Il negazionismo storico della Shoah e delle leggi razziali fasciste si aggira tra i banchi di scuola. Proponiamo alcuni passaggi per sprofondarlo nell’insensato.
Da qualche anno a questa parte il Giorno della Memoria, per chi insegna in un qualsiasi istituto di istruzione superiore, si sta trasformando da pacificata giornata celebrativa della sconfitta del Male Assoluto a grottesco campo di battaglia fra la ragione storiografica e improbabili paralogismi negazionisti, masticati acriticamente da adolescenti simpatizzanti dei gruppi neofascisti, militanti, vittime spesso inconsapevoli della narrazione tossica social-fascista circolante sul web. Annoiate dalla retorica della commemorazione, venute su in un’atmosfera di scolorimento dello scontro di valori fra fascismo e antifascismo, nella migliore delle ipotesi le giovani generazioni guardano con occhio interessato al semplicismo provocatorio di certi slogan e di certe pseudoverità, godendosi il gusto della trasgressione nei visi sconfortati che i loro insegnanti frappongono a certe allucinate esternazioni. Come ha scritto lo storico Sergio Luzzatto, in un pamphlet purtroppo sottovalutato, il frutto più avvelenato della crisi dell’antifascismo è stata
l’opera di de-fascistizzazione del fascismo cui attendono con zelo tanti storici da rotocalco o da talk-show. Perché la storiografia più attendibile non ha affatto ritenuto, in questi ultimi anni, di ridimensionare la caratura totalitaria del regime fascista.
(S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 74-75).
In altre parole «sulla base dei più diversi parametri (fortuna del culto della personalità carismatica, forza di penetrazione del partito unico nella società civile, capacità di programmazione e di gestione degli apparati propagandistici, efficienza del sistema di controllo poliziesco sul dissenso)» molti storici che hanno affrontato la ricerca sul periodo fascista hanno proposto il carattere non soltanto autoritario, ma propriamente totalitario del regime fondato da Mussolini. Persino Renzo De Felice, lo storico a cui – senza averne mail letto una pagina – si appellano anche neofascisti e terzisti italiani, ha intitolato il suo quinto volume sulla biografia di Mussolini Lo stato totalitario: 1936-1940. Del resto Emilio Gentile rileva gli aspetti di oscillazione e contraddizione dell’opera di De Felice, distinguendo lo storico e il personaggio, seguendone gli studi sin da quelli dedicati al triennio giacobino e mettendo in luce alcuni elementi che pongono dubbi alla visione moderata dell’interpretazione sul fascismo proposta dallo storico rietino, spesso basata esclusivamente sulla famosa “Intervista sul fascismo” (E. Gentile, Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio, Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 132-158). Il discorso pubblico e giornalistico non sempre riesce a contrastare una visione edulcorata del periodo fascista. Recentemente sul Corriere della sera Paolo Mieli, commentando l’ultima ricerca di Mimmo Franzinelli, dedicata al Tribunale speciale per la difesa dello Stato, ha scritto:
Non si può dire che il Tribunale di Mussolini – osserva Franzinelli – sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3112 imputati contro 5871 prosciolti.
È rischioso lasciare questo dato a se stesso, senza alcuna contestualizzazione storica. Il numero altissimo di proscioglimenti non deve ingannare, perché il regime fascista basava anche sul perdonismo e sulle amnistie la costruzione del consenso. Inoltre il mero coinvolgimento in un procedimento penale da parte del Tribunale Speciale voleva dire galera preventiva per mesi in condizioni durissime, tortura e percosse anche di fronte al pubblico ministero, passaggio al tribunale ordinario per reati politici e vita completamente sotto assedio da parte della polizia dal momento stesso in cui si usciva dal processo. Il raffinato bisturi del Tribunale di Mussolini che appare giustamente, nella ricerca di Franzinelli, anche nel suo aspetto strategico, diventa alla luce dell’esame archivistico, un maglio che annichilisce la vita anche di chi viene prosciolto o di chi si pente.

Tornando alle questioni più specifiche del razzismo, per non scadere in una difesa autolesionista, monumentalizzata, delle vittime della Shoah, le figure educative che si trovano a fronteggiare la banalità del negazionismo da banco possono partire dall’individuarne le fondamenta marce. Perché questo si presenta sempre nella stessa forma, circolare, ridondante, affetta dai soliti tic linguistici, calcificata nelle medesime pseudo argomentazioni: le leggi razziali e l’ingresso dell’Italia in guerra a fianco della Germania hitleriana furono incidenti di percorso, deviazioni dagli “anni del consenso” del regime (1929-1936), o meglio una conseguenza indesiderata, imposta al duce, dall’alleanza con i nazisti. Prove ne sarebbero l’attiva presenza di numerosi ebrei tra le file fasciste sin dai tempi della marcia su Roma e il carattere più blando, meno feroce, lassista del razzismo di Stato italiano.
