La statuaria pubblica al giorno d’oggi.
Si fa un gran parlare, di questi tempi, delle statue cadute nell’affermazione di un nuovo ideale di giustizia. Da noi, desta esultanza e indignazione la colata di vernice rosa che tende a riapparire sul fianco della statua di Montanelli a Milano, e il tema della sua rimozione ha occupato una porzione significativa dell’attenzione mediatica. Ma come spesso caratteristico del dibattito pubblico nel nostro paese e non solo, il campo di prese di posizione possibili è ben segregato: è giusto abbattere simboli di una visione obsoleta della storia, o equivale, questo, a disfarsi della memoria storica tout court, buttando via il bambino con l’acqua sporca? Pare che una decisione radicale vada presa in una direzione o nell’altra, esponendosi, nel primo caso, ad accuse di iconoclastia e, nel secondo, d’apologia di razzismo. Ben venga il dibattito. Ma veder statue su statue cadere, travolte, a seconda del punto di vista, dalle magnifiche sorti e progressive della storia o dalla furia delle masnade, potrebbe essere un’ottima occasione per suscitare un dibattito più complesso e ragionato sul ruolo della statuaria pubblica al giorno d’oggi, piuttosto che l’ennesimo pretesto per polarizzare la discussione politica.
Difficile negare che la statuaria tratti di una forma espressiva piuttosto obsoleta, che pertiene a un contesto storico-artistico, la singolare commistione di neoclassicismo settecentesco e romanticismo patriottico, che (per fortuna) è decisamente superato. Decisamente superata è anche la temperie storica e culturale che le ha ispirate, i nazionalismi otto-novecenteschi. Le statue pubbliche incarnano oggi, più che la volontà di celebrare gli individui o eventi che raffigurano, la testimonianza del sistema di valori che stavano a fondamento della società che le ha erette. In altre parole, le statue sono ormai anche un documento storiografico e, in qualche misura, “etnografico”, che ci restituisce, nel ventunesimo secolo, una rappresentazione tangibile dell’ideologia (à la Marx) della società che fu.
La decisione di erigere una statua a Montanelli all’inizio degli anni duemila ha il sapore di una sgangherata sovrapposizione di piani storici, ma obbedisce alla stessa logica. L’omaggio al giornalista, indipendentemente dal valore artistico della statua di Vito Tongiani e dalla sua iconografia, è un monumento che seleziona ed idealizza un aspetto particolare del personaggio, la sua notevole capacità di incarnare in modo spregiudicato il “senso comune” italiano. Una capacità che molti da destra e sinistra vorrebbero possedere. Cosi il monumento semplifica e moralizza il personaggio, collocandolo univocamente dalla parte del bene, e nascondendone aspetti atroci. La statua forza il personaggio entro una sua idealizzazione in cui l’ideologia dominante si rispecchia. È tale semplificazione, tale rimozione manichea della coesistenza di aspetti virtuosi e imperdonabilmente viziosi, che, quanto o più dell’esistenza stessa della statua, è il corpo del delitto.
L’attuale dibattito, in cui gli aspetti più conturbanti di Montanelli sono nuovamente divenuti salienti, ha riportato alla luce la complessità perduta. Ma ci ha anche reso consapevoli che la società del presente è progredita al punto da non tollerare oppressione di genere e razza. Perché dunque rimuoverla tout court, cedendo a un impulso quasi altrettanto manicheo, invece di celebrare tale consapevolezza? In questo senso, una colata di vernice rosa, come al tempo del Non una di meno, o rossa nei giorni del Black lives matter, sono non soltanto miglioramenti estetici alla statua di via Palestro (in quest’opinione siamo confortati da storici dell’arte come Tommaso Montanari che propongono di mantenere la statua con la sua nuova sgargiante colorazione) ma anche segnali ideologici, tanto più complessi quanto più potenti, di una semplice rimozione.
Rimuovere le statue tout court, senza lasciarne traccia, sarebbe, a nostro avviso, un gran peccato: non perché le ragioni che muovono le richieste di rimuoverle non siano da noi appassionatamente condivise, ma perché si perderebbe un’ottima occasione per restituire una condanna ancora più consapevole della parzialità dell’ideologia che le ha ispirate. Ma c’è un altro problema con un atto definitivo come la rimozione. Anche questa è ispirata dall’ideologia del momento, e non è difficile immaginare un futuro (o un presente) ove l’ideologia dominante decida di eliminare la memoria di personaggi ed eventi che sarebbe un peccato stigmatizzare. Montanelli non è di certo l’unico con un passato oscuro. E se si concede a ciò, quale criterio usare per tracciare la linea di separazione tra ciò che ha il diritto di restare e ciò che va rimosso. La domanda è una domanda antica, e della forma che il dibattito politico polarizzato dei nostri tempi ha fatto propria: dove tracciare la linea di demarcazione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto? Dove tracciare la linea tra il bene e il male? E soprattutto chi e quando la traccia?
Prendiamo il caso Pasolini (a noi assai più simpatico), spesso tirato in ballo in risposta a Montanelli e discusso anche da Luca Carminati in un recente articolo, appassionato e militante, pubblicato su questa stessa rivista. Se per noi è impensabile considerare le relazioni dello scrittore e regista come atti di pedofilia, è facile immaginare una temperie ideologica in cui lo si stigmatizzi come pedofilo. Perché dunque non stigmatizzare anche le opere di Pasolini? O perché allora non evitare di esporre i giovani alla mitologia classica, piena di terribili episodi di violenza sessuale? Perché non rimuovere la colonna traiana, che celebra violentissime vicende di oppressione? Come stilare un elenco dei misfatti e dei personaggi da salvare? E soprattutto, chi dovrebbe stilarlo?
