Il tempo dei migranti: intervista a Jackie e Juvi

Dopo l’introduzione a “Il tempo dei migranti“, a cura di Stefano Rota dell’Associazione Transglobal, pubblichiamo oggi la seconda (qui la prima) delle tre interviste* dedicate al ruolo del tempo nei processi migratori.   

L’intervista che segue fa riferimento al secondo periodo che descrive il fenomeno migratorio in Italia e che prende avvio alla metà degli anni Novanta. Credo che possa essere identificato con la fase di consolidamento dell’Italia come meta dei flussi migratori già attivi, l’esplosione dei Paesi dell’Est europeo come nuova e sempre più importante area di provenienza e, allo stesso tempo, l’estensione di questa a Paesi dell’America Latina e ad altri Paesi africani. Non a caso, la legge quadro sull’immigrazione, conosciuta come Turco-Napolitano, è del 1998: rappresenta il primo tentativo legislativo di “sistematizzazione” del fenomeno migratorio (la precedente legge Martelli non può essere definita tale), di vincolare e regolare lo stesso sulla base di presunte esigenze di manodopera e di accordi con Paesi di provenienza. Sono gli anni in cui si consolida la “specializzazione etnica” di alcuni ambiti produttivi, la femminilizzazione di una parte consistente dei flussi. A livello socioculturale e politico, si diffondono e assumono un forte significato termini appartenenti a un “discorso razziale” che trova diritto di cittadinanza in ambito legislativo, amministrativo, lavorativo, scolastico, comunicativo. Sono anche gli anni in cui diviene pratica più o meno regolata e legale la cooperazione infrastrutturale tra attori che agiscono a livello internazionale – nei Paesi di partenza, in quelli di transito e in quelli di destinazione – per fare delle migrazioni un fenomeno il più possibile vincolato e organizzato sul modello del “just in time”.

 

Nel ventre del drago – conversazione con Jackie e Juvi

Giugno 2015

Quella che segue, più che un intervista, si potrebbe descrivere come la scrittura a tre mani – una di Jackie, una di Juvi e, in misura minore, una mia – di un breve resoconto sul modo in cui le migrazioni dalle Filippine si dispiegano e vivono nell’attraversamento di confini e lungo rotte più o meno consolidate, ribadendo quel grado di incertezza che caratterizza da sempre, ma con una crescita direttamente proporzionale a quella della globalizzazione, le migrazioni.

Due elementi importanti risaltano all’interno della conversazione. Il primo è costituito dall’apparato infrastrutturale che, con gradi diversi di “legalità”, governa le migrazioni, come è stato ben descritto da Xiang e Lindquist in un articolo su International Migration Review[1]. Il ferreo e dispotico regime che regola la vita di fabbrica e la sua appendice del dormitorio è il secondo aspetto che viene messo in evidenza[2].

Un altro aspetto accomuna le storie qui riportate a quelle di altre centinaia di migliaia di cittadini: la prima migrazione diviene funzionale a una seconda (terza, nel caso di Juvi) migrazione verso un altro Paese. I progetti migratori vivono della continua tensione che si crea tra soggettività, propensioni dei migranti e i sommovimenti che agitano la composizione e ricomposizione globale dei processi produttivi e le logiche di governance che la presiedono. Accompagnare il termine “migrazione” con un numero ordinale consente di mantenere aperta questa prospettiva in chiave epistemologica.

La conversazione con Jackie e Juvi si è svolta in inglese. Ciò significa che il racconto, nel passaggio dal loro vissuto alle pagine di Frontiere News, ha subìto due traduzioni. Non si tratta di un elemento di poco conto, visto il carattere sempre ambiguo e “violento” che ricopre la traduzione in sé, come ha argomentato recentemente Étienne Balibar in un articolo per il blog di Transglobal su Frontiere News.

Me ne scuso, in primo luogo, proprio con Jackie e Juvi.

Da Manila a Taipei

Juvi: Quando ho deciso di partire ero ancora minorenne, quindi non potevo. Mia sorella era a Taiwan e vedevo tutte le cose che poteva comprare, i soldi che mandava a casa e volevo fare la stessa cosa.

Ma io volevo partire subito, quindi ho pensato che l’unico modo era quello di comprare un nuovo nome. Nessuno voleva prestarmi il suo, quindi una persona mi ha aiutato a cambiare la data di nascita. Ho fatto un nuovo certificato di nascita con un anno in più. Ho fatto domanda in molte agenzie di recruitment specializzate per lavoratori che vogliono andare a Taiwan. Ma funzionano anche per altri Paesi, soprattutto i Paesi del golfo.

