Puntata dedicata all’immaginario working class.
Sonia Maria Luce Possentini, La prima cosa fu l’odore del ferro, Tolentino (Mc), Rrose Sélavy, 2018, pp. 34 illustrato, euro 14
Un libro illustrato per ragazzi dai 7 ai 99 anni che racconta il lavoro in fabbrica. In fonderia, dove l’autrice, oggi illustratrice impiegata nell’industria editoriale, ha sgobbato per tre anni, unica donna metalmeccanica di quella linea. E l’odore del ferro, assieme all’umidità nebbiosa che divide la casa del lavoro, la sentirete a ogni riga di questo libro. E a ogni riga lascerete una lacrima e sentirete il cuore palpitare: percepirete il nero della fonderia, il caldo del forno, il freddo, le sigarette, le battute dei compagni di lavoro, la forza e l’orgoglio della protagonista. Un libro come questo doveva arrivare e finalmente è arrivato: scritto da una donna metalmeccanica che ha le mani d’oro, sia quando illustra che quando scrive (ci sono frasi che hanno una forza lirica sorprendente). Compratelo, leggetelo, leggetelo ai vostri figli. [“Donna metalmeccanica” il correttore ortografico me lo segnala come errore. Eppure ci sono donne metal meccaniche. E ci sono donne metalmeccaniche che scrivono e disegnano, come Sonia. Fatevene una ragione].
James Leighton, Duncan Edwards, il più grande, Roma, 66thAND2nd, 2018, pp.299, euro 20, traduzione di Wu Ming 4
Quando chiedevo a mio padre chi fosse il più grande calciatore di calcio di tutti i tempi, lui rispondeva senza esitazioni: Di Stefano. Io ero piccolo, Maradona era un astro nascente ma ancora doveva dimostrare che la mano di Dio stava dalla sua parte. Mio zio diceva Crujiff. Io a quei tempi tifavo Pelè ma adesso mi son convertito e dico Maradona. Ma se il più grande fosse stato Duncan Edwards? Edwards, chi era costui? Astro dimenticato del calcio inglese, originario delle Midlands, del Black country minerario, estrazione working class, figlio di minatori di Dudley, erculeo e roccioso centrocampista, Edwards gioca nel Manchester United quando il calcio inglese non muove ancora i soldi di oggi. La sua paga da professionista era di poco superiore a quella che avrebbe guadagnato facendo il lavoro di suo padre, il minatore, il lavoro a cui era destinato. Andava allo stadio in bicicletta e all’epoca il campo di gioco di Old Trafford puzzava per l’odore delle fabbriche circostanti, mentre i red brick erano di fatto neri per gli scarichi delle ciminiere. Ma allora il calcio era roba da classe lavoratrice. Il calcio era così duro e così poco pagato che i borghesi si rifiutavano di praticarlo e al massimo provavano a guadagnarci sopra sulle spalle dei giocatori. Pensate che nelle giovanili del Manchester United il giovane Duncan doveva imparare un mestiere come falegname o muratore: i calciatori, anche da professionisti, non diventavano ricchi né perdevano i legami con la classe sociale d’origine. Rimanevano working class praticando uno sport che per i ceti abbienti era una forma di divertimento ma che non forniva nessuna opportunità professionale, al contrario dei lavoratori che nel calcio vedevano un riconoscimento sociale e un modo per sottrarsi alle miniere e ai lavori usuranti. Detto questo, come calciatore Edwards era eccezionale: morì a 21 anni in un incidente aereo dove scomparve metà della formazione dei reds (sopravvisse Bobby Charlton, suo amico, che poi fu il capitano della nazionale inglese vittoriosa ai mondiali del ‘66) ma se non fosse morto giovane, come chi è caro agli dei, sarebbe diventato sicuramente una stella del calcio mondiale. Il libro è stato tradotto da Wu Ming 4 che nell’introduzione presenta Duncan Edwards come un working class hero. E lo era davvero.
[A proposito di calcio: anche per non incensare nostalgicamente il “vecchio calcio di un tempo”, che l’età dell’oro non è mai esistita, impossibile non leggere in questi giorni Uccidi Paul Breitner di Luca Pisapia (Roma, Alegre, 2018, pp. 285, euro 16). Tra i libri sul calcio più belli che ho letto citerei Pensare coi piedi di Osvaldo Soriano, Splendori e miserie del gioco del calcio di Eduardo Galeano e Calcio di John Foot. Quello di Pisapia è diverso da ognuno di questi tre libri. Ha qualcosa di ognuno di questi (è un saggio, un atto d’amore e una scrittura narrativa) ma impasta la scrittura in una forma magmatica che incorpora una fiction di mondi calcistici alternativi. La scrittura poi si avvolge in una strana torsione elicoidale, in cui ogni paragrafo rimanda a uno stile o a un autore diverso. Davvero magistrale lo stile di Pisapia, diverso dal suo lavoro giornalistico per il Fatto o Il Manifesto, più letterario che tecnico, con una potenza rarissima, capace di calchi e di invenzioni notevoli. Le pagine sul calcio inglese sono magistrali. Batterei le mani a Pisapia più che a Cristiano Ronaldo].