Dunque, per il negazionismo da banco, il fascismo non sarebbe un’ideologia intrinsecamente razzista. La violenta persecuzione antiebraica sarebbe stata una deviazione puramente accidentale. Questa conclusione, che era poi la tesi che si voleva inizialmente dimostrare, va di pari passo con un’altra: la distruzione degli ebrei si troverebbe qualitativamente sullo stesso piano di qualsiasi altra forma di violenza perpetrata durante la seconda guerra mondiale e più in generale di qualsiasi altro genocidio storico. Non avendo nulla di speciale, si obietta a questo punto, perché celebrare una giornata della Memoria? Senza dimenticare l’insegnamento di Enzo Traverso sulla necessità di lavorare alla storia dello sterminio nazista, evitando di pensarlo come originato dal nulla o da improvvisa follia, proviamo a smontare ognuno degli pseudo ragionamenti che costituiscono questa tesi circolare, costruendo un prontuario di contro-argomentazioni, un decalogo, anzi un pentalogo, per disinnescare il negazionismo da banco:
1. Le leggi razziali costituirono una rottura con la precedente storia del regime, che dal 1929 al 1936 aveva appena vissuto il suo “periodo del consenso”. Senza le leggi razziali e la guerra il fascismo sarebbe ricordato come un fenomeno positivo.
Il razzismo di Stato aveva trovato importanti sperimentazioni nelle colonie italiane in Libia, Eritrea, Somalia e, dopo la guerra di aggressione del 1935-36, anche in Etiopia. La segregazione razziale in vigore nei confronti delle popolazioni colonizzate trovava un’unica eccezione, che in realtà ne confermava la piena espressione: il madamato, che univa il dominio maschile a quello razziale. Già nel 1933, ben prima delle leggi razziali, il governo fascista aveva approvato una legge (6 luglio 1933, n. 999) che stabiliva la concessione della cittadinanza italiana ai meticci solo se avessero superato la “prova della razza”, un esame fisico-antropometrico-morfologico. Con la conquista dell’Etiopia il razzismo anti-nero fascista si consolida col divieto (reclusione da uno a cinque anni) delle «relazioni di indole coniugale con persona suddita» (R.d. 19 aprile 1937, n. 880). Leggi e decreti ispirati a una politica di ferrea segregazione razziale degli etiopi, dei somali, degli eritrei e dei libici sudditi non italiani dell’Impero anticiparono e, in un certo senso, furono banchi di prova, per mettere a punto il dispositivo antisemita delle leggi del 1938. Si aggiunga che la legislazione del 1938 venne preparata e anticipata da una campagna stampa razzista, il baricentro della quale fu la preparazione della rivista La difesa della razza poi pubblicata a partire dall’inizio di agosto del 1938.
2. Le leggi razziali furono una conseguenza, indesiderata, dell’alleanza politica e militare con Hitler.
Non esiste prova documentale che l’alleanza con la Germania nazista avesse tra le sue clausole l’estensione della discriminazione razziale anche all’Italia fascista. Innanzitutto perché la firma del Patto d’Acciaio è successiva alle leggi razziali (22 maggio 1939). Ciò non toglie che possiamo individuare un’accelerazione nella politica razziale del fascismo nella seconda metà del 1938, soprattutto dopo la visita di Hitler in Italia (marzo 1938). Tuttavia, ascrivere le leggi razziali del 1938 all’influenza del nazismo sul Mussolini alleato di Hitler è cadere in un classico paralogismo derivato dall’argomentazione fondata sul nesso causale (cfr. C.Perelman, L.Olbrechts-Tyteca, Trattato sull’argomentazione, Einaudi, Torino 1958, pp. 286-288). Si tratta di una caricatura dell’argomentazione per mezzo del nesso causale nota come “prova di un evento mediante la sua cause e viceversa”, in cui si usa un nesso tra cause e conseguenze per asserire l’esistenza di un evento. In altri termini, si sostiene che un evento assicura determinate conseguenze e se alcune delle conseguenze previste si realizzano allora vengono esibite per provare l’esistenza dell’evento che le condiziona. Così, la collaborazione politica e militare tra Germania e Italia dopo il 1938 e la legislazione razziale italiana successiva a questa data proverebbero, senza riuscirci, l’esistenza di un’influenza del nazismo sulla svolta antisemita di Mussolini. Molti erano gli esponenti più o meno in vista del regime (Telesio Interlandi su “Il Tevere” o Farinacci su “Il regime fascista”) che da tempo esprimevano sentimenti antisemiti. Inoltre, il giudizio e l’analisi storica sui motivi della scelta razzista del governo fascista nei confronti degli ebrei non può distogliere l’attenzione sulle pratiche che mise in campo per attuarlo, né sulle premesse politico culturali in cui nacque e fu possibile.