Mi hanno convocata: ho dovuto fare un’intervista ed esercizi fisici, per mostrare che ero in grado di sopportare la fatica. Poi ho dovuto fare un controllo medico: se hai il verme solitario non ti prendono, perché i cinesi dicono che se ce l’hai, sei pigra e non lavori. Ho dovuto pagare (nove anni fa) 100 euro per il cambio del certificato di nascita, 25 euro per le visite mediche e 2.500 euro per l’agenzia. L’ultimo passaggio è l’ottenimento di un documento che è siglato tra i due Paesi per consentirti di lasciare le Filippine.

Jackie: Dopo, ti fanno fare un corso di orientamento che ti prepara alla vita in Taiwan, ti insegnano le cose principali per chiedere informazioni in cinese e altre cose basiche, che riguardano la vita di tutti i giorni. Il giorno della partenza, ci si incontra in un gruppo all’aeroporto (sono tutti lavoratori che hanno fatto lo stesso percorso). In tutto, ci vogliono oltre due mesi per svolgere il processo.

Jackie: Appena arrivi a Taiwan, ti portano subito all’ospedale, dove ti fanno un check up completo, perché hanno paura che le persone paghino nelle Filippine per passare il test medico. Dopo di che, ti informano su qual è il tuo posto di lavoro, ti dicono il nome dell’azienda e ti trasportano al dormitorio. Per arrivare a questo punto, abbiamo speso in tutto 3.500 euro a testa.

Appena arrivati, ci hanno preso i documenti, che restano con l’agenzia. A quel punto, siamo solo dei lavoratori, non siamo più persone con un documento.

Il pagamento avviene tramite l’agenzia di recruitment: ricevono i soldi dall’azienda, che trattiene però una parte, (circa 100 euro al mese) e che ti danno solo a fine contratto. Questo prelievo forzato ha il senso di legare la persona al lavoro e all’azienda, ma anche quello di farti sentire un investitore nell’azienda stessa e, ovviamente, di farti sentire che ti sta aiutando, perché sta risparmiando soldi per te. Sono tre elementi importanti nella nostra cultura, che tutti riconoscono e accettano. Ci fanno sentire una risorsa per il loro capitale. I nostri soldi ci vengono dati alla fine del contratto, senza nessun interesse, anche dopo tre anni, dentro all’aeroporto, non prima. Questo per essere sicuri che non ci si fermi lì oltre la scadenza del contratto. Te li danno cash e tutti sanno, quando arrivi a Manila, che chi arriva da Taiwan ha una grossa somma cash con sé; è molto pericoloso.

I confini della fabbrica

Juvi: il primo giorno di lavoro, ti cambiano il nome, ti danno un nome cinese (sono ancora capace di scriverlo); è il nome che ti identifica all’interno dell’azienda e nella tua vita a Taiwan, non essendo in possesso dei nostri documenti, ma unicamente della tessera dell’azienda.

Il giorno dell’arrivo, dopo l’ospedale, ci hanno portati al dormitorio. È una struttura grande, di proprietà dell’azienda, con stanze dove dormono minimo quattro persone. Nel dormitorio, non puoi cucinare: l’azienda ti dà la prima colazione e altre poche cose, soprattutto latte, che noi non bevevamo, perché era troppo. Nel dormitorio sono alloggiati i lavoratori provenienti anche da altri Paesi: Vietnam, Indonesia, Thailandia. Ci dividono per nazionalità. Ci sono regole precise nei dormitori, che devono essere rispettate. È l’agenzia di recruitment che manda delle persone a controllare di notte. L’agenzia è responsabile del nostro comportamento durante il soggiorno a Taiwan. Se fai qualcosa che non va bene, ti danno un warning sheet. Hai ha disposizione tre warning sheets: alla terza, sei licenziato, ti vengono a prendere al dormitorio, ti portano all’aeroporto in un’ora. Non so se ti ridanno i soldi che hanno trattenuto mensilmente, nel caso in cui sei licenziato.

Jackie: L’azienda impiega lavoratori locali e migranti. La maggior parte è costituita da questi ultimi, perché i locali lavorano solo nel turno diurno, mentre i migranti sono concentrati negli altri due turni.

