Una segnalazione di titoli usciti di recente con uno sguardo su prospettive di classe, etnicità, genere e immaginario.
Vera Gheno, Femminili singolari, Firenze, 2020, pp. 204, euro 15.
Le parole sono sostanziali, perché è nella lingua che classifichiamo il mondo. E la questione della lingua, da sempre, è un sintomo di quel che avviene nella società. Non stupisce allora che l’uso sessista della lingua ha cominciato a essere messo in discussione negli ultimi lustri (o ormai da decenni, se si pensa che il saggio di Alma Sabatini sul sessismo nella lingua italiana risale agli anni Ottanta), da quando il sessismo e il patriarcato sono stati inquadrati come uno degli assi in cui si determina l’oppressione. Quel sessismo rivendicato ancora oggi dagli alfieri del politicamente scorretto (chiamateli “merde”, saranno felici?), sempre pronti a dire “e fattela una risata” ogni volta che una persona appartenente a un gruppo razzializzato, oppresso o minoritario non accetta di farsi stigmatizzare dalle (loro) parole. La contesa contro il maschile sovraesteso scambiato per un “neutro” ha investito ovviamente il campo dei social, con continue richieste di spiegazioni che arrivano ai lessicografi e alla Crusca (che mappa le vibrazioni della lingua, ma non è una guardia del lessico). Niente di nuovo: da sempre i gruppi dominanti universalizzano il proprio particolare e spacciano per neutralità una ben determinata percezione delle cose. Pensiamo alla narrativa. Gli scrittori bianchi danno per scontato che i personaggi della narrativa non abbiano un colore ma siano “universali”, mentre la letteratura borghese pensa di raccontare il mondo quando in realtà racconta solo se stessa. La neutralità non è delle parole, insomma, e non a caso i femminili professionali sono uno degli ambiti su cui il dibattito è più acerrimo. Accusati di essere cacofonici, ridicoli, inadeguati, anche quando lessicalmente corretti. Su tutto questo ragiona magistralmente Vera Gheno.
Dashiell Hammett, Continental OP. Tutti i racconti, Milano, Mondadori, 2021, pp. 876, euro 28, traduzioni di Attilio Veraldi, Nicoletta Bianchi et al.
Il cinema noir è stato definito come il genere cinematografico con più coscienza di classe nell’America degli anni Quaranta e Cinquanta. Una definizione che colpisce il bersaglio e vale per i suoi registi come per i suoi scrittori, che spesso adattarono le proprie opere narrative sceneggiandole per il grande schermo. Abili a infilarsi nei vuoti del perbenismo puritano degli anni Trenta, riuscirono dopo la guerra, negli anni del maccartismo, a far passare contenuti di classe sul grande schermo che incantava milioni di persone. Descrissero i padroni come avidi e parassiti, usando le cornici del crime drama, pubblicando storie cupe e ciniche in rivistine di serie B che costavano quattro spiccioli. Erano i famosi pulp magazine, con la carta derivata dalla polpa del legno e pertanto meno costosa. Molti di loro inciamparono nelle reti della caccia alle streghe. Come lo stesso Hammett, che per non tradire le sue idee comuniste si ritrovò nell’impossibilità di lavorare e si vide tolto ogni bene da un processo farsa. Tutt’altra sorte il sogno americano riversava agli squali del capitalismo e ai loro sgherri, i “cockroach capitalists”, gli aspiranti quattrinai con le pezze al culo. Per chi stava in alto nella catena alimentare del capitalismo le cose andavano a gonfie vele, per gli altri, la vita riservava solo schiaffi. Ecco cosa ci insegna il noir. Tra gli squali del capitale, nella dramatis personae di questa antologia, ci imbattiamo nel buon Gatewood della Legnami e Affini, rancoroso e prepotente quattrinaio vittima di un’estorsione, che “aveva messo insieme i suoi svariati milioni prevaricando e schiacciando tutti quelli che s’era trovati davanti”. Il detective di Hammett viene contrattato da individui come questo, che lui in realtà disprezza, a cui deve togliere le castagne dal fuoco in cambio di un tozzo di pane. Pochi, maledetti e subito. Come giustamente osserva chi ha redatto la quarta di copertina, Continental OP è un personaggio “cinico e stanco”, ma è anche “un sopravvissuto, un eroe della classe operaia”. E noi ci riconosciamo in lui, lo vediamo sprofondare in miserie che comprendiamo, mentre proviamo solo disprezzo per il fottuto Gatewood della Legnami e Affini.
