Negare l’esistenza amministrativa

Il Piano casa, la residenza e la costruzione selettiva della realtà sociale.

residenza art. 5 del Piano casa esistenza amministrativa
Mauro Cuppone, Not here (2014) – Foto di Giorgio Benni – MAAM-Museo dell’Altro e dell’Altrove

Venerdì 9 aprile 2021, un insieme variegato di movimenti, associazioni, persone che vivono all’interno di occupazioni, esponenti del mondo istituzionale e ricercatrici/ori ha dato vita a Roma, in Piazza Bocca della verità, a una conferenza stampa denominata “Batti il 5”. Scopo dell’iniziativa era criticare l’art. 5 del Decreto n. 47, il cosiddetto “Piano casa”, voluto nel 2014 da un governo “bipartisan”, guidato da Matteo Renzi, e firmato da Maurizio Lupi, allora ministro dei trasporti e delle infrastrutture. L’evento del 9 è parte di un percorso di elaborazione collettiva più ampio, che ha coinvolto finora anche altre realtà e persone e ha prodotto un documento che si focalizza sul contesto romano per poi allargare il discorso all’intero territorio statale.

Al centro delle rivendicazioni e delle posizioni che la mobilitazione sta esprimendo si trova l’idea che la negazione della residenza rappresenti una strategia di azione politica orientata a disciplinare e marginalizzare ulteriormente persone che si trovano già in condizioni socio-economiche svantaggiate. Una strategia che, in un contesto pandemico come quello attuale, provoca effetti ancora più significativi e drammatici.

L’art. 5 del Piano casa rappresenta il passaggio centrale di un percorso più ampio volto a escludere o includere in maniera differenziale, gerarchizzata e stratificata determinate categorie della popolazione. Disponendo che “chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non possa chiedere la residenza né l’allaccio delle utenze”, la norma firmata da Lupi ha prodotto negli anni conseguenze molto gravi. In Italia, infatti, l’iscrizione anagrafica è la precondizione per esercitare numerosi diritti. La sua mancanza – in alcuni casi per effetto di prescrizioni normative e in altri a causa di provvedimenti amministrativi e prassi burocratiche escludenti – rende impossibile accedere a diversi benefici e servizi.

Successivamente all’emanazione del Piano casa, in realtà, il ministero dell’interno ha chiarito con una circolare che chi occupa abusivamente un immobile deve comunque ottenere la registrazione anagrafica seguendo il criterio del domicilio, normalmente riservato alle persone senza tetto o senza fissa dimora. Sulla base di questo criterio, chi non dispone di un alloggio in senso stretto o, per ragioni di vita o di lavoro, non vive stabilmente in uno specifico territorio comunale deve comunque essere registrata/o dal comune che sceglie elettivamente quale luogo centrale per i suoi affari e interessi. Allo scopo di simulare un radicamento alloggiativo, la residenza anagrafica è localizzata in un indirizzo “virtuale”, che ogni amministrazione comunale è tenuta a istituire. In questo modo, è possibile consentire l’esercizio dei diritti anche a chi non dispone di una dimora abituale. Per effetto della circolare, la logica dell’iscrizione per domicilio è estesa dunque alle persone che vivono in un alloggio occupato abusivamente.

L’indicazione ministeriale, che inizialmente sembrava risolutiva, si è tuttavia rivelata piuttosto problematica, per diverse ragioni. Storicamente, molti comuni sono restii a istituire l’indirizzo “virtuale” necessario per l’iscrizione. Inoltre, il Pacchetto sicurezza del 2009, voluto dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni, ha disposto che chi intende registrarsi come senza tetto o senza fissa dimora è tenuta/o a fornire “gli elementi necessari allo svolgimento degli accertamenti atti a stabilire l’effettiva sussistenza del domicilio”. Il che, in pratica, significa rimettersi a un’apposita valutazione da parte dei servizi sociali, di solito incaricati di realizzare i controlli. Infine, si presenta un problema specifico rispetto alle persone straniere, le quali si vedono rifiutare da molte questure il rinnovo del permesso di soggiorno con il pretesto che l’iscrizione per domicilio non è sufficiente. Si tratta di un comportamento del tutto illegittimo, ma purtroppo efficace.