Juvi: Alcune aziende, come Asus, dove ho lavorato nella mia prima migrazione a Taiwan, sono localizzate in campagna. Lì è molto difficile vivere, perché sei sempre attaccata all’azienda. La mia vita era solo lavorare, dormire e mangiare. C’era un mercato notturno, ma dovevi andarci in gruppo, perché era pericoloso. Nel secondo lavoro, alla Lindsen, dove abbiamo lavorato insieme io e Jackie, era diverso: dentro a una città, con la possibilità di uscire, andare al cinema, a mangiare fuori. Abbiamo fatto anche alcune amicizie con delle ragazze cinesi.

Jackie: I cinesi non ci discriminavano sul lavoro, anche il caposquadra, fuori dal lavoro, era molto amichevole con noi. Ma questo era nove anni fa, adesso mi hanno detto che è differente.

Juvi: a Taiwan, potevi lavorare solo tre anni, poi te ne dovevi andare e non potevi più tornare. Se volevi tornarci, dovevi cambiarti il nome o prendere in prestito il nome di un’altra persona che non intende andarci. Io l’ho fatto, ho cambiato il nome per tornarci la seconda volta. Ho dovuto pagare di nuovo la persona che mi aveva cambiato la data di nascita. Questo era la situazione prima: adesso puoi lavorarci fino a nove anni, ma sempre per periodi di tre anni ciascuno. Il processo però non è cambiato: ogni volta devi pagare l’agenzia, fare le visite mediche e pagarle. In più, le condizioni sono peggiorate: non hai più il cibo gratis, te lo trattengono dal salario, e altri benefits. In compenso, il salario è un po’ più alto.

Juvi: Lavorare in Asus e lavorare in Lindsen è molto diverso. In Asus è molto più dura. Ci sono molti reparti: io lavoravo in quello delle schede madri. Lavoravo a una macchina, un lavoro durissimo, perché devi stare sempre in piedi, controllando ogni pezzo che la macchina inserisce nella scheda madre. Dovevo controllare che la scheda madre fosse a posto. Se una scheda passa e non va bene e arriva così al cliente, il manager si arrabbia tantissimo. Io ho passato 3.000 schede madri a HP e alcune non andavano bene. Il “line leader” mi ha detto: «Se il manager si arrabbia, non dire niente, stai zitta». Il manager è venuto e mi ha detto, urlando: «Se capita di nuovo, devi pagare. Ti faccio vendere la tua casa nelle Filippine». La pressione è altissima, perché il reparto dove lavoravo è il primo passaggio per fare un pc.

In Lindsen non è così: stai seduta con gli occhi incollati al microscopio usi le dita per produrre i microchips. Se fai un errore, ricevi un primo avviso. Al terzo, sei fuori. La differenza in Lindsen è che lavoravamo sedici ore, e poi altre sedici ore, che tu voglia o no. Non in tutti i reparti si lavora sedici ore.

Jackie: Sì, io lavoravo solo otto ore, perché ero al controllo finale dei prodotti e il mio compito era di valutare in quale reparto avevano fatto un errore e fare rapporto al mio capo. Da lì, il pc passa al QC (quality control) e quindi al cliente. Il QC occupa solo cinesi. Se qualcosa non va bene, la colpa ricade sul mio reparto.

La cosa più brutta che mi è capitata è stata quando un’altra lavoratrice aveva già due avvisi, quindi un terzo avrebbe significato il suo licenziamento. Loro tendevano a metterci uno contro l’altro, ci obbligavano a essere molto duri se qualcuno faceva un errore. Questa persona ha fatto un terzo errore. Io mi sono presa la colpa per non farla licenziare (era una donna anche lei filippina). L’agenzia di recruitment avrebbe saputo che io ho fatto un errore. È l’agenzia la principale responsabile per i lavoratori: c’è un legame molto stretto tra agenzia e azienda: questa fa totale affidamento sulla prima per il comportamento dei lavoratori.

 

Verso l’Occidente

Jackie: Io sono arrivata in Italia nel 2006: mi ha invitato una nostra amica. Mi ha detto «perché invece di fare richiesta per andare negli USA non vieni qui?» Per venire in Italia non ci sono le agenzie di recruitment come mediatori. Mi ha aiutato una persona, credo che fosse del Perù. Lui ha fatto avere il mio visto alla sorella della mia amica. Gli ho dovuto dare 5.000 euro. Questa persona ha un ufficio in Sud America e l’ho contattato via mail. Tutto si è svolto in questo modo, non l’ho mai visto. Queste persone hanno amici negli uffici dell’immigrazione, dove ottengono un visto per l’area Schengen con poche decine di euro.

