Musei Aziendali. Il caso romano del Museo storico delle Poste e delle Telecomunicazioni dell’EUR

Una precisa regia enunciativa, inscritta nello spazio dell’allestimento, dirige la messa in scena della comunicazione nel Museo della posta di Roma.

Seguendo il percorso, non privo di ostacoli, lungo la ricca esposizione storico artistica, abbiamo cercato di rintracciare le sue fanìe espressive e di ricostruirne quella strategia narrativa che guida, non senza smarrimenti, la curiosità del visitatore tra le sale. Suggeriamo, infine, di ripensare la valorizzazione del museo adottando nuove auspicabili forme di comunicazione interna ed esterna.


Abstract

A precise enunciative direction, inscribed in the exhibition space, leads the staging of communication at Rome’s Historical Museum of Post and Telecommunication. Following the path – not without obstacles–, along the rich historical and artistic exhibition, we tried to track its expressive forms and rebuilds the narrative strategy that guides – not without moments of loss–, the curiosity of the visitor through the halls. Finally, we suggest to rethink the exploitation of the museum by adopting new desirable forms of internal and external communication.


Nel complesso e articolato panorama dei musei aziendali della Capitale, quello delle poste e delle telecomunicazioni è un unicum sui generis, sia per via della sua natura giuridica ibrida, sia per la preziosità della sua collezione che travalica le possibilità dell’allestimento.

Con alcuni studenti del corso di Semiotica della città e dei luoghi del consumo, ci siamo immersi nella sua storia tanto affascinante, quanto polverosa.

Inaugurato nell’attuale sede dell’EUR a Roma nel febbraio del 1982 «allo scopo di non disperdere un patrimonio di inestimabile valore intrinseco, storico e culturale» (Della Pietà, a cura di, 1988, pag. 65), la sua collezione inizia a costituirsi dal 1878, con la raccolta di apparati e materiali telegrafici provenienti da tutti gli uffici caduti in disuso dopo l’unificazione del Regno d’Italia. I numerosi reperti furono conservati in un primo momento a Firenze e costituirono un primo nucleo del Museo telegrafico fiorentino, al quale si affiancò nel 1890 una analoga collezione dedicata alla Posta. Pochi anni più tardi, nel 1907, la gestione del Museo telegrafico venne affidata all’Istituto Superiore delle Poste e Telegrafi che successivamente (1939) ne ordinò il trasferimento a Roma presso l’ufficio di Roma-Prati, dove venne aperto al pubblico solo nel 1959. Nei vent’anni successivi la collezione del museo si arricchì notevolmente e le esigenze di funzionalità dell’ufficio che ospitava l’allestimento ne imposero un necessario trasferimento in quella che è attualmente la sede in viale Europa, all’interno del complesso del Ministero dello Sviluppo Economico.

Questo breve excursus storico ci ha permesso di collocare il Museo delle Poste e delle Telecomunicazioni all’interno di una precisa casistica di Musei Aziendali, non solo locali, ma anche nazionali. Il museo dell’impresa è per definizione, quasi sempre, completamente o in parte, di proprietà di un’azienda privata. Tuttavia, «la conferma che si è di fronte ad un cambiamento di attitudine viene da un altro dato: circa l’80% dei musei d’impresa è di proprietà delle aziende, il restante 20% viene gestito da istituzioni pubbliche». (Negri, 2003, pag. 160).

Il Museo delle Poste e delle Telecomunicazioni rientra all’interno di quella categoria di musei di proprietà pubblica (Ministero dello Sviluppo Economico) con una gestione ibrida. Della quale, infatti, si occupa anche proPosta, fondazione di Poste Italiane, che contribuisce alla promozione ed alla valorizzazione del museo. La sua natura giuridica pubblica e la sua doppia gestione sono elementi che influenzano, così come gli studenti hanno avuto modo di notare da subito, la costruzione del messaggio trasmesso attraverso l’allestimento.

In un museo d’impresa, generalmente “nei racconti allestiti dalle esposizioni, oggetti, documenti e architetture creano bricolage di materiali suoni e odori rivelando l’identità aziendale” (Rinaldi, 2006, pag.125). Lo spettatore in visita al museo della Posta di Roma invece, non si trova di fronte la classica esposizione di un’identità visiva (J.M. Floch, 1995), ma la storia dell’evoluzione di un saper fare nazionale. Nel museo, in altri termini, non sono esposti reperti e strumenti portatori dei valori del brand, così come accade nella gran parte dei musei associati a Museimpresa, l’associazione nazionale dei musei aziendali mono o pluri-aziendali, ma strumenti, oggetti e documenti di un’identità collettiva.