I meccanismi legali e amministrativi qui brevemente richiamati dicono qualcosa di interessante sul modo in cui le istituzioni danno forma alla realtà sociale. La natura paradossale della logica che li governa, rivelata in modo cristallino dalla frase “Io sono dove abito. No residenza fittizia” scritta su un cartello esibito durante la mobilitazione del 9, è la seguente: fingere che una persona non viva in dato luogo, preferendo immaginarla come se non avesse una dimora. A essere affermato, in altre parole, è il fatto, materialmente falso ma amministrativamente accettato come vero, che quella persona non dispone di uno spazio abitativo.

residenza art. 5 del Piano casa esistenza amministrativa
Manifestazione contro l’art. 5, 9 aprile 2021 – Foto di Mattia Tarantino

La scelta di ignorare le condizioni reali di un individuo – evitando di procedere con la sua registrazione oppure registrandolo come se non avesse un tetto o una dimora stabile – produce una rappresentazione falsata del modo in cui la popolazione è dislocata sul territorio. Favorisce cioè la costruzione di una realtà istituzionale diversa da quella materiale. Storicamente, questa distorsione costituisce un fenomeno rilevante, dato che i registri anagrafici, così come lo stato civile e i censimenti, sono strumenti demografici introdotti per soddisfare le esigenze fondamentali che gli stati sviluppano nel corso del loro processo di formazione. Dispositivi del genere consentono alle istituzioni pubbliche di “abbracciare” in senso amministrativo gli individui, preoccupandosi di soddisfare alcuni loro bisogni primari, e al contempo di monitorarli, nel tentativo di rendere la società sempre più “leggibile” e disponibile a essere governata. Esprimono dunque un potere ambivalente, orientato all’assistenza e allo stesso tempo al controllo.

Gli strumenti demografici, più in dettaglio, nascono per “catturare” in senso amministrativo le persone materialmente dislocate su un territorio. Le anagrafi, in particolare, funzionano producendo una popolazione di diritto che – nelle intenzioni istituzionali – dovrebbe sovrapporsi il più possibile alla popolazione di fatto. L’idea è che per loro tramite si possa vedere come la seconda è veramente costituita. In Italia, i registri della popolazione sono stati disegnati giuridicamente e istituzionalmente proprio in funzione di questo obiettivo: per facilitare la “cattura” amministrativa, all’iscrizione anagrafica corrisponde non soltanto un dovere, ma anche un diritto soggettivo perfetto. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza in materia, infatti, il riconoscimento della residenza ha carattere dichiarativo e non costitutivo, dal momento che il potere che le amministrazioni comunali esercitano nell’effettuare la registrazione non è discrezionale ma puramente certativo. In altre parole, una persona non diventa residente perché un comune la denomina tale, ma riceve uno status giuridico in quanto si trova in una certa condizione materiale.

In termini di ontologia sociale – ossia, con riferimento alla natura, al ruolo e alle proprietà delle entità sociali che compongono la realtà in cui viviamo – il diritto alla registrazione costituisce un passaggio fondamentale. La residenza intesa come uno stato di fatto preesiste ontologicamente alla sua dichiarazione giuridica: la seconda è semplicemente l’atto formale tramite cui l’amministrazione locale riconosce la sussistenza della prima, traducendo una condizione materiale in una dimensione documentale. Detto diversamente, la direzione del legame causale va dal piano fattuale a quello giuridico-istituzionale. Le categorie e le procedure giuridiche che danno sostanza al percorso di iscrizione anagrafica sono chiare al riguardo, anche in senso linguistico. Chi vuole essere iscritto in anagrafe non presenta una “domanda” ma consegna una dichiarazione, tramite cui comunica la sua condizione materiale indicando, nello specifico, se dimora abitualmente nel territorio comunale o se, pur non disponendo di una dimora stabile, ha in quel comune il centro dei suoi affari e interessi. Una volta accertato che questa condizione sussiste veramente, l’amministrazione non può che prenderne atto in maniera formale, riconoscendo – e quindi non concedendo – la residenza.

