“Per diritto naturale liberi ed eguali, comuni alla terra che è madre di tutti”.
Come non occuparsi della questione dei beni comuni? Del bene comune? Siamo obbligati a farlo, è diventata una questione reale di sopravvivenza materiale e sociale del genere umano.
Per occuparsene è necessario restituire la complessità alla realtà e riuscire, quindi, a vedere insieme il datum ambientale, formato da ecosistemi, sistemi idrogeologici, climi, geologia, botanica, zoologia, ecc… e gli aspetti sociali, come l’ecologia umana, il paesaggio agricolo, i costrutti culturali, che permettono un’autoriproduzione simbolica infinita di immagini, memorie, archivi, letture e riletture di testi di ogni genere e poi ancora icone, norme, logiche, giochi; si può dire con Donolo che “i beni comuni «naturali» si sono iperbolicamente moltiplicati nella dimensione dell’artificiale e del virtuale tramite innovazione, ibridazione, contagio, accumulazione, dispersione” [1].
La locuzione bene comune, di per sé composta, è portatrice di una gamma di sfumature semantiche, linguistiche, etiche, evidenti nell’uso aggettivale della parola “comune” che rimanda chiaramente alla serie degli obblighi reciproci fondanti le comunità. Ma ciò che è in questione è il “bene” ossia i beni di pertinenza della comunità (boschi, pascoli, fonti, memorie e conoscenze) e il buon modo di gestirli sia per la fruizione immediata che per quella futura di chi abita “nel comune” e grazie al comune. Senza questo legame reciproco e relazionale che salda i nodi sociali in una rete, gli esseri umani gli uni agli altri e con l’ambiente circostante – per cui l’uomo non è più in vetta a nessuna scala evolutiva o alla fine di nessun percorso teleologico divino ma si muove orizzontalmente, tra pari – ciò che ne deriva è l’atomizzazione sociale attuale, la perdita di una coscienza rispetto ad un potere esterno alla comunità, della propria sovranità sulla qualità del proprio abitare dal punto di vista della salubrità, della sostenibilità ecologica delle proprie attività, del paesaggio memoriale sul quale sono indicate le rotte tramandate, le vie da percorrere su quei territori.
Di conseguenza, l’insieme dei beni comuni che costituisce l’ecosistema alla base dell’esistenza e della sussistenza diventa quel che gli economisti chiamano un’esternalità positiva: non viene mai messo in bilancio perché incalcolabile, non quantificabile eppure sempre espropriato, estratto e sussunto.
A tal proposito Negri parla di due modalità di espropriazione del comune. La prima tramite “appropriazioni e confische” [2] che ci riportano ad un concetto fondamentale, come sottolinea lo stesso Negri, della critica all’economia politica marxista, quello di “accumulazione originaria” e di rendita, ossia come la miniera di diamanti o la cava di inerti che viene monetarizzata in maniera del tutto arbitraria e in pieno spirito colonialista senza lasciare sul posto alcun mezzo di produzione o competenza. Il secondo modo di espropriazione riguarda “lo sfruttamento del lavoro biopolitico” [3] compreso tramite una definizione dei beni comuni non inerte e non soggetta a una “logica della scarsità” [4] ma ad una rinnovabile coproduzione endogena dei gruppi umani e delle risorse che li tengono in vita, che il capitale e l’economia neoliberista storicamente determinata sfruttano a piene mani, intrappolando le esistenze soggettive, formandole.
Se riuscissimo ad avere consapevolezza del valore dei beni comuni, dei loro limiti e delle loro potenzialità, della loro forza e della loro fragilità, potremmo allora farci un’idea del percorso da intraprendere per creare un habitat armonico, per raggiungere una nuova civilizzazione, per immaginare un’umanità diversa e persino un’ecoantropologia.
La gestione comune dei beni presuppone infatti una relazione interpersonale e un rapporto di cooperazione, solidarietà e condivisione, che è negato dalla logica del mercato delle merci come dimostrato ampiamente dagli studi della Ostrom.
Governance as a common è il fondamento della questione politica legata ai beni comuni che non si risolve né con una ripubblicizzazione che lascia spazio alle gestioni private delle utilities, né con l’elargizione di qualche trust ristretto e controllato da commissioni burocratizzate, costose e rigide; la soluzione è informale e va cercata con la pratica, attenta e elastica, dalla cultura della partecipazione ad una vera e propria domestic goods economy presa come base dell’organizzazione sociale intesa come libera e volontaria “federazione di comunità democratiche rurali nonviolente e decentralizzate” [5].
Tracciando un cammino
Pescomaggiore é un borgo dell’Abruzzo interno che guarda il maestoso Gran Sasso, la più piccola delle frazioni del Comune di L’Aquila. La sua storia recente è simile a quella di tante altre comunità di montagna che negli anni ’50 vissero un processo di spopolamento e abbandono delle campagne e delle attività agricole-pastorali per una vita in città. Prima del terremoto del 6 aprile 2009, la popolazione ammontava ad una quarantina di residenti, per la maggior parte anziani, a cui nel periodo estivo si aggiungevano oltre un centinaio di pescolani che tornavano per le vacanze.
