante il mio isolamento forzato. Qualcosa su di me? Su di noi? A chi si riferisce questo “noi”? Alla famiglia, agli amici, ai compagni rivoluzionari? Lancio una rapida occhiata a Twitter. Mohamed Morsi è morto. La mia mente coglie finalmente ciò che il miocorpo aveva capito fin dall’alba. Il linguaggio ufficiale dei siti di notizie mi disgusta, e sui social media sono assalito da dibattiti e discussioni sulle elezioni del 2012, sulle manifestazioni del 2013 e sulla nostra posizione in entrambi i casi. Vorrei urlare a loro, ai miei amici e compagni: noi non c’entriamo, idioti! Il mio corpo replica: forse, ma c’è una storia su di te che è impressa nel tuo corpo. Sta per succedere qualcosa di terribile.
IV
Questa giornata non è stata eccezionale. Anche se la stazione di polizia va in massima allerta per ragioni che a un civile come me sembrano insensate come, ad esempio, quando la nazionale di calcio viene espulsa dalla Coppa d’Africa, la morte di Mohamed Morsi non ha attirato l’attenzione delle massime autorità. Il defunto non era che un ex presidente. Non ricordo esattamente quando ho letto la notizia per la prima volta, probabilmente la mattina presto. L’ho ignorata, sempre nel tentativo di ignorare tutte le notizie scoraggianti, e non mi sono concentrato sull’identità della vittima. Tuttavia, alla fine della mia giornata, mentre tornavo per consegnarmi di nuovo alla stazione di polizia, il dolore alla coscia ha ricominciato a pulsare.
La notte prima avevo dormito a tratti, cercando di trovare una posizione comoda, a cui aveva fatto seguito una giornata faticosa piena di commissioni da sbrigare. Il dolore mi rendeva difficile guidare. Non ce l’ho fatta più e ho ceduto agli antidolorifici. Il giorno dopo ho finalmente lasciato la mente libera di vagare.
Quando mi sono soffermato sulla notizia del funerale, mi sono reso conto dei complessi legami che mi collegavano a Omar Adel, il giovane senza malattie pregresse il cui cuore si era fermato a causa di difficoltà respiratorie in una delle celle di isolamento nella divisione di custodia cautelare del carcere di Tora. Mi sono ricordato della notte trascorsa in una di quelle stesse celle d’isolamento quando avevo 25 anni, più o meno la stessa età di Omar. Se ricordo bene si trattava di un tentativo di interrompere uno sciopero della fame collettivo. Mi sono ricordato di un sermone del venerdì tenuto da un altro detenuto. Iniziò il discorso dicendo che essere chiusi in quel carcere era la cosa più difficile e la più simile all’essere chiuso nella tomba. Le celle d’isolamento sono, in realtà, come tombe. Era come se Omar fosse stato sepolto vivo.
V
Sono tutti sopravvissuti alla peggiore delle carneficine. Trascorsero quattro notti di terrore, ammassati nello stadio internazionale del Cairo e poi furono spostati a intervalli regolari da un luogo di detenzione temporanea all’altro, con le loro famiglie stordite dalla stanchezza che li cercavano tra i cadaveri dell’obitorio e degli ospedali, quelli ufficiali e quelli improvvisati. Quando si scoprì che erano stati arrestati ed erano in attesa di essere trasferiti in prigione fu un sollievo per tutti. La vita in carcere è dura, ma almeno, in teoria, si tratta di un posto stabile e sicuro dove stare mentre nel Paese il caos dilaga. Sempre meglio il carcere della paura di un destino incerto. Ancora più importante, erano sopravvissuti al bagno di sangue.
Mancava solo una tappa al loro viaggio nell’orrore: il breve tragitto dalla stazione di polizia di Heliopolis al carcere militare di Abu Zaabal, e poi avrebbero potuto riposarsi. Quelli che avevano assistito allo sgombero di Rabaa al-Adawiya non potevano immaginare che per loro ci fosse in serbo qualcosa di peggio. Il massacro nella camionetta della polizia di Abu Zaabal si distingue per la sua inequivocabile chiarezza che non lascia spazio a ulteriori dubbi. La decisione di lanciare un candelotto lacrimogeno progettato per disperdere grandi folle in spazi aperti verso un gruppo di prigionieri indifesi, costretti e stipati in una camionetta chiusa, sembra dimostrare un’evidente intenzione di uccidere. Ma la verità è che quanto accadde non è stato determinato da nessuna decisione. Solo un comportamento senza alcun senso, ben noto a chi sia mai stato trasportato in una camionetta della polizia.