L’argomento è volutamente provocatorio, e ci sono di certo differenze oggettive. Ci sono casi, come quello, per rimanere all’Etiopia montanelliana, di Rodolfo Graziani, autore di una tra le più buie pagine della storia coloniale italiana e non solo, cui sono dedicati un giardinetto pubblico e vergognoso sacrario. Ci sono poi differenze “cronologiche”: statue più lontane nel tempo tendono ad apparirci più neutrali, urtano meno direttamente la nostra sensibilità. Ma più ci si avvicina alla contemporaneità, più ci si inoltra in una zona grigia in cui i criteri per stilare una lista diventano sempre più contingenti, sempre più soggettivi, ed esposti, pertanto, alla mercé dell’ideologia e dei poteri del momento. Perché ostinarsi, dunque, a tracciare linee di demarcazioni, invece di intervenire sulle statue, artisticamente, per esempio, oppure modificando le iscrizioni, lasciando così un segno tangibile della capacità delle società di ripensare (spesso virtuosamente) il proprio sistema di valori?
Tante ipotesi sono state avanzate in questa direzione: lasciar lì Montanelli, tutto imbrattato, o affiancargli la statua di Destà, o spostarlo in un espace des refusées, come il Memento Park di Budapest con i suoi relitti di epoca sovietica. Tutte queste opzioni sarebbero di certo molto meno oltraggiose del lasciar la statua com’è: con l’attenzione che ha ricevuto, far ciò è una presa di posizione esplicita, sessista e razzista. Sarebbero anche opzioni ben più produttive di un mero abbattimento. Abbattere un monumento significa rinunciare a studiarlo, come scrive recentemente Dario Cecchi su questa rivista, e tale atto andrebbe dimenticato in poco tempo: di grandi palingenesi siamo un po’ stanchi e temiamo degenerazioni orwelliane in cui ideali meno virtuosi siano al Potere e decidano, in “un eterno presente in cui il Partito ha sempre ragione”, cosa merita di essere rimosso.
O forse si può fare anche meglio. Cosa c’impedisce di incentivare, dal basso e dall’alto, interventi di “complessificazione” di questi simboli obsoleti, interventi che, al pari delle vernici rosa o rosse, inseriscano la storia nell’opera e ne rimuovano l’ideologia? Incentivando uno sguardo storicizzato sul dinamismo della storia e delle ideologie, non renderemmo forse un favore alla qualità del dibattito pubblico? Non onoreremmo forse l’impegno democratico di fornire ai cittadini la possibilità di conoscere e comprendere la storia nella sua complessità e nelle sue sfaccettature, invece di restituirne una visione preconfezionata, ideologizzata e semplificata all’inverosimile?
La domanda di come preservare, in interventi che si muovano all’interno di proposte “istituzionali”, la forza propulsiva e la potenza di atti spontanei “dal basso” (quali gli episodi riguardanti Montanelli e le vernici) non è certo di semplice risposta. Bandi pubblici per interventi artistici, dibattiti o assemblee che coinvolgano davvero i cittadini, che si confrontino sull’eredità idiosincratica di personaggi quali Montanelli, e che siano investite del compito, ad esempio, di proporre interventi di ridefinizione delle didascalie a corredo delle statue potrebbero essere degli esempi. Presupposto di tutto ciò è però la capacità di mostrare, da parte delle istituzioni, un atteggiamento di disponibilità e ricettività politica e culturale verso istanze di “revisione” sollevate dai cittadini e verso l’opportunità di rivedere dinamicamente e partecipativamente l’uso degli spazi pubblici alla luce della sensibilità del presente (invece di dismettere tout court e d’ufficio, al modo delle dichiarazioni di Beppe Sala sul caso Montanelli).
Modelli possibili (ma con un grado in meno di democrazia e partecipazione di quello che auspicheremmo) sono l’operazione Topple the racists, o la proposta di Banksy, sintetizzata nel disegno, diventato immediatamente celebre, per il monumento al filantropo e mercante di schiavi Edward Colston, la cui statua realizzata nel 1895 è stata recentemente buttata nel fiume a Bristol. «Cosa dovremmo farcene di quel piedistallo vuoto?» si chiede l’artista inglese. E propone una soluzione e che gioverebbe tanto a chi rivorrebbe la statua quanto a chi non ne sente la mancanza: «recuperiamo la statua dall’acqua e rimettiamola sul suo plinto, attaccandole un cavo al collo e commissionando alcune statue a grandezza naturale di manifestanti che la tirano giu. Tutti contenti. Un giorno famoso commemorato».
Interventi come questi, idealmente proposti anche da nomi meno in voga, renderebbero le nostre città tappe di un grande “museo a cielo aperto” che mostri apertamente la capacità della nostra società di evolversi in modo dinamico e riflettere criticamente e collettivamente sul proprio passato.
Le opere, persino quelle di scarso valore artistico, avrebbero nuova vita (addirittura) nel nostro museo en plein air. E se la demolizione della statua è un omaggio alla imponderabilità della storia, riconoscerne la mutabilità di senso sarebbe una splendida testimonianza della nostra capacità di accoglierne criticamente la variegata complessità.