Come altri paesi dell’Aquilano, Pescomaggiore è stato colpito dal terremoto del 2009: l’evento sismico ha danneggiato e reso inagibili la gran parte delle case, provocando un ulteriore spopolamento dell’abitato e la drastica diminuzione del ritorno stagionale delle famiglie originarie. La tragedia del terremoto ha, però, rafforzato anche dei percorsi in direzione contraria.
La questione della rigenerazione e della valorizzazione dell’abitato e del territorio circostante era il tema fondante del Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, costituito nel 2007 da residenti, oriundi e proprietari di immobili. Una delle sue finalità: mettere in crisi l’idea di “sviluppo economico” rappresentata dall’attività estrattiva di inerti che in Abruzzo, anche per l’assenza di una pianificazione regionale, si è fortemente radicata. Difatti, a circa 500 metri dall’abitato era ed è in funzione un’enorme cava d’inerti, che, oltre a degradare il paesaggio, ha, nel corso degli anni, letteralmente polverizzato per sempre ettari di terreni in proprietà collettiva di uso civico, liberando le sue polveri nell’aria, generando inquinamento acustico e un aumento del traffico pesante lungo la stretta e tortuosa strada che collega Pescomaggiore al vicino abitato di Paganica. Il tutto è avvenuto senza un miglioramento nella qualità della vita degli abitanti di Pescomaggiore, salvo, forse, per l’unica persona che ci lavora.
La ditta che gestisce la cava intende aprirne una nuova, in prossimità e sempre su terreni in proprietà collettiva d’uso civico. Il Comitato si sta opponendo, assumendo il territorio – in particolare quello in proprietà collettiva d’uso civico – come un bene comune inteso come “ambiente essenziale alla riproduzione materiale della vita umana e al realizzarsi delle relazioni socio-culturali e della vita pubblica” [6].
Per difendere il bene comune territoriale minacciato dall’attività estrattiva, oltre che con azioni legali e di informazione sulla problematica in ambito locale, si è risposto con un primo tentativo di coltivazione e commercializzazione dello zafferano. Poesia pura, quando sul bordo della cava, su terreni contesi dalla cava, iniziarono a spuntare i primi fiori viola: un gesto poetico ma anche un patto fondante di un gruppo di persone che non si volevano arrendere a logiche economiche devastanti per il territorio.
Il terremoto ha comportato poi nuove sfide. Da una parte, la costruzione delle nuove C.A.S.E. nel cratere aquilano si è basata sulla logica delle decisioni prese dall’alto, senza la partecipazione degli abitanti, in armonia con la logica del cemento che favorisce l’apertura infinita di cave di inerti.
Dall’altra, la Protezione civile aveva già deciso che nel paese non si sarebbero realizzate né tendopoli d’emergenza né strutture abitative “temporanee”, il che avrebbe comportato il trasferimento altrove degli abitanti ed il totale abbandono del borgo. Fortunatamente molti degli abitanti si sono opposti, hanno deciso di non andare via e così, ad un mese dal sisma, la Protezione civile (con la C.R.I.) ha dovuto prendersi in carico la tendopoli sorta spontaneamente a Pescomaggiore. Di fronte a questo fatto, il Comitato di Pescomaggiore ha iniziato a farsi promotore di un progetto di insediamento ecosostenibile nelle vicinanze del borgo.
L’abitare e il come abitare divenivano, in questa congiuntura, una nuova forma di “relazionarsi con” il bene comune territorio. Il progetto dell’Ecovillaggio Autocostruito (EVA) prevedeva l’autocostruzione di sette case in paglia e legno, poi ridotte a cinque. Le terre su cui sono state realizzate sono di proprietà di tre pescolani aderenti al Comitato che hanno deciso di metterle a disposizione – in forma di comodato d’uso – a chi aveva perso casa. Le case sono state costruite dai loro futuri abitanti, insieme a tante persone che, da diversi luoghi d’Italia e del mondo, hanno contribuito con il loro lavoro volontario o con la donazione di denaro. La pluralità creatasi nell’ecovillaggio e intorno all’ecovillaggio è conformata da soggettività diverse: ci sono i pescolani che ci abitano e valorizzano il loro abitare nell’ecovillaggio mantenendo il loro rapporto identitario con il paese, la loro storia, la loro famiglia; ci sono giovani sfollati non originari di Pescomaggiore, così come diversi soggetti che senza abitarvi hanno costruito legami forti con il luogo. Intorno all’ecovillaggio si è così ricreata una “coscienza di luogo”, intesa come forma di “reidentificazione collettiva” con un luogo attraverso “processi di democrazia partecipativa che ricostruiscano propensioni al produrre, all’abitare, al consumare in forme relazionali, solidale e comunitarie” [7].
