Si è parlato molto, negli ultimi tempi, di quale potrebbe essere la risposta del diritto al progressivo diffondersi della street art.
Si tratta di un fenomeno, è cosa nota, che non è disciplinato dall’ordinamento italiano. Gli interrogativi che si pongono al giurista, sono molteplici e non sempre di semplice o immediata soluzione.
Innanzitutto, il profilo penalistico: le opere che, complessivamente, vengono qualificate come street art sono considerate dall’ordinamento giuridico atti di vandalismo nel caso in cui non vi sia un’espressa autorizzazione del soggetto proprietario del bene, in genere un immobile, su cui è prodotta l’opera.
Una prima precisazione
A tale riguardo, una prima precisazione appare doverosa: la qualificazione di un’opera come artistica è tendenzialmente indifferente per il diritto. Non si sta qui dicendo che tale qualifica non abbia dei riflessi giuridici, ma che la qualificazione stessa non è, né potrebbe essere, rimessa a una definizione legislativa. Si tratta di una considerazione scontata: perfino la critica d’arte ha difficoltà a definire che cosa sia l’arte stessa – e forse vale ancora l’idea di Gombrich, per il quale arte è ciò che per i critici è tale – per cui, evidentemente, un simile criterio di selezione non può essere affidato alla scienza giuridica.
Chi si è occupato di steet art non ha incontrato grandi difficoltà nell’ammettere che le opere possano essere tutelate dal sistema di regole che governa il diritto d’autore.
Una seconda precisazione
Una seconda precisazione appare ora necessaria: il diritto d’autore non richiede che l’opera o la sua realizzazione rispondano a un parametro di liceità. Tale valutazione è lasciata al diritto penale, che potrebbe sanzionare tali condotte; ciò, tuttavia, non esclude che, sotto l’angolo prospettico del diritto d’autore, le opere siano tutelate.
Il problema maggiore che si pone, spesso volutamente ignorato dalla dottrina, afferisce però alla possibilità, per il proprietario del supporto su cui l’opera è realizzata (ad esempio, il muro di un edificio) di distruggere il supporto stesso (e, di conseguenza, l’opera).
La legislazione americana, con il celeberrimo VARA, ha imposto un obbligo in capo ai proprietari dei supporti di notificare, laddove sia possibile, la propria volontà di demolizione.
Una soluzione, discutibile forse, che però ha il pregio di essere una soluzione.
Esistono alternative?
Una terza precisazione
Una terza precisazione si impone: spesso, gli artisti che lavorano in questo settore sostengono di essere consapevoli, e di accettare, il potenziale carattere effimero delle proprie opere. Sono opere che non sono necessariamente destinate a durare nel tempo.
La giustificazione di tale approccio, sempre ragionando sulle opinioni dominanti, tra le sfaccettature di un caleidoscopio in realtà complesso, risiede nel fatto che le opere non sarebbero di chi le crea, ma della collettività. Sono opere realizzate in luoghi pubblici, per essere fruite liberamente dal pubblico.
Se tale assunto fosse confermato, si verificherebbe però un cortocircuito tra i regimi proprietari (o, per essere più precisi, di appartenenza) sulle opere.
La street art, infatti, crea beni comuni che, sovente, si sottraggono alle logiche proprietarie. Lasciare agli artisti la scelta del destino delle proprie opere, in taluni casi, potrebbe essere una risposta inadeguata rispetto agli interessi coinvolti.
Immaginiamo, per qualche minuto, che Caravaggio torni in vita e che dipinga La vocazione di Matteo non su una tela e non per un committente, ma su di un muro di una periferia urbana.
Siamo disposti a riconoscere il diritto di Caravaggio di distruggere la propria opera? O, invertendo l’ordine prospettico, siamo disposti ad assumere che il proprietario dell’immobile, sul cui muro ha dipinto il redivivo Caravaggio, sia legittimato a distruggere la versione murales della Vocazione di Matteo?
Una quarta precisazione
A questo punto, qualcuno potrebbe notare uno scarso rigore metodologico. Si è detto, infatti, che sarebbe indifferente rispetto al valore artistico dell’opera, salvo poi citare un quadro di Caravaggio.
Non bisogna fare confusione, però. La questione è altra.
