Un pomeriggio, posizionato nella parte alta di una sala, ho provato una specie di stupore, qualcosa di generico: nessuno stava scattando fotografie.
Durante le ultime settimane ho visto qualche film. Alcuni sul televisore e sul computer. Altri al cinema, in sale diverse, in città diverse. American Sniper in un affollatissimo cinema di provincia, The Nightcrawler di Dan Gilroy, l’ultimo film di David Fincher e Birdman in un grande multisala, il deludente Wim Wenders su Salgado in un cinema d’essai, una retrospettiva su Jean Epstein in una cineteca. Qualche ora in compagnia di abbonati cinefili e di spettatori della domenica, mangiatori di popcorn e cultori della materia.
Un pomeriggio, posizionato nella parte alta di una sala abbastanza grande, ho provato, d’un tratto, una specie di stupore, qualcosa di generico. Nel colpo d’occhio di uno spazio popolato da qualche centinaio di persone ho avvertito che c’era qualcosa che mancava. Dapprima è stato come un annebbiamento, una distrazione che mi distoglieva dallo schermo grande, poi ho capito di che si trattava.
Nessuno stava scattando fotografie. Era questo a suscitare il senso di una mancanza: ero davanti a un evento spettacolare, di sicuro degno d’importanza per quanti avevano pagato il biglietto e stavano facendo convergere gli sguardi, ma nessuno, me compreso, sentiva il bisogno di fotografarlo o filmarlo.
Sì, è proibito. Ma è proibito anche ai concerti, al teatro e in diversi altri posti che nemmeno lo sappiamo quali sono. Era proibito anche al museo, prima che il Decreto Legge n. 83 del 31 maggio 2014 non rendesse possibile la «riproduzione di beni culturali attuata con modalità che non comportino alcun contatto fisico con il bene, né l’esposizione dello stesso a sorgenti luminose, né l’uso di stativi o treppiedi».
Non era certo il problema della pirateria che ci fermava. Ma allora perché non scattavamo foto? Eppure la sala nella quale mi trovavo era grande, piena di ragazzi con gli smartphone, alcuni dei quali illuminati dall’arrivo di notifiche e messaggi.
Forse non si trattava del tipo di film che si presta a essere fotografato? Ma quale film si presta a essere fotografato?
La mia memoria di spettatore non rimandava a niente. Cercavo di richiamare l’immagine di una proiezione in cui avessi assistito a qualcuno che aveva fatto una foto allo schermo o alla sala. Sicuramente qualche volta mi era capitato, ma l’unica cosa che mi veniva in mente era la straordinaria sequenza cinematografica presa ad esempio da Francesco Casetti per elaborare i concetti di “rilocazione” e “re-rilocazione” cinematografica: il cortometraggio Artaud Double Bill di Atom Egoyan, che fa parte del film collettivo Chacun son cinéma (2007), dove la protagonista filma con un telefonino un frammento della sequenza di Vivre sa vie (1962) di Godard in cui Nana si reca in una sala cinematografica per vedere La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer.
Nessuno scatta dunque fotografie al cinema? Uscendo dalla sala, questa domanda banale, questa generalizzazione del tutto empirica ed estemporanea mi ha accompagnato per diversi giorni. Ho cercato, con scarso successo, di rispondere, supportandola con qualche riscontro. Ad ogni modo non mi ha abbandonato.
Nel corso degli ultimi anni lo spazio del museo ha costituito il principale laboratorio di sperimentazione dei nuovi media in quanto possibili strumenti di formazione e condivisione, nonché di implementazione del patrimonio storico-artistico. Il Decreto legge del maggio 2014 sopra citato è correlato a una mutata concezione del rapporto tra i mezzi di riproduzione capillarmente diffusi e il sistema culturale. Il passaggio dal divieto alla licenza è infatti accentuato da una serie di campagne mirate a incentivare la riproduzione fotografica come mezzo spontaneo e immediato per divulgare il patrimonio culturale italiano.
Al di là degli aspetti deleteri e contestabili di tale naturalizzazione della produzione di immagini, neppure un “apocalittico” può ormai negare che i cosiddetti nuovi media rendano praticabile la formazione, la ricerca e la condivisione delle passioni culturali secondo le modalità che caratterizzano lo scenario contemporaneo e dalle quali è ben difficile prescindere.
È attraverso applicazioni come VangGoYourself – dove gli utenti sono invitati a ricreare in modo partecipativo opere pittoriche dei secoli passati –, oppure attraverso progetti come Curarium, sviluppato da metaLAB di Harvard e Villa I Tatti – dove gli utenti possono creare e condividere percorsi espositivi –, che le tecnologie digitali e la Rete mettono in atto tante dinamiche ludiche quante occasioni per approfondire e coltivare una passione verso i più svariati campi della cultura.
Se ormai “tutti” fanno le foto nel museo, per quale motivo “nessuno” fa le foto al cinema? La domanda si riproponeva, senza che fossi capace di superare il senso di generico stupore che avevo provato osservando quella platea in cui tutti guardavano dritti verso lo schermo riflettente.
