Chi non ha mai maneggiato una cartella esattoriale, un modulo per la denuncia dei redditi, una comunicazione ministeriale o un esposto di svariate cartelle dove incollare infine, tra mille dubbi, una marca da bollo?
Chi non si è mai chiesto: perché l’Italia nutre una passione così viscerale per gli uffici, i faldoni e la carta? Si tratta forse di una passione alimentata dall’astio irriducibile per gli alberi? Forse intanto è arrivato il web, con la sua digitalizzazione, ma ciononostante la burocrazia non ha retrocesso di un millimetro anche in questa sua seconda vita immateriale ed elettronica. Questa è una doverosa chiosa per avvicinarsi e non rimanere scottati dall’incantevole attualità di Misteri dei ministeri, l’unico romanzo di Augusto Frassineti.
Il libro, che di pagina in pagina assume mimeticamente i caratteri del saggio scientifico, del brogliaccio amministrativo, e infine del dossier carico di testimonianze verosimili, viene stampato per la prima volta da Guanda nel 1952, anticipando in Italia quel pastiche postmoderno che oggi va per la maggiore.
Negli anni in cui la letteratura italiana di spessore era realismo, anzi neorealismo, l’approdo più funzionale a Frassineti per raccontare l’assurdo e parodiare il reale era esattamente questo: un libro scomponibile in più generi, dove trompe-l’oeil e tableau teatrale sono così smaccatamente visibili al lettore che l’effetto satirico paradossalmente viene esaltato. Non è un caso che di questa inusuale critica di costume si innamori la Longanesi, che nel 1959 lo ristampa, come non è un caso che Misteri dei ministeri trovi una nuova casa all’Einaudi di Calvino nel 1974, lo stesso Calvino che tra gli anni Cinquanta e Sessanta rinuncia a diventare un narratore realista per offrire nella sua maturità delle formidabili prove strutturaliste.
Eppure questo libro di Frassineti rimane intatto nella sua freschezza ancora oggi, nonostante il grande tourbillon teorico letterario che ha attraversato il Novecento. Grandezza del narratore o persistenza della materia trattata? Poco importa: il problema della “ministerialità” (della cattiva burocrazia tout court) che Frassineti affronta, è un problema che nessuno è riuscito ancora a risolvere. L’arbitrarietà e l’illogicità della burocrazia sono stati un grande male, anzi, il grande male che la macchina statale italiana ha dovuto affrontare fin dalla sua fondazione. La riforma della burocrazia inizia l’11 ottobre 1944 con Ugo Forti, e si conclude idealmente con l’istituzione nel marzo 1950 dell’Ufficio per la riforma dell’amministrazione: per tagliare l’eccesso di burocrazia, lo Stato implementa la stessa con un apposito ministro senza portafoglio incaricato dal presidente del Consiglio. Da lì non si contano i tentativi di riforma della ministerialità: dalla Riforma Bassanini, passando per l’incendio anti burocrazia di Calderoli, fino alle pie intenzioni del governo Renzi.
Se Frassineti avesse potuto vedere tutto questo, avrebbe rafforzato una delle tesi di fondo di questo suo romanzo così dirompente, e cioè:
gli Istituti come le persone sembrano intese soprattutto ad accumulare patenti di incredibilità e a farsi la satira da sé. Perciò l’essermi adoperato a suffragare le mie teorizzazioni dell’assurdo con documenti fittizi in tutto o in parte è stata un’operazione sbagliata. Avrei dovuto inventare di meno e copiare di più.
In questo passo c’è tutta la malinconia di certi narratori satirici: mentre il politico tende al futuro modificando il presente, questo tipo di narratori tende a descrivere ciò che non passa del costume e della moda, e lo racconta deformandolo in verosimiglianza, perché trattasi di materia sempre verde: vi è in lui un profondo pessimismo nell’uomo e in tutto ciò che ha creato. La burocrazia, la ministerialità, viene allora squadernata da Frassineti come una sorta di trattato di pneumatica, la scienza che studia gli spiriti e le loro facoltà immutabili, perché tra gli attributi propri della ministerialità vi è la persistenza, l’eternità di certe istanze utopiche proprie di Campanella.
La ministerialità di Frassineti si traduce quindi in una sorta di teologia imperscrutabile, dove le leggi e gli assunti vengono scoperti dai suoi malcapitati personaggi spesso a scapito della salute mentale, di quella fisica e naturalmente della salute dell’anima. Sì, perché la burocrazia sa essere all’occorrenza anche un totem muto: «il silenzio dell’amministrazione: specie di diaframma soprasensibile posto a difesa “dell’irrazionale amministrativo!”». È chiaro che la ministerialità, in questa veste tutto tocca e tutto attrae al suo campo di gravitazione.
Tuttavia Misteri dei ministeri non è un trattato su un altrove teologico alla Manganelli, e non ci parla nel delizioso italiano di Flaiano o Campanile, dove la gag spesso si esaurisce in un cortocircuito del linguaggio che scardina il luogo comune. Misteri dei ministeri è scritto nella lingua artificiale degli archivi di Stato, la stessa che scatena la risata involontaria. È infine un’irresistibile e divertentissima carrellata di tipi umani dove cialtronesco e machiavellico sono fusi così sapientemente che l’ordigno di Frassineti, una volta innescato, può solo esplodere in situazioni stravaganti e bizzarre, dove il verosimile attraversa l’assurdo e viceversa.
Insomma, con questo libro si muore dal ridere, e si muore letteralmente. Il poderoso esorcismo della burocrazia è servito, il lettore leggendo ride di gusto immedesimandosi nel suo (supposto) machiavellismo, ma piange scoprendosi una vittima della ministerialità, quella stessa burocrazia che ha reso tutti noi, almeno una volta nella nostra vita adulta, dei cialtroni in balìa di eventi inspiegabili.