Se, infatti, non consideriamo l’interesse privatistico dell’autore, non possiamo dimenticare che l’ordinamento giuridico tutela le opere non solo (e non tanto) per il loro valore estetico o artistico, quanto, piuttosto, quali testimonianze di cultura e di un’evoluzione, anche storica, che merita di essere tramandata ai posteri.
Se si adotta tale prospettiva analitica, allora deve concludersi che sussista un interesse ultraprivatistico alla salvaguardia delle opere di street art, anche laddove le stesse non rispondano ai parametri del “bello”, oggettivamente considerato (ammettendo, assunto di per sé già fuorviante, che esista un’unicità estetica). Si pensi, a titolo esemplificativo, alle cosiddette tags, le firme che i graffitari appongono sulle metro, sulle saracinesche e così via: sono caratterizzate da ricercatezza e studio, sono originali e nuove, sono manifestate nella realtà esteriore e, pertanto, rispondono ai parametri fissati dalla legislazione sul diritto d’autore, anche se, verosimilmente, sono viste dall’opinione dominante quali meri scarabocchi, frutto di un semplice istinto vandalico.
Ora, se ci spostiamo oltre l’interesse del writer, autore della tag, che potrebbe ben ritenere che la propria opera sarà “coperta” e distrutta, e leggiamo questa ipotesi nella prospettiva pubblicistica, dovremmo considerare anche le implicazioni che l’opera ha quale espressione di un movimento culturale (troppo semplicisticamente derubricato a impulso giovanile) e quale rappresentazione di un momento storico.
Una (modesta) proposta
Di là da tale specifica ipotesi, la prospettiva che qui si vuole suggerisce travalica l’interesse privatistico (dell’autore o del proprietario del supporto), per migrare verso un interesse pubblicistico alle opere considerate meritevoli di essere tutelate e conservate.
Facciamo un passo indietro. Si è detto che la normativa americana impone un obbligo sul proprietario del supporto che, naturalmente, ha dei costi transattivi per il proprietario stesso, costi associati alla notifica e, ancor prima, all’individuazione dell’artista e così via discorrendo. Discutere sul se tale obbligo risponda a un criterio di equità per il proprietario del supporto, che normalmente non commissiona la realizzazione dell’opera e che, per dir così, la subisce, ci condurrebbe in una spirale senza uscita: per quale ragione dovremmo accettare che un proprietario, titolare del più sacro dei diritti sanciti nei codici moderni, debba tollerare una simile compressione del proprio diritto di proprietà?
La domanda è spinosa e rischia di palesare vedute antitetiche, tra di loro inconciliabili.
Tuttavia, se riflettiamo sugli strumenti e sulle istituzioni presenti a livello nazionale, ci appare un ostacolo facilmente aggirabile.
Sarebbe infatti sufficiente prevedere, a livello legislativo, che un proprietario, prima di demolire, danneggiare o, semplicemente, modificare un’opera, sia obbligato a rivolgersi alla Soprintendenza competente per territorio, domandando un’autorizzazione preventiva. La Soprintendenza, a sua volta, dovrebbe essere tenuta a rispondere al proprietario in un lasso di tempo circoscritto (un mese, per ricalcare gli esempi presenti nel nostro Codice per i beni culturali). Decorso detto periodo, dovrebbe valere un meccanismo di silenzio-assenso, in virtù del quale il proprietario è legittimato ad intervenire sull’opera, anche distruggendola.
Provando a immaginare le possibili critiche a tale proposta, fondate sulla mancanza di competenze specifiche in capo alle Soprintendenze in materia di arte contemporanea, si può tentare di ipotizzare una soluzione.
Si potrebbe, infatti, costituire, preferibilmente a livello nazionale, una Commissione di esperti, in grado di poter fornire una valutazione sulla sussistenza di un valore artistico o di un interesse culturale dell’opera considerata.
In questo modo, il proprietario del supporto sarebbe sgravato dei costi, nonché della relativa incertezza connessa all’individuazione dell’autore, il quale, spesso, come noto, non firma le opere con le proprie reali generalità anagrafiche, ma con uno pseudonimo.
Inoltre, si risolverebbe la annosa diatriba sul diritto di distruggere opere potenzialmente meritevoli di tutela.
Si tratta di una proposta. Non necessariamente una soluzione, ma pur sempre una proposta.
Giovanni Maria Riccio è Professore di Diritto dei beni culturali e dello spettacolo, Dispac, Università di Salerno.
Le fotografie che accompagnano questo post sono di Mauro Filippi.