Non si nasce donna

Un estratto di “Non si nasce donna” (1981) di Monique Wittig, ora incluso in Il pensiero eterosessuale  (ombre corte 2019, a cura di Federico Zappino). 

Il rifiuto di diventare (o di rimanere) eterosessuali significa sempre rifiutare di diventare, o di rimanere, un uomo o una donna, che ciò avvenga in modo cosciente o meno. E, per una lesbica, questo va al di là del rifiuto del mero ruolo “donna”. Si tratta, piuttosto, di rifiutare il potere economico, ideologico e politico di un uomo. Tra lesbiche, e anche tra non lesbiche, questo lo avevamo capito da prima dell’inizio del movimento lesbico e femminista.

[…]

Alcuni percorsi del movimento femminista e lesbico contemporaneo sembrano invece volerci ricondurre al mito della donna, inventato per noi dagli uomini; in questo modo, ritorniamo a essere un gruppo naturale. Dopo aver lottato per una società senza sessi, ci troviamo ora intrappolate nella situazione fin troppo familiare del “donna è bello”. Già Simone de Beauvoir aveva sottolineato la falsa coscienza che soggiace ai tentativi di selezione, tra le caratteristiche del mito (che le donne siano differenti dagli uomini), di quelle che sembrano positive e che vengono dunque condivise volentieri ai fini di una definizione delle donne. In altre parole, ciò che l’idea sottesa a “donna è bello” mira a perseguire è l’elaborazione di una definizione delle donne che preserva le caratteristiche migliori (ma “migliori” per chi?) assegnateci dall’oppressione. Questa idea, tuttavia, non mette radicalmente in discussione la politicità delle categorie “uomo” e “donna”, preservandone l’apparente naturalità. Inoltre, ci costringe a lottare all’interno della classe “donne” non come farebbe una qualunque altra classe, e cioè al fine della sua abolizione, ma per la difesa della “donna”, per il suo rafforzamento. Questa idea ci conduce dunque a sviluppare con una certa soddisfazione “nuove” teorie sulla nostra specificità. Ad esempio, ci riduciamo a definire “nonviolenza” la nostra passività, quando la questione più importante e urgente per noi dovrebbe consistere nel lottare proprio contro la nostra passività (o contro la nostra paura, per meglio dire, tutt’altro che infondata).

[…]

Per tali ragioni, è nostro compito storico, e solo nostro, definire ciò che chiamiamo oppressione in termini materialisti, per rendere evidente che le donne sono una classe e che le categorie “donna” e “uomo” non sono perenni, ma sono di natura politica ed economica. La nostra lotta mira di conseguenza a sopprimere anche gli uomini come classe; non attraverso una pratica genocida, bensì attraverso una pratica politica. Una volta che la classe degli “uomini” sarà estinta, anche le “donne” come classe si estingueranno, dal momento che non vi sarebbero schiavi se non vi fossero innanzitutto padroni. Il nostro primo compito, chiaramente, deve sempre consistere nell’accurata disarticolazione delle “donne” (la classe all’interno della quale lottiamo) dalla “donna”, intesa come mito.

Perché la “donna” non esiste, per noi: è una formazione immaginaria. “Donne”, invece, è il prodotto di una relazione sociale. Abbiamo sentito questa disarticolazione in maniera molto forte nel momento in cui, ovunque, ci siamo rifiutate di definirci “movimento di liberazione della donna”. L’altro nostro compito dovrebbe poi consistere nella distruzione del mito, come ho detto, dentro di noi e fuori da noi. La “donna” non è “ciascuna” di noi: essa è piuttosto il costrutto politico e ideologico che nega le “donne” intese come prodotto di una relazione di sfruttamento. La “donna” sta lì a confonderci, a nascondere la realtà delle “donne”. Ai fini della consapevolezza di costituire una classe, e di doverlo diventare coscientemente, occorre innanzitutto far fuori il mito della “donna”, inclusi i suoi aspetti più seducenti (penso a Virginia Woolf quando disse che il primo compito di una scrittrice fosse quello di uccidere “l’angelo del focolare”).