Lungo i quasi quattromila metri quadrati, del Museo della Posta di Roma, la storia della comunicazione si dispiega attraverso sette percorsi tematici (Posta, Telegrafia, Telefonia, Radio, Televisione, Marcofilia, Filatelia) che si rincorrono durante l’esposizione delineando un continuum narrativo, marcato da pochi tratti di discontinuità ed interruzioni. Questa peculiarità del museo è stato l’ostacolo più difficile per gli studenti alle prese con l’analisi semiotica dello spazio; tuttavia superarla ha di sicuro permesso loro di comprendere pregi e difetti di un’organizzazione spaziale così complessa.

In gran parte di tipo tradizionale, attraverso vetrine, teche, pedane e classici raccoglitori, l’allestimento espone oltre tremila reperti (buche delle lettere, telegrafi – alcuni ancora funzionanti dal 1930 – telefoni, radio, televisioni) e più di quattromila documenti (lettere, comunicazioni, giornali ecc.) ripercorrendo la storia delle principali innovazioni tecnologiche e dei suoi inventori.

Il visitatore (appassionato, turista o studente) può accedere al museo solo per appuntamento ed è sempre accompagnato da una guida che lo introduce nel percorso espositivo attraverso una premessa su quanto osserverà. Egli accetta questa promessa narrativa con entusiastiche aspettative che, alla fine però, non saranno del tutto appagate.

Come un flashback spazio temporale entrando al museo da viale Europa si compie una discesa che dal livello stradale dell’ingresso conduce al piano interrato del palazzo, in una dimensione parallela di non-qui e non-ora. Questa contrapposizione topologica tra alto (presente) vs basso (passato) è un’invariante dell’intero allestimento che alterna invece strategie enunciative differenti. Il visitatore, attua questa discesa nella storia e segue l’andamento dell’esposizione rispondendo a prescrizioni e interdizioni dalle quali non può prescindere. La strategia narrativa messa in atto dall’intero allestimento è infatti rigida e vincolante, il visitatore non può che seguire il percorso tracciato da precisi attori dell’enunciazione con specifiche deleghe narrative.

L’organizzazione dell’intero allestimento conduce cronologicamente la narrazione tra le macro sezioni tematiche senza grandi interruzioni: non ci sono limiti demarcativi tra una sezione e l’altra e poche soglie di passaggio che, come segni di interpunzione, organizzano la continuità del discorso. L’esposizione si dispiega in maniera lineare lungo tutto il museo, tracciando un percorso rettilineo enfatizzato dalla ridondanza di colori, materiali e forme dell’intero allestimento (eccezione fatta per la prima sala da cui parte l’intero racconto). Le stanze sono disposte in maniera ordinata da un prima e un dopo, un avanti e un dietro l’una affianco all’altra senza alcuna interruzione visiva. La narrazione della storia si svolge così sotto gli occhi del visitatore in maniera fluida e continua, le vetrine si ripetono sempre identiche e l’illuminazione soffusa è uguale in tutte le sale. Sono gli oggetti della collezione (apparecchi telefonici, pantelegrafi, telegrafi, timbri…) che, assumendo deleghe informative ed enunciative, parlano di loro stessi e della loro storia destando la curiosità del visitatore.

La costanza dell’allestimento, unita all’enorme quantità di reperti esposti, provoca nel visitatore (e ancor più negli studenti con il compito di scovarne le strategie di comunicazione messe in atto) una difficoltà percettiva, costringendolo spesso ad uno sforzo cognitivo nel tentativo di disambiguare, selezionare ed ordinare oggetti e contenuti. Spesso esposti in quantità eccessiva nelle vetrine, a volte scarsamente illuminati e con delle didascalie non sempre leggibili, i reperti mostrati rompono tuttavia quella staticità espositiva dell’allestimento, uscendo spesso dalle vetrine e ponendosi come segni di discontinuità nel racconto.

