Una recensione e una riflessione a partire da “Morte ai vecchi”, il romanzo di Franco «Bifo» Berardi e Massimiliano Geraci pubblicato da Baldini&Castoldi nel maggio del 2016.
Morte ai vecchi ci restituisce, con molteplici sfaccettature e riferimenti, un affresco della nostra contemporaneità, in una cupa e distopica atmosfera cyber-punk.
Il romanzo, molto complesso e articolato, ci racconta un mondo nel quale il conflitto sociale si trasla sul piano eminentemente generazionale. Il mondo narratoci dagli autori, infatti, sembra dividersi perfettamente in due parti: da un lato, la classe dirigente che, grazie ai progressi della chimica e della tecnologia, diviene sempre più longeva e sempre più attaccata alle proprie posizioni di potere e ai propri privilegi; dall’altro lato, invece, il mondo dei giovani, svuotati da qualsiasi passione e volontà, schiacciato in un eterno presente grazie ai medesimi progressi della chimica e della tecnologia. La violenza, cieca o premeditata che sia, diventa l’unica risposta possibile in questo mondo di tecnologia dispotica e soluzioni chimiche analgesiche.
Nel mezzo di questo dualismo conflittuale gli autori ci raccontano le avventure del vecchio professore Isidoro Vitale – che di questa finta immortalità ne ha ormai abbastanza, ma, forse, ha anche troppi dubbi introspettivi per rifiutarla definitivamente –, di Luca Ferenczi – giovane informatico di belle speranze che si ritrova a svolgere un ruolo cardine nel mezzo del conflitto generazionale – e di Alex Turri – giovane giornalista, voglioso di mostrare il proprio talento. Il tutto condito con eventi metanarrativi che ricostruiscono il microcosmo nel quale vivono e agiscono questi e altri personaggi, la cui storia si incrocerà con quella dei personaggi principali.
Tuttavia, non si tratta solo di un romanzo. Sotto alcuni versi lo si può considerare un saggio di filosofia in prosa, dove l’innesto di carne e tecnologia è una delle cifre principali. Il romanzo ci parla, infatti, dei corpi e dei loro movimenti: «La grazia» ci informano gli autori, Franco “Bifo” Berardi e Massimiliano Geraci, «è la condizione di movimento dei corpi nello spazio quando sono liberati della gravità dell’interesse egoistico» (p. 341).
Ma cosa succede ai corpi quando l’interesse egoistico li cattura, sostituendo alla grazia la paranoia, la paura, l’indifferenza? Questa è, con molta probabilità, una delle domande che ha ispirato il romanzo. E da qui, diviene possibile cogliere la cifra principalmente filosofica.
La dimensione della corporeità, è ormai considerazione assodata, rappresenta la dimensione eminentemente politica dei nostri tempi: luogo di scontri, di incontri e di interessi che la trascendono e che, tuttavia, tendono ad appropriarsene. Appropriarsi dei corpi, impararli a memoria – perché, come ci mostrano gli autori, è fin troppo facile dimenticarsene – catturarli nei loro desideri, nei loro slanci, non lasciare evaporare neppure una molecola di sudore, questo è l’obiettivo dichiarato del Potere. Perché il corpo – nelle sue infinite sfaccettature – è il nostro spazio vitale mediante il quale effettuiamo azioni, da quelle quotidiane a quelle eroiche, ed è necessario che per prima cosa, ogni azione, per quanto possa apparire vacua e irrilevante, diventi una dilagante moda sociale.
Diffondere la ripetizione di un’abitudine corporea, renderla puro virtuosismo autoreferenziale e onanistico, muovere velocemente dita, occhi, pensieri (ché il pensiero non è altro che carne viva), ricomporre lo spazio corporeo in anguste micro-capsule per ridimensionarlo: ora minuscolo, fino quasi a sparire; ora enorme, gigante, fino a invadere tutto. Ma questo moto centripeto – se non meramente concentrico – è solo apparente e blocca i corpi nei confini prestabiliti dalle abitudini consolidate.
Ma c’è una cosa fondamentale nel corpo, nel suo impratichirsi del mondo che lo circonda: non può che errare, nel doppio senso di sbagliare e spostarsi. Da un lato, infatti, la stessa evoluzione, nel suo dinamismo intrinseco, è determinata dall’errore; dall’altro i corpi, di necessità, si spostano. Per quanto stretto possa essere lo spazio lasciato loro, essi devono sempre ruotare, muoversi. Anzi, i corpi si muovono anche stando fermi. Anche quando sembrano flaccidi, abbandonati, raggrinziti, invecchiati… i corpi non mollano, devono muoversi.
Questo errare può diventare un’arma a doppio taglio. Infatti, errare può significare lasciare percorsi precostituiti, strade obbligate, vivere privi di qualsiasi determinazione ontologica prestabilita. Ma errare può, altresì, indicare un disturbo, qualcosa che non funziona nella megamacchina, un ingranaggio che esce dai binari, qualcosa di rotto e da sostituire.