Per diventare una classe, tuttavia, non occorre sopprimere la nostra individualità: dal momento che nessun individuo può essere interamente ridotto alla propria oppressione, ci troviamo anche nella condizione di confrontarci con la necessità storica di costituirci come i soggetti individuali di quella che è anche la nostra storia. Credo che sia questa la ragione per cui oggi sbocciano tutti questi tentativi di “nuove” definizioni della donna. Quello che è in gioco (non solo per le donne, ovviamente) è una definizione tanto del soggetto quanto della classe. Perché una volta che una persona ha riconosciuto l’oppressione, ha anche bisogno di sapere di potersi costituire come soggetto (in opposizione a un oggetto di oppressione), di poter diventare qualcuno nonostante l’oppressione, di avere una propria identità. E ha anche bisogno di esperirlo. Nessuna lotta è possibile per quanti sono privati di un’identità. Nessuna motivazione interiore spinge in quei casi a lottare, perché anche se la lotta ha senso solo se condotta insieme ad altri, si lotta innanzitutto per sé.

Dal punto di vista storico, la questione del soggetto individuale è difficile per tutti. Il marxismo – l’ultima incarnazione di quella scienza che ci ha formate politicamente, il materialismo – non vuole sentir parlare di un “soggetto”. Il marxismo ha rigettato il soggetto trascendentale, il soggetto come costitutivo della conoscenza, come “pura” coscienza. Tutto ciò che credeva di pensare per sé, prima di ogni esperienza, è finito nel bidone dell’immondizia della storia, perché sosteneva di esistere al di fuori della materia, prima della materia, e in quanto tale aveva bisogno di Dio, dello spirito o dell’anima, per esistere. Questo è ciò che il marxismo definisce “idealismo”. E per il marxismo, gli individui non sono che il prodotto delle relazioni sociali. La loro coscienza può dunque solo essere “alienata” (ne L’ideologia tedesca, Marx scrive che gli individui della classe dominante, pur essendo i diretti produttori delle idee responsabili dell’alienazione delle classi da loro oppresse, sono anch’essi alienati. Potendo tuttavia trarre evidenti vantaggi dalla loro propria alienazione, riescono anche a sopportarla senza troppi patimenti).

Esiste poi una cosa che si chiama coscienza di classe. E questa non si riferisce a un soggetto particolare, bensì alla coscienza condivisa tra quanti sono soggetti alle medesime condizioni generali di sfruttamento, ossia alla classe. Tutti gli altri problemi “pratici” in cui una persona potrebbe imbattersi (come ad esempio i problemi inerenti alla sessualità), e che eccedono i problemi di classe tradizionalmente intesi, sono considerati dal marxismo alla stregua di problemi “borghesi”, destinati a estinguersi con la vittoria finale della lotta di classe. “Individualista”, “soggettivista”, “piccolo-borghese”: sono solo alcune delle etichette affibbiate a chiunque manifestasse dei problemi non interamente riducibili alla “lotta di classe”.

Così, il marxismo ha negato agli individui delle classi oppresse la soggettività [the attribute of being a subject]. Per via del potere ideologico e politico che questa “scienza rivoluzionaria” ha esercitato da subito sul movimento operaio e su tutti gli altri movimenti politici, il marxismo ha impedito agli individui facenti parte delle varie categorie oppresse di costituirsi storicamente come soggetti (soggetti della propria lotta, tanto per iniziare). Questo significa che le “masse” non hanno lottato per loro stesse, ma per il partito, o per le sue organizzazioni. Il punto è che se una qualche trasformazione di ordine economico ha avuto luogo (la fine della proprietà privata, la costituzione dello stato socialista), ma non è stata accompagnata da alcuna rivoluzione sociale, è perché le persone sono rimaste tali e quali.

Due sono gli effetti che il marxismo ha sortito sulle donne. Per prima cosa ha impedito loro, e per molto tempo, di acquisire una coscienza di classe, e quindi anche di costituirsi come classe. Il marxismo ha collocato la relazione tra donne e uomini al di fuori dell’ordine sociale e l’ha trasformata in una relazione naturale – senza dubbio, l’unica relazione che i marxisti concepiscano in questi termini, insieme a quella tra madri e figli. Così facendo, il marxismo ha celato il conflitto di classe tra uomini e donne dietro alla divisione naturale del lavoro (rimando a L’ideologia tedesca). Questo per quanto riguarda il livello teorico (ideologico).