Jeremy D. Popkin, Haiti. Storia di una rivoluzione, Torino, Einaudi, 2020, pp. 244, euro 28, traduzione di Alessandro Manna
Un gran bel saggio nello stile accademico anglosassone: chiaro, referenziato, puntuale. Ma anche un’opera in cui si intuisce il trasporto politico nei confronti di quella rivoluzione spesso negletta, eppure così simbolicamente importante, quale fu quella haitiana degli anni dal 1791 al 1804. Un saggio che dovrebbe stare in ogni scaffale, accanto a I giacobini neri di C.L.R James, alle opere di Frantz Fanon e agli scritti più recenti di studiose e attiviste come Françoise Vergès (di cui consiglio la lettura, per i tipi di Ombrecorte, di Un femminismo decoloniale) per decolonizzare e togliere il bianco di dosso all’immaginario rivoluzionario del passato e del futuro.
Bell hooks/Maria Nadotti, Elogio del margine. Scrivere al buio, Napoli, Tamu Edizioni, 2020, pp. 260, traduzione di Maria Nadotti, euro 16; Bell Hooks, Insegnare a trasgredire. L’educazione come pratica della libertà, Milano, Meltemi, 2020, pp. 251, euro 28, traduzione di feminoska.
Beloved. Pochi libri negli ultimi mesi mi hanno smosso qualcosa dentro come Elogio al margine di bell hooks. Vorrei dire tanto e non riesco a dire niente. È un raggio di luce. Forse quel che mi ha toccato tanto è il fatto che parlando di genere e razza, hooks riesce sempre a tenere i piedi nella classe, nell’oppressione di classe. Riesce sempre a scrivere a partire dal proprio corpo, dalle proprie esperienze, dalla propria infanzia segregata e sofferente in un segmento della classe operaia nera. E le sue parole sono terapeutiche, incitano all’azione, ma ti fanno anche respirare meglio. Fanno pace col rancore, ma non dimenticano le ragioni della rabbia. E capisci che ne valeva la pena. Non chiedetemi di recensirla, che non trovo parole più belle delle sue e le mie non basterebbero. Fidatevi e leggete di lei tutto quel che trovate.
William T. Vollmann, I poveri, Roma, Minimum Fax, 2020, pp. 384, illustrato, 19 euro, trad. di Cristiana Mennella.
Mi aspettavo moltissimo da questo libro per la qualità della scrittura del suo autore. Ma dopo le prime decine di pagine ero preoccupato. Avevo la sensazione che l’operazione fosse una sorta di misery Lit, di letteratura della miseria, vista da fuori, nei suoi aspetti meno strutturali. Poi le pagine centrali del libro mi hanno rincuorato: la scrittura si fa più incalzante, diventa un lungo reportage d’inchiesta in prima persona. Alla fine I poveri è un libro che raccomando ma rimangono alcune questioni aperte. Non è l’empatia verso i poveri quella che manca in Vollmann. Di certo non ho trovato in queste pagine la radicalità di grandi reportage come quelli di Orwell sui minatori inglesi. Forse, e questo separa Vollmann da Orwell, quel che manca all’autore non è infatti l’empatia ma una teoria generale sulla produzione sociale della povertà. Alla domanda perché ci sono i poveri, forse anche Vollmann rimarrebbe imbarazzato come i suoi interlocutori quando la domanda la pone lui. Eppure è questa è la grande domanda di sempre.
David Peace, GB84, Milano, Il saggiatore, 2020, pp. 475, 17 euro, trad. di. Marco Pensante.
Ci sono tanti modi per raccontare la working class. Da dentro, da fuori, col realismo o con l’allegoria, attivando processi di identificazione o cercando uno sguardo oggettivo. Con l’umorismo o con sguardo tragico, con la commedia o con l’epica. L’importante è farlo bene, è saperlo far bene. E quando uno scrittore di vaglia come David Peace racconta gli scioperi dei minatori inglesi nella Gran Bretagna del 1984, il risultato è assolutamente notevole. Sono pagine lente, lunghe, nere e cupe come il Black Country, indispensabili come il carbone d’inverno (ok, cercati una metafora più recente, you bloody wet!).