Ogni trasporto di prigionieri comporta tempi di attesa inutilmente lunghi e, naturalmente, inspiegabili. Mettiamo che sei convocato per un’udienza in tribunale. Se non la conosci già in anticipo, in genere non verrai informato della tua destinazione. Verrà ordinato di spostarti in una gabbia designata specificamente per i prigionieri in attesa di trasferimento. Di solito l’attesa è lunga, anche se la camionetta è già lì, forse perché i dettagli relativi alle procedure di sicurezza non sono ancora definitivi. Finalmente sali sulla camionetta e le porte si chiudono. Rimane però ferma lì, forse perché un funzionario statale ha tardato a mandare un documento da qualche parte. Alla fine la camionetta si muove, ma poi si ferma di colpo, magari davanti a un’altra prigione. Dopo un’ora, potrebbe entrare un compagno di prigionia e, se glielo chiedi, giurerà che è rimasto lì ad aspettare la camionetta per ore. La storia va avanti così finché non raggiungi la tua destinazione, dove aspetterai ancora un po’, forse perché gli ufficiali stanno bevendo il tè. Chissà? Tutto questo rientra nell’ordine normale delle cose. Spesso i prigionieri arrivano dopo che i giudici sono già andati via. Non importa, sei un prigioniero e il tuo tempo non ti appartiene e, in ogni caso, non ha valore. È la stessa logica burocratica che ostacola qualsiasi interazione con il governo e la trasforma in un inutile e prolungato fastidio senza senso. La differenza è che sei costretto in una soffocante scatola di metallo senza nessuna possibilità di riposarti.
Quel giorno la camionetta fu lasciata ferma, sotto il sole di agosto, per almeno quattro ore. Più di 40 corpi erano stati stipati in uno spazio che non era sufficiente per la metà di loro, senza ventilazione, senza acqua. Senza nessuna logica, senza nessun motivo. Si trovavano già all’interno del complesso carcerario di massima sicurezza. Ma l’arrivo di un corpo in uno specifico luogo non ha senso, a meno che quel corpo non sia associato a una serie di timbri e firme necessarie per trasformare la sua esistenza fisica in un atto ufficiale. Senza alcun dubbio, sarebbe stato possibile, per gli ufficiali che accompagnavano il trasporto o per gli agenti penitenziari, porre fine alle sofferenze dei prigionieri facendoli uscire dalla camionetta, o anche aprendo le porte e dando loro da bere dell’acqua. Avrebbero potuto rifiutarsi di spostare una camionetta riempita ben oltre la sua capienza, di muoversi prima che il calore diventasse eccessivo o, ancora, avrebbero potuto sbrigare rapidamente le procedure necessarie. Ci sarebbe stato un numero qualsiasi di altre opzioni a cominciare da quella di sbarazzarsi di questa bizzarra flotta di mezzi di trasporto svizzeri sostituendoli con veicoli normali e più umani.
La polizia non ha, però, il compito di rispettare i bisogni dei corpi umani, nemmeno il loro bisogno di aria, acqua e di un livello minimo di vita dignitosa. Ciò è dimostrato dal loro ostinato rifiuto di concedere ai prigionieri ventilatori o frigoriferi in estate, e dal regolare taglio dell’acqua per mezza giornata di tanto in tanto. L’unico compito della polizia è quello di impedire la fuga dei prigionieri e qualsiasi loro contatto con il mondo esterno. Gli agenti vengono giudicati esclusivamente in base alle loro capacità di controllo sui corpi dei prigionieri.