Per quanto riguarda il livello pratico, invece, Lenin, il partito, tutti i partiti comunisti che si sono susseguiti fino a oggi, inclusi i gruppi politici più radicali, hanno sempre reagito a ogni tentativo di riflessione e di costituzione di gruppi basati sui problemi della loro classe, da parte delle donne, con l’accusa di voler creare divisioni. In altre parole: se le donne si uniscono, dividono il popolo. Ciò significa dunque che per i marxisti le donne appartengono o alla classe borghese o a quella proletaria – o per meglio dire, agli uomini di queste classi. D’altronde, la teoria marxista stessa non può consentire né alle donne né ad altri soggetti oppressi appartenenti ad altre classi di costituirsi come soggetti storici, perché essa sottovaluta che una classe è anche composta di singoli individui.

Oggi sappiamo che la coscienza di classe non può bastare. Dovremmo cercare di indagare dal punto di vista filosofico (politico) questi concetti di “soggetto” e di “coscienza di classe”, per comprendere in che modo si relazionano con la storia delle donne. Quando realizziamo che le donne sono oggetti di oppressione e di appropriazione, nel momento stesso in cui diventiamo capaci di percepire questo, diventiamo soggetti, soggetti intelligenti, soggetti che comprendono mediante un gesto di astrazione. La coscienza dell’oppressione non è solo una reazione a (lottare contro) l’oppressione. È anche l’intera rivalutazione concettuale del mondo sociale, la sua intera riorganizzazione con concetti nuovi, dal punto di vista dell’oppressione. È quella che chiamerei “scienza dell’oppressione”, fondata da chi l’oppressione la esperisce. Questa capacità di comprensione della realtà deve essere perseguita da ciascuna di noi: la potremmo definire una pratica soggettiva, cognitiva. E ciò che ci consente di muoverci tra i vari livelli di realtà (la realtà concettuale e la realtà materiale dell’oppressione, che sono entrambe realtà sociali) non è che il linguaggio.

[…]

Una volta che abbiamo mostrato che tutti i problemi cosiddetti personali sono invece problemi tra classi sociali, resta comunque aperta la questione della soggettività di ogni donna – non del “mito”, ma di ciascuna di noi. E, a questo punto, dobbiamo dire che una nuova possibilità di definizione personale e soggettiva, per chiunque, la si può trovare solo oltre le categorie di sesso (donna e uomo). L’avvento di soggetti individuali richiede innanzitutto la distruzione delle categorie di sesso, dei loro usi, nonché il rifiuto di tutte le scienze che ancora concepiscono queste categorie come loro base concettuale (in pratica, tutte le scienze sociali). Quando diciamo di voler distruggere la “donna” non significa chiaramente che vogliamo distruggerla fisicamente, né tantomeno che vogliamo distruggere, insieme alle categorie di sesso, anche il lesbismo: al momento, infatti, il lesbismo è l’unica forma sociale entro cui possiamo vivere liberamente.

Il lesbismo è il solo concetto che conosco che vada oltre le categorie di sesso (donna e uomo), perché il suo soggetto (la lesbica) non è una donna, né economicamente, né politicamente, né ideologicamente. A rendere tale la donna, infatti, è una specifica relazione sociale con un uomo, una relazione che abbiamo precedentemente chiamato schiavitù, la quale implica determinati doveri, sia di tipo personale e corporeo, sia di tipo economico (la “residenza coatta”, il vassallaggio domestico [domestic corvée], i doveri coniugali, una produzione illimitata di bambini ecc.).

Da tale relazione, le lesbiche sono fuggite mediante il rifiuto di diventare, o di rimanere, eterosessuali. Siamo fuggitive dalla nostra classe allo stesso modo degli schiavi fuggitivi d’America quando si affrancavano dalla schiavitù, per diventare liberi. Per noi, tutto ciò rappresenta un’assoluta necessità. Tuttavia, la nostra sopravvivenza richiede anche che contribuiamo con tutta la forza che abbiamo alla distruzione della classe delle donne, intesa come bacino di appropriazione di queste da parte degli uomini. E questo può essere realizzato solo con la distruzione dell’eterosessualità come sistema sociale che si fonda sull’oppressione delle donne da parte degli uomini, e che produce la dottrina della differenza tra i sessi per giustificare questa oppressione.

Print Friendly, PDF & Email
Close