Chi vi abita non è proprietario, né delle terre né delle case, egli le utilizza e partecipa alla loro gestione; il comodato prevede che, una volta ristrutturate le case danneggiate dal terremoto, il nuovo insediamento potrà avere un’utilizzazione sociale, ricreativa o turistica. La scelta e la gestione futura di questo bene comune coinvolgerà l’insieme della “comunità allargata”: gli abitanti di Pescomaggiore, i donatori riuniti nella Tavola pescolana e tutti gli associati all’associazione di promozione sociale Misa, costituita nel 2009 per gestire i lavori dei volontari nel cantiere, i lavori agricoli ed altri interventi volti alla valorizzazione ed alla cura del territorio.
Parallelamente alla costruzione delle case in paglia è stato sviluppato (con il sostegno della Caritas Lombardia e del Comune di Vimodrone) un progetto sulla memoria storica del paese, anch’essa intesa come un bene comune, articolato in due interventi: il restauro del forno comune e un’indagine qualitativa con gli abitanti. Duplice il fine: riattivare uno spazio comune accessibile a tutti e recuperare una conoscenza dell’abitato nel post sisma per guarire da una crisi di presenza, ma anche per promuovere l’integrazione tra nuovi e vecchi abitanti del borgo.
Infatti, sebbene l’idea progettuale dell’ecovillaggio fosse stata presentata a tutta la comunità pescolana quando ancora erano tutti in tendopoli, il coinvolgimento nel successivo percorso è stato poi limitato alle due famiglie che hanno deciso di farne parte attiva. Non è mancato chi ha letto la realizzazione dell’ecovillaggio come un’occupazione di “strani” con interessi particolari. È stato quindi poi necessario affrontare la separazione spaziale tra il vecchio borgo e l’ecovillaggio e per rafforzare il senso di comunità si è scelta un’azione fisica: il restauro del forno comune, sempre meno utilizzato nell’ultimo ventennio. E la risposta è stata positiva, in entrambe le direzioni.
Il forno è stato restituito alla sua funzionalità: le sue storie, le antiche ricette, i ricordi dell’odore del pane sono emersi, saperi locali che il giorno dell’inaugurazione si sono materializzati in pane e pizze condivisi in un atto collettivo di nutrimento fisico e spirituale. È stata una gran festa. Ora La porta del forno è sempre aperta, come lo è l’invito ad usarlo, ed altre infornate di pane e pizze sono state fatte, anche in concomitanza con le feste patronali del paese; la strada per pensare a questo bene comune anche come generatore di reddito é ancora lunga, a causa delle normative igienico -sanitarie che non permettono che si produca pane per la vendita in modo tradizionale.
L’azione sulla memoria Ricordare, raccontare, sperare è volta al recupero di una memoria comune della vita quotidiana del paese e della terra, interrogando le voci degli ultimi contadini e di tutti gli abitanti del borgo. Attraverso interviste, dialoghi, incontri, ogni abitante ha raccontato il suo rapporto con il territorio, con i propri compaesani, con le tradizioni contadine e i lavori agricoli.
La valorizzazione di questi saperi non passa per una concettualizzazione “fredda”, museale, “conservare per osservare”. L’intento è che quel patrimonio culturale nutra le attuali pratiche nel campo agricolo, come, per esempio, il recupero di cereali, tuberi e fruttiferi antichi in collaborazione con il Parco Nazionale del Gran Sasso. Il progetto sulla memoria comune ha permesso ai nuovi abitanti del territorio di incontrare quella che Magnaghi chiama una “conoscenza densa e profonda” dei valori patrimoniali del territorio dal punto di vista ambientale, estetico, culturale, economico.
Il processo avviato non è facile né privo di conflittualità e fragilità: si sta sperimentando una forma alternativa di ripopolamento rurale, di abitare e di possibilità di creare lavoro. Un tentativo di ciò che i popoli indigeni delle Ande definiscono come buen vivir, inteso come un modo di vivere che mette al centro le persone, i rapporti tra di loro e con la natura. Non una visione romantica, ma una pratica politica alternativa capace di mettere in discussione l’attuale modello di sviluppo ossessionato dal consumo all’infinito delle risorse e del territorio.
Alima Cure e Isabella Tomassi sono socie dell’Associazione di promozione sociale Misa. Per informazioni sull’ecovillaggio e i vari progetti in corso a Pescomaggiore si veda il sito: www.pescomaggiore.org.
Note
[1] Donolo C., Reti come beni comuni, in «Parole Chiave» n.34, Rete, Carocci Editore, 2005.
[2] Negri A., Hardt M., Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010, pag. 144.
[3] Ibidem
[4] Ivi, pag. 145.
[5] AA.VV., Spunti di riflessione dall’Officina delle idee di Rete@Sinistra, traccia di discussione 26 aprile 2011, a cura di P. Cacciari.
[6] Magnaghi A., «Il territorio come bene comune». Convegno: Comuni, comunità e usi civici per lo sviluppo dei territori rurali, Grosseto, 15 settembre 2006.
[7] Ibidem