Il percorso per arrivare in Italia è stato molto lungo. Sono arrivata a Hong Kong, dove dovevo aspettare altre indicazioni su come procedere. Da lì, mi hanno fatto arrivare in Marocco, sempre come turista. A Casablanca è arrivata una persona che doveva dare il visto per Schengen. Dal Marocco, però, mi hanno detto che dovevo andare in Egitto, dove finalmente mi hanno dato il visto da mettere sul passaporto. Dall’Egitto, ho preso un volo per la Svizzera e sono quindi entrata in Italia. In questi passaggi, ho dovuto pagare tutto io: i trasporti, l’hotel dove dormivo. Ho speso una fortuna. Più di 10.000 euro. Tutto quello che ho guadagnato a Taiwan se n’è andato così.

Juvi: per me è stato molto più difficile. Mi ha aiutato un filippino, che per il viaggio e il visto mi ha chiesto 6.000 euro. Quando sono arrivata a Hong Kong, lui non aveva contatti e mi hanno portata all’Immigrazione. Gli ho detto che avevo un volo per il Brasile e dopo alcuni giorni sono riuscita a partire. Il volo era diretto in Francia, dove avrei dovuto prendere il volo per il Brasile, ma non era vero, era solo un modo per arrivare in Francia. Il mio visto era nascosto in una penna a sfera. Quando ero in aeroporto a Parigi, e ho aperto la penna per prendere il visto, mi sono accorta che sul visto non c’era scritto niente! Era finto! Capisci? Mi avevano truffato e rubato tutti i miei soldi! Mi hanno portato all’Immigrazione anche lì e mi hanno detto che dovevo trovarmi un avvocato. È costato altri 3.000 euro, che mi hanno dato le mie amiche (Jackie e quella che era già in Italia). Alla fine sono riuscita a entrare in Italia senza visto.

 

Dei due aspetti menzionati all’inizio (infrastrutture delle migrazioni e sistema della fabbrica allargata), vorrei provare ad articolare qualche breve riflessione solo sul primo, alla luce delle significative parole di Jackie e Juvi.

Gli autori sopra citati, Xiang e Lindquist, definiscono la “migration infrastructure” come l’insieme di «tecnologie, istituzioni e attori che, sistematicamente interconnessi tra loro, facilitano e condizionano la mobilità» (pag. 124, trad. mia). Le infrastrutture di cui si parla in quell’articolo sono esattamente le stesse che hanno facilitato e condizionato le pratiche di mobilità di Jackie e Juvi, sia verso Taiwan, sia verso l’Italia: commerciali (l’agenzia di recruitment), regolatorie (strutture pubbliche di vario livello e natura, burocratiche, sanitarie, formative), tecnologiche e finanziarie (gli operatori di telefonia, i sistemi di invio di denaro, eccetera). «Non sono i migranti che migrano» scrivono i due autori «ma una costellazione fatta di migranti e non-migranti, di attori umani e non-umani. [Questo conduce] a un processo di “involuzione infrastrutturale”, in cui le infrastrutture delle migrazioni diventano auto-riproduttive e autoreferenziali» (pag. 124, trad. mia).

Questo modello è lo stesso che il Ministero del Lavoro e la sua agenzia Italia Lavoro sta usando nel promuovere il sistema migratorio basato su accordi bilaterali con Paesi terzi, formazione in loco per la lingua italiana e orientamento professionale, reclutamento di mano d’opera.

La patina di “legalità” contribuisce a far percepire le migrazioni che si dispiegano all’interno di questo sistema come regolari, libere e meglio finalizzate. L’impressione è che alla base vi siano quelle logiche di autoriproduttività e autoreferenzialità delle infrastrutture che si è detto prima, le quali non tengono conto – ma non potrebbe essere diversamente – di quello che le centinaia di migliaia di Jackie e Juvi mettono in evidenza quotidianamente: la soggettività migrante e il carattere non addomesticabile, imprevedibile e “sublime” delle migrazioni.

Note

[*] Le interviste sono già apparse, in altra forma sul blog Transglobal di Frontiere News.

[1] B. Xiang, J. Lindquist, Migration Infrastructure, in Migration International Review, Volume 48, n. S1, 2014

[2] Tra i molti contributi: P. Ngai, Chinese Migrant Women Workers in a Dormitory Labour System, P. Ngai, Cina, la società armoniosa. Sfruttamento e resistenza degli operai migranti, Jaca Book, Milano (a cura di D. Sacchetto e F. Gambino), 2012,  P. Ngai et al. Nella fabbrica globale. Vite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn, Ombre Corte, Verona, 2014. Prefazione all’edizione italiana di D. Sacchetto e F. Gambino

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