Funzione narrativa (ed effetto di rottura) è anche quella delle ricostruzioni di ambienti storici (in cui cambiano materiali, forme e colori dell’allestimento). Come quella dell’ufficio postale del Granducato di Parma, Piacenza e Guastalla del 1861 che, nella sezione tematica relativa alla posta, introduce il visitatore in un ambiente completamente diverso dal precedente, generando un effetto di mise en abîme dovuto al rapporto tra reale vs virtuale che si instaura tra il rifacimento fedelissimo con mobili e strumenti dell’epoca ed il resto del museo. Stesso effetto è suscitato anche dalla ricostruzione della cabina radio del panfilo Elettra di Marconi, o dai primi uffici telegrafici. A rompere la staticità della narrazione anche la postazione interattiva della macchina Morse, che coinvolge il visitatore pragmaticamente e cognitivamente all’uso dello strumento esposto. Sul finire del percorso museale anche la sezione dedicata alla filatelia si pone come una discontinuità rispetto a tutto l’allestimento. Qui cambiano le strategie enunciative: le vetrine espongono solo alcuni pezzi tra i più rari (anche disegni e bozzetti del 1900), mentre il resto della collezione di francobolli e timbri è conservato nelle cassettiere. L’illuminazione si fa più vivace e lo spazio si presta ad una visita meno rigida anche tra piccole esposizioni tematiche: il viaggio nella storia della comunicazione e delle sue innovazioni tecnologiche è finito. Il visitatore è invitato nuovamente a salire, percorrendo una nuova scala, per tornare al livello (alto) dell’ io-qui-ora (presente) e uscire dal museo, ma da un altro lato dell’edificio (il suo sapere si è arricchito rispetto a quando era entrato).

L’allestimento del Museo, così rigidamente concepito, dirige l’attenzione del visitatore (curioso) lungo una storia spesso troppo densa di contenuti che le strategie enunciative messe in atto da didascalie, pannelli e dalla guida, non bastano ad orientare la sua comprensione. In altri termini, dietro evidenti lacune museografiche (assenza di supporti comunicativi adeguati ai contenuti) e curatoriali (dovute ad uno scarso investimento economico), il progetto museologico fa fatica ad emergere in tutta la sua chiarezza, a discapito della valorizzazione dei reperti. Così, la curiosità che anima sulle prime il visitatore subisce, durante il lungo percorso (la visita può durare anche oltre le tre ore, se approfondita) oscillazioni tra stati di soddisfazione e di frustrazione, laddove purtroppo la comunicazione conduce, per dirla con Umberto Eco (1965), a una decodifica aberrante, mancandone gli strumenti di decodifica dell’oggetto (pannelli esplicativi, didascalie…). La guida non può infatti assolvere a tutte le funzioni informative e didascaliche di una tale quantità di reperti. Di certo Direttore e curatori sono impegnati a fare il massimo con la scarsità dei fondi a disposizione, va da sé però un’amara riflessione su un ennesimo caso di patrimonio culturale nazionale dalle grandi potenzialità non opportunamente valorizzate, nonostante la doppia gestione del museo (Ministero e Fondazione proPosta).

Persino gli studenti in visita – investiti di un compito molto arduo quale l’analisi semiotica dello spazio – hanno espresso giudizi molto severi, pur non essendo certo dei museologi accreditati. La polvere nelle vetrine, le luci fuori uso e le didascalie scollate (tra le altre) hanno condizionato molto, infatti, le loro riflessioni, confluite poi in un’analisi semiotica attenta e puntuale, nonostante tutto.

Tuttavia, nell’attesa di tempi migliori per il Museo della Posta di Roma, è quanto mai evidente la necessità di intervenire anche solo con piccoli accorgimenti museografici e curatoriali (da quelli low cost come l’aggiornamento delle didascalie e dei supporti informativi cartacei a quelli più dispendiosi come una nuova sede o il restauro di quella attuale, l’implementazione di soluzioni tecnologiche e multimediali della comunicazione interna ed esterna) o anche solo facendo rete con i musei del quartiere: Museo delle Civiltà, Museo della Civiltà Romana,  Planetario e Museo astronomico, solo per citarne alcuni.

Bibliografia

Della Pietà C., 1988, a cura di, Roma. Il museo della Posta, Franco Maria Ricci Edizioni, Milano

Giannitrapani A., 2013, Introduzione alla semiotica dello spazio, Carocci Editore, Roma

Marrone G., 2001, L’agire spaziale, in Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Giulio Enaudi Editore, Torino

Negri M., 2003, Manuale di Museologia per i musei aziendali, Rubbettino Editore, Catanzaro

Pezzini I., 2011, Semiotica dei nuovi musei, Laterza Editori Roma- Bari

Rinaldi M., 2006, Il museo dell’azienda: identità a confronto, in I. Pezzini, P. Cervelli, a cura di, Scende del consumo: dallo shopping al museo, Meltemi, Roma

[Hanno partecipato al laboratorio sui Musei Aziendali gli studenti: Chiara Colucci, Ausilia Ippolito, Antonella Basile, Giorgia Schina, Giulia Paci].

 

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