La decisione di lanciare un candelotto lacrimogeno in un veicolo chiuso per contenere dei prigionieri che urlano perché non riescono a respirare non rappresenta, nonostante la sua mostruosità, un fatto eccezionale. In ogni caso, il candelotto lacrimogeno venne gettato nella camionetta poche ore dopo l’inizio della carneficina scoppiata all’interno. La strage non fu determinata da una decisione precisa, ma fu piuttosto il risultato dell’applicazione di una pratica comune e di una politica consolidata che considera le parole di un prigioniero senza valore e il suo corpo come un oggetto inanimato. Un prigioniero che afferma di aver bisogno di respirare come qualsiasi altro essere vivente sta sicuramente mentendo.
La maggior parte di noi reputa una buffonata la condanna a cinque anni inflitta al vicedirettore della stazione di polizia di Heliopolis e la condanna a un anno (poi sospesa) a tre agenti per un reato minore. Il personale del Ministero dell’Interno è unanimemente d’accordo: si tratta di un grave errore giudiziario contro uomini che hanno compiuto al meglio il proprio dovere.
VIII
Dal mio arresto, ogni inverno soffro di dolori muscolari e alle articolazioni soprattutto nella parte destra del mio corpo. I sintomi si concentrano in un punto ben preciso, di solito la spalla, oppure si estendono dalla gamba al collo, per poi attenuarsi man mano che il mio corpo si abitua al freddo invernale. So che la radice di questi dolori affonda nella notte del mio arresto. Dopo che le forze speciali equipaggiate con giubbotti antiproiettile hanno preso d’assalto la mia casa con le armi in pugno, dopo aver subito il sequestro del mio telefono cellulare e del mio computer portatile, dopo aver visto colpire mia moglie, dopo che io stesso sono stato picchiato e trascinato via, sono finito disteso sulle piastrelle fredde in un luogo sconosciuto, con addosso soltanto un pigiama leggero. Avevo le mani ammanettate dietro la schiena e mi avevano bendato con uno straccio sporco. Ho trascorso la notte a rigirarmi per trovare una posizione comoda. Cercavo di resistere al sonno ma, esausto, alla fine ho ceduto, sdraiato sul fianco destro, e lì il freddo e l’umidità autunnali mi sono penetrate nelle ossa.
Circa dodici ore dopo, mi sono ritrovato davanti al magistrato e, alla fine, ho scoperto di essere stato portato nella Direzione per la sicurezza del Cairo. Ho insistito per essere interrogato innanzitutto in quanto vittima, e infatti chi mi interrogava ha preso nota delle tracce di sangue, del mio occhio gonfio e del mio aspetto esteriore generale, e ha registrato la mia denuncia per aggressione e rapina a mano armata, in quanto le presunte “prove” mi erano state confiscate illegalmente senza un mandato di perquisizione. Sono stato quindi indirizzato al medico legale. Ovviamente, nessuno degli agenti di polizia coinvolti nel mio arresto è stato convocato, e le uniche accuse presentate sono state nei miei confronti e contro i miei amici.
Dopo l’interrogatorio, sono stato trasferito a Liman, nella sezione di massima sicurezza del complesso penitenziario di Tora. Quando un nuovo detenuto entra in carcere, parte della procedura di ammissione comprende la negazione del permesso di visita per undici giorni. Quell’anno, l’inverno era arrivato in anticipo, annunciato dalla grandine. Le foto della neve – evento raro – alla periferia del Cairo circolavano ovunque. Anche dopo che mi è stato concesso di ricevere visite, l’amministrazione ha rifiutato di consentire l’introduzione di abiti pesanti, con il pretesto che erano contro il regolamento. Di conseguenza, il freddo che ho patito dormendo sulle fredde piastrelle della direzione della sicurezza si è prolungato per quasi tutto l’inverno.
I brividi sono scomparsi solamente quando ho ricevuto la notizia che la Direzione era stata bombardata. Quella mattina, mi era sembrato di sentire un’esplosione che mi aveva svegliato all’alba. Soltanto dopo, finalmente, avevo ripreso calore. Ora, il dolore che mi perseguita durante ogni inverno, torna al culmine della calura estiva con la notizia dei corpi condannati a rimanere ancora in prigione. In fondo non sono uscito da questa esperienza con la mia salute proprio intatta, come pensano i miei amici e nemici.