3. Il razzismo di Stato italiano fu più blando e meno violento di quello tedesco.
Furono più di ottomila gli ebrei italiani che persero la vita nell’ultima fase del regime fascista, nel segno della solerzia dei burocrati di Salò, a fronte della collaborazione con i tedeschi per organizzare la deportazione e contribuire allo sterminio (Fossoli, Risiera di San Sabba). Ai risultati delle ricerche di tipo quantitativo vanno aggiunte le acquisizioni della storiografia sugli effetti più generali e pervasivi delle leggi razziali sulla popolazione degli ebrei italiani. Il razzismo fascista ebbe un suo carattere burocratico e organizzativo attraverso un ufficio del Ministero dell’Interno, la Direzione generale per la demografia e la razza. Da questo ufficio ministeriale partivano circolari e disposizioni ai prefetti, ai questori, ai dirigenti scolastici col fine della esclusione dalla vita civile degli ebrei italiani. Il decreto del 5 settembre 1939 «per la difesa della razza nella scuola italiana» prevedeva l’espulsione di alunni e docenti ebrei dalla scuola pubblica. La scelta di iniziare con la scuola permette di vedere il carattere strategico e non incidentale del razzismo antisemita del fascismo italiano. Prima dei censimenti patrimoniali, prima delle discriminazioni economiche e di tutti gli interventi persecutori che subì la popolazione ebraica italiana fu dalla scuola (e dall’università) che il fascismo partì, investendo totalmente un intero pezzo di società italiana.
4. Il fascismo non è un’ideologia intrinsecamente razzista, la violenza contro gli ebrei è stata puramente accidentale.
Mito e organizzazione furono componenti fondamentali della politica di massa del fascismo (E.Gentile, Il culto del littorio, Roma-Bari, Laterza, 1993). Il mito politico fascista si presentava come credenza infondata in un assoluto storico: quello della patria italiana, della nazione, forgiata dalle trincee della Grande Guerra e dalla violenza rigeneratrice dello squadrismo che avrebbero esorcizzato e neutralizzato il disordine della modernità. Il fascismo avrebbe insomma risolto i problemi creati dalla società di massa, dalle rivendicazioni democratiche e dai conflitti sociali, restaurando l’ordine dei valori politici nazionali. E se in prima istanza il caos moderno da combattere è incarnato dal socialismo e dalla minaccia bolscevica, frutti avvelenati nati dal ventre molle del regime liberale, nella fase del consenso (1929-1936) l’attenzione degli ideologi del regime si sarebbe rivolta invece ai nemici della completa fascistizzazione della società: la borghesia. Basti pensare alla grottesca campagna linguistica contro l’uso del “Lei” e degli anglismi, e l’ebraismo cosmopolita. Dunque, il razzismo fascista è inscritto nella stessa ideologia fascista.
5. La persecuzione contro gli ebrei sta qualitativamente sullo stesso piano di qualsiasi altra forma di violenza perpetrata dallo schieramento alleato e antifascista durante la seconda guerra mondiale.
Dai documenti e dagli archivi di cui dispone la ricerca storica emerge che il sistema concentrazionario nazista, sia dal punto di vista logisitico-organizzativo che dal punto di vista quantitativo, rimane un unicum. Sostenere che la violenza della prima metà del Novecento sia tutta uguale, che rossi e neri, nazisti e alleati, partigiani e fascisti, possono essere tutti assolti o parimenti tutti condannati perché agirono coerentemente con il contesto cruento della guerra mondiale è una strategia di certo revisionismo internettaro ampiamente smontata. Ma per difendere l’unicità della Shoah dalla “livella della violenza” forse bastano le conclusive, potenti, righe della Prefazione a I sommersi e i salvati di Primo Levi: «In nessun altro luogo e tempo si è assistito ad un fenomeno così imprevisto e così complesso: mai tante vite umane sono state spente in così breve tempo, e con una così lucida combinazione di ingegno tecnologico, di fanatismo e di crudeltà. Nessuno assolve i conquistadores spagnoli dei massacri da loro perpetrati in America per tutto il sedicesimo secolo. Pare che abbiano provocato la morte di almeno 60 milioni di indios; ma agivano in proprio, senza o contro le direttive del governo; e diluirono i loro misfatti, in verità assai poco “pianificati”, su un arco di più di cento anni; e furono aiutati dalle epidemie che involontariamente si portarono dietro. Ed infine, non avevamo cercato di liberarcene, sentenziando che erano “cose di altri tempi”?» (P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 12). Non abbiamo ancora eluso questa domanda.