Dall’intelligenza collettiva al discorso del capitalista.
Un estratto dal capitolo 9 di Narcisismo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza di Pablo Calzeroni, edito da Mimesis.
Alla fine del secolo scorso si pensava che lo show allucinatorio della società dello spettacolo sarebbe stato superato grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione digitale. Lʼutopia dellʼintelligenza collettiva si era costituita nella promessa che un nuovo spazio del sapere, immanente ai processi produttivi dell’esperienza e articolato sulle infrastrutture digitali della connettività, avrebbe spazzato via il grande laboratorio dellʼalienazione rappresentato dalla Tv. Lʼordine simbolico avrebbe riconquistato una posizione di padronanza, rimuovendo il grezzo immaginario televisivo, funzionale solo a un consumismo generalizzato e insensato. La ragione avrebbe scalzato lo strapotere dellʼimmaginario che aveva dominato incontrastato nellʼera dei massmedia. Non è andata proprio così. Lʼimmaginario teledigitale è ancora padrone della scena. Non si possono rimuovere i bug che operano allʼinterno dei processi di soggettivazione inseguendo le potenzialità astratte di una particolare tecnologia, come sostengono i teorici dellʼintelligenza collettiva. Non si può ragionare senza fare i conti con la storia. E la storia di cui parliamo è una storia di individui non socializzati, di epidemie dellʼimmaginario, di mercati del lavoro esclusivi e di legami sociali liquefatti.
Il progetto di unʼintelligenza collettiva, oggi, non ha senso. Nelle intenzioni di Lévy, la Rete dovrebbe consegnarci un nuovo modello di organizzazione sociale basato sulla coordinazione delle intelligenze. In questo ragionamento tecno-razionalista essa esprimerebbe l’aurora di un nuovo ordine significante in grado di regolare, organizzare e armonizzare i movimenti del soggetto attraverso lʼAltro (gli altri, i linguaggi e lʼintelligenza nel suo complesso). Si dà però per scontato, erroneamente, che il soggetto sia in grado di individuare quellʼordine e di riconoscervisi. La realtà che si presenta sotto ai nostri occhi non consente questo tipo di operazione. Gli individui, nella solitudine della loro precarietà esistenziale, non riescono a sfuggire alle fissazioni narcisistiche e all’imperativo del godimento. Sicuramente non riescono a farlo attraverso le piattaforme della connettività perché quelle tecnologie invece di supportare un’intelligenza collettiva aumentano i cortocircuiti della soggettivazione.
Se anche vi fosse un movimento delle intelligenze di tutti, sarebbe un movimento incomunicabile. Chiudendoci allʼinterno delle cornici protettive dellʼimmaginario, siamo diventati incapaci di muoverci nella dimensione della socialità-alterità. I nostri desideri non sono più in grado di darci prospettive esistenziali che possano essere compatibili con quelle degli altri. Così, perdendo di vista il prossimo, perdiamo di vista anche noi stessi. Lʼintersoggettività dellʼimmaginario non offre alcuna garanzia perché è una dimensione interamente proiettata verso lʼidentità, lʼidentificazione, il riconoscimento ripetuto dellʼidentico riflesso nell’immagine di un Altro. Senza lʼAltro dell’inconscio simbolico, che spezza lʼessere del soggetto permettendogli di cogliere unʼalterità, lʼIo, come avrebbe detto Lacan attraverso Hegel, non può che continuare a specchiarsi in ciò che gli è identico. In questo modo il soggetto non riesce a vedersi mai. In effetti oggi ci relazioniamo, comunichiamo, scambiamo messaggi, ma che cosa diamo veramente allʼAltro? Spesso solo la conferma che sì, alla fine, lo riconosciamo. Riconosciamo quello che quel tale ha pubblicato e gli diamo un cenno di assenso. Mettiamo in giro i nostri selfie per ribadire: guardateci, riconosceteci.
Tutti hanno bisogno di essere visti perché nessuno riesce più a vedersi. Il sapere che produciamo in questa ricerca incessante di un riconoscimento non può affatto esprimere il dinamismo di un pensiero collettivo. È in definitiva un non-sapere del tutto inservibile, che può al massimo rappresentare, ma soltanto per il capitalismo digitale, un tesoro di dati e informazioni da sfruttare. In questo senso, la scena della soggettivazione, oggi, si articola in quel meccanismo perverso che Lacan aveva descritto attraverso la figura concettuale del discorso del capitalista. Questa figura descrive la desostanzializzazione del soggetto in relazione alle dinamiche entropiche della società industriale avanzata. Queste dinamiche possono essere messe in relazione tanto alla società descritta da Marcuse e Debord quanto – e in misura ancora maggiore – alla società contemporanea dominata dal ritiro generalizzato del simbolico. Un ritiro che, per Lacan, è lʼeffetto di una modificazione distorsiva dei termini del discorso del padrone, altra figura concettuale con cui lo psicoanalista francese aveva descritto la presa della simbolizzazione significante sul reale del corpo. Se quest’ultimo discorso esprime il processo della soggettivazione sotto la legge sociale del divieto al pieno godimento, quello del capitalista indica la pretesa del soggetto di avere pieno accesso alla soddisfazione del proprio desiderio, come se non esistesse alcun limite alla propria volontà di godimento e la mancanza ad essere che muove il suo desiderio potesse essere realmente colmata attraverso il mero consumo di oggetti di godimento. Ciò che Lacan vuole dire è che l’affermazione della società consumistica interferisce con il meccanismo della simbolizzazione consegnando il soggetto a una nuova condizione di alienazione, non più prodotta dalla legge sociale del significante, ma imposta direttamente dalle leggi disumane del mercato. In questo contesto il soggetto, privato di punti di riferimento e di legami con l’Altro, abbraccia il vuoto di unʼesistenza segnata da un individualismo sfrenato e da un insensato iperattivismo consumistico, in una dimensione temporale confinata nellʼeuforia dell’immediatezza e nell’angoscia dell’urgenza.