Gabriele Sabatini, Numeri uno. Vent’anni di collane in otto libri, Roma, Minimum Fax, 2020, pp. 192, euro 14
Ho letto con enorme interesse questo saggio. Forse la mia condizione di lavoratore precario dell’industria editoriale mi ha posto in una condizione di favore: il “backstage” di libri ancora oggi importanti, nella loro prima uscita a inaugurazione di una collana editoriale di pregio nella grande editoria del dopoguerra, spinge a una comparazione con le prassi del lavoro editoriale dei nostri giorni. Con domande molto materiali: quanto li pagavano; quante copie tiravano; che tempi avevano; le correzioni delle bozze, diavolo, le facevano in redazione… e così via. Penso che sia una lettura interessante per tutti, ma è altamente consigliata a chi lavora oggi nella filiera del libro.
Emiliano Pagani, Daniele Caluri, Don Zauker. L’origine del male, Milano, Feltrinelli, s.p., 2020, euro 16.
Meraviglioso. Una raccolta delle prime storie del leggendario Don Zauker, quelle apparse mensilmente sul Vernacoliere. Formato breve, satira devastante. Gli autori le hanno reimpaginate per adattarle al nuovo formato delle edizioni Feltrinelli. Molto bello è seguire, pagina dopo pagina, l’evoluzione fisica del personaggio, tra Torpedo e Clint Eastwood. Prendete e leggetene tutti, popo’ di brodi.
Silvia Federici, Caccia alle streghe, guerra alle donne, Roma, Nero, 2020, pp. 149, euro 15, traduzione di Shendi Veli.
L’opera di Silvia Federici è fondamentale per una comprensione delle forme strutturali del dominio capitalista. Notevole è la sua ricerca storica sulle origini della caccia alle streghe, intesa come un momento di frattura nella solidarietà tra le persone oppresse, un modo per separare la classe lavoratrice sulla linea del genere. Calibano e la strega, forse l’opera più famosa di Federici, è un testo di rilevanza globale: negli Stati Uniti, in America Latina, in Spagna è una lettura imprescindibile, mentre paradossalmente qui in Italia non gli viene ancora riconosciuto tutto lo spazio che merita. Bene hanno fatto le edizioni Nero a dare alle stampe questi brevi saggi che in qualche modo riassumono alcune delle tesi di Calibano e la strega. Per contestualizzare storicamente la guerra alle donne e inserire nel marxismo quella linea di oppressione che mancava.
Alice Diacono, Veniamo dal basso come un pugno sotto il mento, Imola, Battaglia edizioni, 2019, pp. 199, euro 15
Un mix tra narrativa e poesia per raccontare dal basso storie di sfruttamento e vita quotidiana, sullo sfondo di una vita da studente lavoratrice. L’autrice di un’opera poetica (Il tempo di un bidé) che ho molto apprezzato monta scritture eterogenee in un tessuto testuale che dipana i suoi fili con i piedi sulla strada e le mani in qualche lavoro precario a sfruttamento garantito. Un esercizio poetico e narrativo di valore, per raccontarsi da soli e non farsi raccontare da altri.
George Orwell, Il peggiore dei mondi possibili, Milano, Mondadori, 2020, pp. 936, euro 25, traduzioni di Monicelli, Duranti, Maffi, Bulla, Manferlotti. Curatela di Massimo Scorsone.
Dal primo gennaio l’opera di George Orwell è di pubblico dominio e gli editori sono corsi ai torchi. C’è chi ha ristampato vecchie traduzioni, chi – più correttamente – ne propone di nuove (la lingua cambia e le vecchie metafore diventano lettera morta). L’opera di Orwell per chi scrive è un punto di riferimento fondamentale, a partire da Down and Out in Paris and London. Personalmente credo che Orwell sia l’autore di cui possiedo più libri, tra edizioni inglesi e traduzioni italiane. Nel complesso sono attratto da quasi ogni titolo di Orwell e Omaggio alla Catalogna per me è una delle ragioni per cui ha senso scrivere e combattere. Tuttavia all’Orwell dei grandi successi degli ultimi anni ho sempre preferito l’autore giovanile di opere come Fiorirà l’aspidistra, e soprattutto Down and Out in Paris and London, per non parlare dell’inchiesta narrativa The Road to Wigan Pier. Tra le tante uscite orwelliane di questi giorni, segnalo due operazioni abbastanza distinte tra loro. Mondadori va in stampa in anticipo sulla proclamazione del pubblico dominio e, in quanto detentrice storica dei diritti orwelliani, ristampa le vecchie traduzioni. Intanto altri editori hanno commissionato nuove traduzioni per andare in libreria al primo gennaio con nuove traduzioni e nuovi paratesti critici. Nel paniere spicca l’edizione de I capolavori di Newton Compton con traduzioni e curatele di diversi professionisti, tra cui Andrea Binelli. Al di là dell’alluvione di ristampe, leggere Orwell è imprescindibile per chi considera la letteratura come uno strumento per incidere nella realtà.