Raymond Williams, Terra di confine, Milano, Paginauno, 2018, pp. 429, euro 18, traduzione di Carmine Mezzacappa
Raymond Williams è una famoso sociologo che, alla pari di Richard Hoggart, ha esplorato le dimensioni sociali e culturali della classe operaia inglese. Sia lui che Hoggart provenivano dalla working class ma negli anni in cui soffiava lo spirito del ’45 (ricordate il documentario di ken Loach?) entrambi riuscirono a usare la formazione scolastica come mezzo di emancipazione di classe. Non tagliarono mai i rapporti con la working class che li aveva forgiati, di cui probabilmente talvolta sentivano il rimpianto. Non a caso Williams in questo romanzo, ampiamente autobiografico, torna nella terra del padre: il padre del protagonista è un ferroviere, è malato, il protagonista lascia gi impegni accademici per far ritorno nel vecchio villaggio operaio. Il realismo è la cifra del romanzo, siamo lontani dalle deformazioni psicologiche ciniche e umoristiche di certi racconti di Alan Sillitoe, ma quello del viaggio verso il corpo del padre operaio malato è davvero un topos della narrativa operaia.
(Lo stesso editore, Paginauno, ha pubblicato un altro importante libro di narrativa working class: William McIlvanney, Docherty, Milano, Paginauno, 2014, pp. 429, euro 16, traduzione di Carmine Mezzacappa.)
Marco Amerighi, Le nostre ore contate, Milano, Mondadori, 2018, pp. 267, euro 18
Ho sentito aria di casa in questo romanzo. Anche se l’autore ha preferito non rendere troppo riconoscibile la Toscana minore e proletaria delle Colline Metallifere, quel lembo di provincia dell’Alta maremma che si insinua tra le province di Pisa, Livorno e Grosseto fino a sfiorare Volterra, non è difficile riconoscere nell’esordio di Amerighi la zona di Larderello, coronata da soffioni geotermici e segnata dalle nuove enclosures dei vapordotti. Vapordotti che erano un tempo ricoperti d’amianto. Quell’amianto che guasta i polmoni del padre del protagonista. Tra romanzo di formazione e ballata generazionale, con la provincia nel cuore.
Salvatore Cannavò, Mutualismo. Ritorno al futuro, Roma, Alegre, 2018, pp. 191, euro 15
Cannavò cerca di indicare il nord a una sinistra che ha perso la bussola. E il nord magnetico è il mutualismo, la solidarietà tra sfruttati, la divisione tra sfruttati e sfruttatori. Banalità di base che certa sinistra sembra aver dimenticato. L’autore si infila con ottimo orientamento in un sentiero che parte dall’associazionismo operaio del XIX secolo e conduce alle forme contemporanee di solidarietà: le fabbriche occupate, i beni comuni gestiti dalle associazioni, le forme di federalismo autogestito del Chiapas o del Rojava. Il futuro è tutto da inventare: ma senza solidarietà tra sfruttati, non c’è sinistra. Senza inimicizia contro i potenti e gli sfruttatori, non c’è coscienza. Da qui non si scappa. O stai con gli sfruttati o stai con gli sfruttatori. Utile anche per scardinare le mosse di chi vorrebbe essere né di destra né di sinistra, di chi vuol stare con i padroni e i lavoratori, o di chi vorrebbe recintare la classe operaia dentro ai confini nazionali nel nome di un sovranismo che puzza di cadavere stantio.
George Orwell, Senza un soldo a Parigi e a Londra, Milano, Mondadori, 2018, pp. 238, euro 13, traduzione di Isabella Leonetti, introduzione di Andrea Binelli
Per me è stato un libro fondamentale. L’ho letto mentre facevo lo sguattero in Inghilterra e insomma… mi ci son rivisto. L’avevo però infilato in un angolo della libreria, scrollandomelo di dosso. Anche se quel libro di Orwell, assieme a tanti altri dello stesso autore, era stato per me fondamentale. Diversa era forse la ragione che aveva spinto Orwell a lavorare nei ristoranti: lui era alla ricerca, da borghese empatico e socialista, di una immersione nella working class. Io invece nella working class c’ero cresciuto e non avevo altra scelta, se volevo rimanere in Inghilterra e imparare la lingua, di mettermi down, ai piani bassi. A quel punto è successo che Andrea Binelli, curatore dell’ultima edizione di Senza un soldo, me ne abbia fatta mandare una copia. Ed io ho accettato volentieri di riceverla per leggere la sua introduzione. In cui, per l’appunto, il curatore evidenzia la natura ibrida di Senza un soldo (tra inchiesta e romanzo di formazione); mette in luce l’importanza (e i rischi) dell’autobiografismo di Orwell e alla fine si interroga sulle ragioni della scelta di questo sprofondamento nei bassifondi. Dietro il quale, secondo me, c’è il bisogno di vivere la vita prima di raccontarla: combattere in Spagna, per poi scrivere quel capolavoro (ancora un ibrido in biofiction) che è Omaggio alla Catalogna; andare a dormire nelle camerate dei minatori per poi scrivere The Road to Wigan Pier, diventare un barbone e un plongeur, uno sguattero, per scrivere Senza un soldo a Parigi e Londra. Viverla per raccontarla.
Quella delle multisegnalazioni editoriali di Alberto Prunetti è ormai a tutti gli effetti una rubrica. Qui la prima, qui la seconda e qui la terza multisegnalazione uscite su il lavoro culturale.