Secondo Lacan lʼessere umano è diventato una macchina di godimento che funziona senza desiderio. Il soggetto rifiuta la verità che lo determina, il Nome del Padre. Rifiuta, in altri termini, la legge della castrazione che indirizza il processo della simbolizzazione permettendogli di rapportarsi allʼAltro dell’inconscio e di vivere con gli altri. Il soggetto non riconosce altra verità se non la propria precipitando nel culto narcisistico di se stesso, senza alcun significante che possa orientarlo a contenere la spinta al godimento. Questo meccanismo determina una circolarità senza limiti nel consumo perché abolisce qualsiasi regolazione e spinge inesorabilmente e ripetutamente verso la prestazione di godimento: il soggetto cerca soddisfazione passando da un oggetto a un altro, da un gesto a un altro, da una performance a un’altra, nellʼillusione di potersi realizzare nel mondo di merci, informazioni e possibilità che si accumula davanti ai suoi occhi. In realtà si ritrova imprigionato in un circuito insostenibile che lo brucia velocemente.
Il discorso del capitalista esprime lʼillusione, tipica del nostro tempo, che vi sia una perfetta coincidenza tra il reale e lʼimmaginario e che non vi siano scarti tra il vuoto della mancanza originaria e l’oggetto immaginario che vorrebbe riempirla. Il soggetto rifiuta la verità precipitando nellʼillusione che tutto sia possibile, che ogni bisogno possa essere soddisfatto. Percepisce il proprio malessere nei termini di mancanze che non riesce a colmare. Invece di assumere la domanda vitale del desiderio, percepisce il vuoto, interno ed esterno, come l’urgenza di un bisogno che deve essere immediatamente soddisfatto. In questo modo crede di essere libero, ma alla fine è la macchina del capitalismo a muoverlo.
Il discorso del capitalista smaschera la realtà che lʼutopia dell’intelligenza collettiva tenta di coprire attribuendo alla tecnologia intelligente del cyberspazio lo statuto di un Significante. Nellʼutopia leviniana così come nel più contemporaneo cyberpopulismo della democrazia diretta, gli interessi privati e quelli pubblici si dovrebbero armonizzare senza conflitto e i soggetti dovrebbero contribuire, ciascuno con le proprie risorse, allo sviluppo della società migliorando al contempo le proprie condizioni di vita. Ma questo spazio del sapere non cʼè e se esiste è un insieme di tecnologie organizzato per generare profitto. Lʼintelligenza oggettivata nella Rete si rivela dunque per quello che è: un ordine (in)significante precipitato in un sistema algoritmico che muove, in forma di comando, il desiderio (senza mancanza) del soggetto alienato.
Aveva davvero ragione Lacan quando diceva che il desiderio è sempre desiderio dellʼAltro. Nel discorso del capitalista, il nuovo significante padrone sembra tenerci in pugno al punto tale da desiderare al posto nostro. Siamo ridotti allo stato di macchine produttive: desideriamo gli oggetti e i gesti che il sistema capitalistico ci propone e viviamo (per godere e produrre) nei modi sregolati che ci vengono indicati. Aggrovigliati profondamente nella produzione dellʼimmaginario, non facciamo altro che rispondere, continuamente, alla voce del meccanismo di valorizzazione del capitale. Non solo ci orientiamo ai modelli di consumo che ci vengono proposti (cioè a un certo modo di consumare la vita), ma quando pensiamo di socializzare non facciamo altro che identificarci con questo grande Altro disumano.
Il progetto di unʼintelligenza collettiva, concludendo, resta unʼutopia irrealizzabile. Lʼerrore di fondo di Lévy – e di tutti i successivi teorici della liberazione digitale – è stato quello di costruire un’antropologia della Rete sostituendo la storia con la tecnologia, come se il cyberspazio potesse risolvere tutte le contraddizioni e i conflitti della postmodernità. Alla fine ne è venuta fuori una teoria idealista, totalmente sganciata dalla realtà. Certo, lʼutopia dellʼintelligenza collettiva è debitrice nei confronti del pensiero dellʼimmanenza e della virtualizzazione macchinica, che sono forse gli unici temi davvero significativi nella riflessione di Lévy. Ma quei concetti, come abbiamo visto, non smettono di ribadire la loro ambiguità. Da una parte suonano la musica di una pseudo-liberazione, dall’altra il ritornello del capitale. Allʼinterno del discorso dellʼintelligenza collettiva rimangono vuote astrazioni, articolate in un ragionamento che non fa i conti con la storia.