Proprio qui si trova una cosa interessante: l’obiettivo di chi gestiste la megamacchina è di far sì che gli ingranaggi non si rompano – il Potere non può, evidentemente, permettersi il lusso dell’errore – affinché il desiderio si agganci al futuro, che sia sempre distante. Come fare? Come trasformare un corpo, raggrinzito e inabile al lavoro, in un ingranaggio a funzionamento prolungato? Occorre creare una Corporation della felicità, studiare a fondo il moto aggraziato dei corpi liberi per poterli catturare meglio, garantendogli una sicura felicità obbligatoria in un intrico di saperi e violenze, al fine di governare, guidare, prevedere la grazia dei corpi – antico elisir di lunga vita.
Ma la felicità è un bene prezioso, più unico che raro. Ed è difficile distribuirla a tutti. Specie se si intende ricavarne degli utili. La felicità va, dunque, centellinata, distribuita poco a poco così che essa finisca per diventare un vacuo involucro per trasformarsi in una stagnante ripetizione dell’identico, camuffata da ascesi al cielo. Così, la felicità si trasforma. Dapprima diventa semplice bramosia. Poi, pian piano, scivola trasformandosi in noia e indifferenza. E, infine, si rivolta nel suo contrario: pura violenza agìta, senza scopo né obiettivo. Anche la felicità può diventare una passione triste, per dirla con Spinoza.
Una felicità sussunta all’interesse egoistico divide, di necessità, il mondo in due: da una parte, chi ha acquisito il privilegio della routine vive nella paura del diverso, nell’ossessione da superlativo, nella paranoia dell’insicurezza, in quel delirio umanista e piccolo-borghese che vede nemici ovunque attorno a sé e che non ha altro desiderio se non il perpetuare passivamente la propria vita, monotona e sciatta. Dall’altra parte, il rovescio della medaglia, come il concavo e il convesso: la noia, l’indifferenza, la gioventù bloccata nell’eterno stadio del conflitto edipico, un mondo affrontato solo mediante schermi al plasma e innesti sinaptici hi-tech, microcapsule e psicofarmaci siderali. La noia e l’indifferenza si stringono sempre di più, stretti nelle gabbie invisibili di corpi rattrappiti, vecchi nella loro gioventù inesistente, in una gerontomachia necessaria e incomprensibile, sebbene prevedibile: i corpi devono divedersi uno spazio che diventa sempre più dilatato nella sua virtualità, ma sempre più compresso nella sua attualità. Una spazialità psichica così ristretta porta, per forza di cose, alla reazione, al cieco reagire violento senza altro scopo se non quello di restituire quanto ricevuto.
In gioco, allora, nella felicità speculativa dei nostri tempi, c’è la nostra stessa natura. E con essa, due visioni del mondo. Da un lato, l’idea di una natura umana benigna, votata all’autenticità, all’asfissiante ritornello dell’astratto amore tra gli uomini, che altro non è se non tranquillità piccolo-borghese. Dall’altra, l’idea di una inesistenza della natura umana, di una umanità vuota, priva di possibilità, priva di futuro, in cui nulla conta se non l’adrenalina sintetica e i dividendi a fine anno: un ripiegamento del presente su se stesso. In questa lotta, a sparire, è proprio l’Umanità, non concetto astratto, ma quella piccola specie animale a due zampe cui si vuol appioppare un passato glorioso – l’Umanesimo di Pico della Mirandola, ad esempio – o del quale si vuol rilanciare sempre all’infinito la realizzazione in un futuro che mai verrà (non ora, non qui). Perché, in questa guerra tra vecchi – abbarbicati alle loro felicità mediocri – e giovani, privi di interesse per qualsiasi cosa – perché tutto è ormai vano, già fatto, prevedibile –, quel che viene rubato non è né un passato glorioso né un futuro radioso, ma la possibilità di esistere e di vivere in un presente aperto e non richiuso su stesso, presente che è l’unico luogo nello spazio in cui passato e futuro acquistano senso e valore.
Questa ci sembra la necessità della grazia che gli autori del romanzo ci vogliono mostrare: rivendicare il nostro diritto al presente, un presente pieno, dilatato, instabile, sì, ma non per questo precario. Perché diventare vecchi vuol dire, parafrasando Gilles Deleuze e Félix Guattari, dimenticare la giovinezza della propria età a favore di quello spirito di gravità che preme come un macigno nella nostra ghiandola pineale 3.0.
E cos’è la giovinezza, se non la capacità di essere felici qui ed ora? Il prezzo che abbiamo pagato finora ci viene ben mostrato nel romanzo. Ora, spetta al mondo fuori dichiarare guerra ai vecchi che si annidano dentro e fuori di noi.
[Una serie di brani del romanzo, di note, apparati e riflessioni a latere si trovano sul blog killingswarm]