Poi, la settimana scorsa, è uscito per Bompiani La Galassia Lumière, il nuovo libro di Casetti dedicato alle forme di persistenza della “settima arte” oltre se stessa. Un libro che pone in evidenza come l’esperienza spettatoriale contemporanea sia caratterizzata da continue “rilocazioni” che ci portano a incontrare le immagini in movimento all’interno di spazi diversi e in situazioni sempre più eterogenee: il grande schermo del multisala e il piccolo schermo dello smartphone; in movimento su un treno o in piena comodità nel proprio salotto; completamente identificati nel sistema diegetico dei personaggi oppure distratti dallo scrolling dei commenti al film stesso che compaiono in un blog o su Twitter.
La lettura de La Galassia Lumière – dove Casetti riprende l’analisi della sequenza del cortometraggio di Egoyan e sviluppa i problemi teorici connessi – mi ha dunque aiutato a fare un po’ d’ordine e a ipotizzare una risposta a quella domanda che rimaneva aperta.
Se nessuno – di certo molto pochi rispetto a quanto normalmente avviene all’interno di un museo o a un concerto – scatta foto al cinema è sicuramente per una disciplina della visione condivisa in sala: in estrema sintesi e al netto delle molteplici occorrenze, uno spazio capace inquadrare la mobilità e la gestualità dello spettatore entro i limiti della poltrona; uno spazio caratterizzato da una luministica chiaroscurale, dove lo schermo grande trattiene più luce di quanta ne diffonda a vantaggio dei selfie.
Ma se non si fanno le foto al cinema è anche perché è nel cinema stesso, in quanto arte della riproducibilità tecnica, che si rinvengono le condizioni estetiche (nonché le potenzialità etiche e politiche) di quelle pratiche di riproduzione e montaggio che caratterizzano i nuovi media e che coinvolgono un orizzonte sempre più vasto di utenti. Le forme di persistenza del cinema in un’epoca post-cinematografica analizzate da Casetti sono la manifestazione di un bisogno da parte degli utenti dei nuovi media – che portano abitualmente a spasso le immagini sui loro device – di re-rilocare la loro esperienza mediatica all’interno della sala cinematografica. Il “ritorno alla madrepatria” è un doppio processo basato sulla
«fuoriuscita dalla sala alla ricerca di un nuovo territorio (rilocazione), e il ritorno nella sala ricchi di un nuovo patrimonio accumulato nel frattempo (re-rilocazione, appunto)» (ivi, p. 301).
Che si scattino o meno fotografie dentro la sala, il “ritorno alla madrepatria” è l’espressione di un desiderio da parte degli utenti dei piccoli schermi interconnessi di mantenere aperto il confronto con lo schermo grande. È il riconoscimento retrospettivo di un’aria di famiglia, una linea di continuità tra le fratture. È un andare oltre l’opposizione tra il nuovo e il desueto.
Se il museo tende dunque a essere lo spazio di applicazione di una “cultura prosumer” – dove si mira a sviluppare una concezione partecipativa dell’interpretazione e della creazione –, il cinema ne costituisce il presupposto, è il luogo di una sua precognizione sperimentale. Secondo uno sguardo retrospettivo – anticipato dalla riflessione benjaminiana che culmina in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica –, il cinema sembra costituire la prima manifestazione di una specifica modalità della percezione che si affermerà nel corso dei decenni.
Certo, se non si scattano foto al cinema è perché è molto più semplice effettuare uno screenshot di una sequenza cinematografica dal proprio computer e poi rimontarla all’interno di una nuova timeline o “timelife”.
La persistenza del cinema in un’epoca post-cinematografica si basa anche sulle dinamiche di rielaborazione – ora meramente ludiche, ora critiche, ora ideologiche – dei fotogrammi e delle sequenze cinematografiche stesse all’interno delle pratiche del mash-up e del found footage che un numero crescente di spettatori è in grado di elaborare attraverso il proprio computer e condividere in Rete. Pratiche di rielaborazione rese possibili da decreti “liberali” e da licenze “open” che se da un lato dischiudono un campo applicativo e sperimentale illimitato, dall’altro assumono i tratti di un nuovo business a vantaggio di vecchie e nuove organizzazioni.
Ma se non ha senso prelevare un’immagine cinematografica fotografandola o filmandola, è anche perché andare al cinema – aprirsi all’esperienza della sala di proiezione – è assistere a una “riproduzione” come messa in discussione del “pezzo unico” che caratterizza il museo e, soprattutto, confrontarsi con la dialettica tra continuità e discontinuità e dunque con quella frammentarietà che costituisce l’orizzonte di senso dei cosiddetti “nativi digitali”.
Andare al cinema è imparare a selezionare e montare, senza voler diventare cineasti, in mezzo a una platea di “amici” o “amici di amici” con i quali, semplicemente, imparare che cosa significa, e quanta fatica costa, provare a condividere uno sguardo sul mondo.
[La versione inglese di questo articolo può essere letta sul blog del progetto di ricerca Interdisciplinary Italy].