Marshall Sahlins, L’economia dell’età della pietra, Milano, Eleuthera, 2020, pp. 452, euro 25, traduzione di Lucio Trevisan, prefazione di David Graeber.
Eleuthera ristampa un classico della letteratura antropologica, che da tempo mancava dagli scaffali nell’edizione italiana. Un libro che ha travalicato le mura dell’accademia. Più che tra gli economisti (forse gli unici a non voler fare i conti con queste pagine), sono stati gli antropologi a considerare queste pagine fondamentali per ripensare l’analisi delle forme materiali di sussistenza delle popolazioni di raccoglitori-cacciatori che vivono ai margini di un pianeta. Poi, dai primitivisti agli ecologisti, il mondo dell’attivismo politico ha preso questo saggio come una lettura fondamentale che dimostra che non è vero, come vuole il capitalismo avviato verso una catastrofe planetaria, che there is no alternative. Perché la vita dei nostri avi del paleolitico, lungi dall’essere una vita brutale, era una vita di abbondanza. Un’abbondanza primordiale fatta di bisogni semplici, senza accumulare proprietà, senza sedentarietà e beni di possesso che non fossero trasportabili, con una tecnologia di legno, roccia e fibre e uno stato di salute fisica assolutamente ragguardevole. Quello che altri hanno considerato una forma di comunismo delle origini e che testimonianze letterarie dell’epica antica ricordano come un’età dell’oro. Un’età paleolitica che nella storia dell’umanità misura metri, mentre la storia dei sistemi economici di oppressione (dal neolitico in avanti, fino al feudalesimo e al capitalismo industriale), a malapena misura qualche centimetro. (Con un’importante prefazione di David Graeber, che purtroppo è mancato proprio pochi mesi or sono).
Antongiulio Penequo (a cura di), Il viaggio rivoluzionario dell’eroe. Narrare, conoscere, ribellarsi, Milano, Mimesis, pp. 192, euro 18
Il saggio raccoglie i contributi di un fantomatico collettivo a firma comune, Antongiulio Penequo, che potrebbe aggirarsi in uno spazio improbabile tra la Selva Lacandona e una trattoria romana. Più probabilmente, dietro c’è il nome singolo c’è un (autore) collettivo di ex studenti della Pantera che si ritrovano per pensare le forme testuali di un immaginario ribelle tutto da ricostruire, forse dalle macerie o da vecchi brandelli testuali. Certo, beata quell’epoca che non ha bisogno di eroi. Ma non è la nostra epoca. Piuttosto, non ci servono eroi aristocratici, o eroi tecnicizzati – come direbbe Furio Jesi – ossia trasformati in macchine mitologiche che puntellano le forme morte di poteri autoritari ed elitari; e neanche eroi vecchi maschi bianchi maestri del mansplaing. Chissà che non ci servano però gli eroi come figure del racconto, eroi farseschi, eroi sconfitti, eroi ed eroine di una epica dal basso sovversiva. E a questo progetto che ha lavorato Antongiulio Penequo.
Alessandro Barbero, Dante, Roma-Bari, Laterza, 2020, pp. 361, euro 20.
Siamo nel pieno delle celebrazioni dantesche e non si contano i libri sul tema, tutti ansiosi di riveder qualche stella sulle recensioni di Amazon. Ma quello di Barbero non è certo un saggio d’occasione. Attento a non uscire dal seminato, affronta la vita di Dante da storico e non da studioso di letteratura: ossia lavora sulle fonti, dialoga con la letteratura critica, ricostruisce il contesto. E lo fa con la scioltezza del divulgatore.