Se dalla teoria si passa alla pratica, tuttavia, emerge in maniera evidente quanto la capacità di cattura delle anagrafi sia limitata, per diverse ragioni. Prima di tutto, di tipo materiale: uno scarto di rappresentazione è sempre presente dato che intercettare determinate parti della popolazione, in particolare quelle più mobili, è molto difficile. Ciò che appare attraverso i registri, in generale, è un artefatto statistico e amministrativo che riproduce in maniera più o meno fedele il modo cui gli individui vivono il territorio e si muovono al suo interno ma non lo rispecchia completamente. Inoltre, diverse iniziative legislative – come il Pacchetto sicurezza e il Piano casa – e amministrative – come alcune circolari ministeriali e le ordinanze emanate dai comuni nel corso degli anni – minano la capacità di rappresentazione dell’anagrafe. In sostanza, queste azioni politiche, che hanno l’obiettivo di selezionare la componente considerata “legittima” della popolazione, costringono le persone a dichiarare di vivere diversamente da come vivono, a modificare il loro stile di vita, a spostarsi in un altro comune in cerca di un trattamento migliore o a evitare di dichiarare la propria condizione e rinunciare quindi alla residenza, rimanendo invisibili alle istituzioni e trovandosi così nella condizione di “fantasmi burocratici”.

residenza art. 5 del Piano casa esistenza amministrativa
Manifestazione contro l’art. 5, 9 aprile 2021 – Foto di Mattia Tarantino

Lo scarto di rappresentazione dovuto alle iniziative legislative e amministrative ha implicazioni importanti non soltanto in senso politico, ma anche in termini di ontologia sociale. I registri dovrebbero rappresentare la popolazione reale, non plasmarla. Eppure, finiscono esattamente per costruirla. Se le regole dell’iscrizione anagrafica determinano il modo in cui gli individui abitano lo spazio, la direzione del nesso causale tra piano fattuale e piano giuridico-istituzionale tende a invertirsi: una persona non è residente in quanto si trova in una certa condizione materiale, ma lo diventa se e quando le istituzioni la dichiarano tale.

Dando luogo a una registrazione e costituendo il presupposto per la produzione di documenti – come i certificati anagrafici e la carta di identità –, l’iscrizione in anagrafe è il momento fondativo dell’esistenza amministrativa, che coincide con l’attribuzione di uno status: esistere amministrativamente significa disporre di una posizione giuridica. La funzione “certificante” e ontologicamente istitutiva dell’anagrafe, peraltro, sta assumendo una centralità ancora maggiore con il passaggio – ormai quasi compiuto – dai singoli registri comunali a un’unica Anagrafe nazionale della popolazione residente. Per effetto di questa transizione, i dati anagrafici costituiranno la fonte esclusiva e validante di tutte le informazioni relative alle persone e alle famiglie presenti nelle altre banche dati di interesse nazionale (Inps, Agenzia delle entrate, Servizio sanitario nazionale, ecc.), le quali non saranno più autonome e dovranno invece fare riferimento all’ANPR. Anche strumenti di “identità digitale” come Spid, dal momento che presuppongono il possesso di un documento di identificazione per essere attivati, rimandano alla residenza quale elemento certificante.

Le azioni legislative e amministrative volte a rifiutare l’iscrizione anagrafica, dunque, equivalgono a una negazione dell’esistenza amministrativa. L’invisibilità che ne deriva produce effetti paradossali, considerando che tra le ragioni politiche che giustificano iniziative di questo tipo figurano princìpi e questioni come la legalità e il controllo del territorio. Nella recente sentenza che ha abrogato il divieto di iscrizione anagrafica per le persone richiedenti asilo introdotto dal Decreto Salvini nel 2018, la Corte costituzionale ha rilevato chiaramente l’“irrazionalità” di un provvedimento che, in nome della sicurezza, impedisce alle istituzioni di “vedere” in quale punto dello spazio si trovano determinate persone. In una fase pandemica come quella attuale, inoltre, l’invisibilità di parti della popolazione già vulnerabili e marginali sul piano socio-economico può avere conseguenze rilevanti sul piano sanitario.

Chiaramente, la possibilità di sfuggire al radar delle istituzioni presenta anche risvolti differenti – e per certi versi opposti – se letta da una prospettiva politica: può configurarsi come un atto di resistenza al controllo sociale e di denuncia dell’ambiguità della residenza in quanto strumento di monitoraggio, favorendo così una maggiore autonomia. L’invisibilità che deriva dalle scelte dei governi e delle amministrazioni locali è dunque una questione complessa, che merita approfondimenti specifici. Il che, tuttavia, non cambia un fatto basilare: la scelta di restringere i requisiti per l’iscrizione anagrafica, per il tipo di ragioni che la motivano, costituisce una forma di violenza istituzionale, che provoca gravi danni alle persone che la subiscono e contribuisce a plasmare una realtà sociale ancora più gerarchica, selettiva, stratificata e asimmetrica.

 

 

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