“La grande straniera. A proposito di letteratura” (Cronopio, 2015) raccoglie alcuni interventi di Michel Foucault dedicati al rapporto tra letteratura e filosofia.
Discutendo de L’archeologia del sapere di Michel Foucault, Gilles Deleuze suggerisce:
Può darsi che in quest’archeologia […] Foucault faccia il poema della sua opera precedente, e raggiunga il punto in cui la filosofia è necessariamente poesia, vigorosa poesia di ciò che è detto, contemporaneamente poesia del non senso e poesia dei sensi più profondi. In un certo modo Foucault può dichiarare di non aver mai scritto che opere di finzione: poiché […] gli enunciati somigliano a dei sogni, e, come in un caleidoscopio, tutto cambia a seconda del corpus considerato e della diagonale tracciata. Ma, d’altra parte, egli può dire anche di non aver mai scritto altro che il reale e con il reale, poiché nell’enunciato tutto è reale, e ogni realtà vi è manifesta. (G. Deleuze, Foucault, Cronopio, Napoli 2008, pp. 33-34)
Scavando in questa nota è possibile reperire un’ambivalenza che forse struttura in maniera decisiva l’intera opera di Foucault, nell’ampia e mobile localizzazione costituita dal rapporto che il filosofo nato a Poitiers intrattiene con la letteratura, ossia in quello spazio circoscritto eppure mai statico dell’edificio del suo pensiero in cui possiamo situare le disposizioni che lo portano a pensare in un certo modo le opere di finzione nella loro singolarità e nel loro fondamento generale. È proprio di tale rapporto che il volume da poco pubblicato dalle edizioni napoletane Cronopio, La grande straniera. A proposito di letteratura, intende dibattere già a partire dal titolo. Si tratta di una raccolta di alcuni interventi di diverso genere (due commenti radiofonici e due conferenze universitarie), tenuti da Foucault tra il 1963 e il 1970, che proprio di letteratura parlano, dando conto di cosa questa significhi per il filosofo, nel segno dell’ambivalenza già in parte individuata da Deleuze.
Come sottolineano i curatori del volume nella puntuale Presentazione a corredo del testo:
Foucault è […] portato a sostenere simultaneamente, a far giocare nel contempo una non-specificità della letteratura, ma anche la sua centralità strategica: nel primo caso – l’inchiesta archeologica – la letteratura non possiede alcuna specificità rispetto alle altre produzioni discorsive (atti amministrativi, trattati, frammenti di archivi, enciclopedie, opere sapienti, lettere private, giornali…); nel secondo – i “testi letterari” – si tratta di dire, all’interno della letteratura stessa, un certo rapporto, una postura e una serie di procedure di scrittura che, dandosi in una forma particolare, generano un’esperienza di disordine, o la messa in opera di una rottura: una matrice di cambiamento, un operatore di metamorfosi (p. 11).
In questo secondo senso la letteratura, come gesto volontario, estremizzando l’“ipotesi finzionale” di Deleuze e portandola dunque a toccare il suo opposto (l’enunciato che somiglia a un sogno ricade concreto sul reale), può arrivare a rappresentare un catalizzatore di lacerazioni discorsive, forse addirittura ponendosi come vettore di soggettivazione, una «strategia […] che passa attraverso una battaglia contro l’egemonia del senso» (p. 12), in linea con il registro guerresco che sovente supporta le dimostrazioni foucaultiane.
Tra gli interventi che il libro ci offre in traduzione italiana, di particolare interesse risulta la conferenza sul Marchese de Sade tenuta da Foucault a Buffalo, nell’Università dello Stato di New York, nel 1970. Non è di certo il suo oggetto a rendere memorabile la conferenza, d’altronde Sade è stato un argomento privilegiato nella filosofia francese del Novecento: si pensi, tra gli altri, a Klossowski (Sade prossimo mio, del 1947), Blanchot (Lautréamont e Sade, del 1949), Bataille (L’erotismo, del 1957) e Deleuze (Il freddo e il crudele, del 1967). È piuttosto la sua esemplare conduzione a darle rilievo, poiché grazie a essa possiamo renderci conto di cosa la letteratura sia in buona parte del sentire di Foucault. Dunque, tralasciando gli altri e pur importanti interventi raccolti nel libro La grande straniera (interventi che da parte loro si soffermano, tra gli atri, su autori universali quali Artaud, Shakespeare e Cervantes), è proprio sulla conferenza su Sade che qui ci soffermeremo, rimarcandone come abbiamo già anticipato il suo valore esemplificativo per ciò che riguarda i rapporti generali intrattenuti da Foucault con la letteratura.
Nella lunga ermeneutica sadiana d’oltralpe, con la sua Conferenza su Sade, a partire soprattutto dalle pagine febbrili di Juliette e Justine, il nostro filosofo discute dell’opera del divin marchese esattamente in termini di rottura, di «battaglia contro l’egemonia del senso» (vero è che Sade è presente nelle riflessioni di Foucault già a partire da Storia della follia nell’età classica, pubblicato in prima edizione nel 1961).
Ne viene fuori che l’opera dello scrittore francese non è un manifesto del libertinaggio le cui ragioni stanno nell’analisi, nella promozione e nella diffusione di una sessualità svincolata dalle pastoie della morale e del vivere cortese. Essa rappresenta invece un disegno più esteso che, ponendo il desiderio in relazione con la verità, discute di legge, di Dio, dell’uomo e delle sue convivenze. Quello di Sade appare dunque come un tentativo feroce di definire fratture tramite una leggibile e piuttosto coerente proposta in cui a partire dal detto letterario, prima ancora che da altre azioni concrete, si cerca di dar vita a uno sguardo di ordine filosofico desideroso di posizionarsi finanche sul pianale spinoso dell’etica: la pratica della scrittura, in questo processo, acquisisce un valore decisivo in quanto atto che lo caratterizza a fondamento.
Infatti, sottolinea Foucault, Sade è uno che «prende la scrittura sul serio» (p. 111). Nelle sue pagine, frutto di un lavoro massimalista e recluso, spesso castigato dal giogo costante dell’Ancien Régime, spesso fonte di carcerazioni più o meno lunghe, la scrittura si dà uno specifico compito: pervertire il reale fino ad arrivare al punto da ricadere sulla realtà medesima con le sue proposte sovvertitrici dell’ordine, e da lì ripartire. Ecco che Sade, per supportare questa sua strategia, elimina ogni limite temporale all’interno della sua narrazione: si pensi alla ripetizione estenuante delle stesse situazioni e degli stessi capricci che ha luogo in Justine e Juliette, come Foucault sottolinea nella conferenza; oppure anche alla condensazione estrema, all’ampliamento vertiginoso degli eventi nell’unica giornata de La filosofia nel boudoir.
In Sade, in altri termini, la scrittura diventa una pratica allo stesso tempo squisitamente soggettiva ed essenzialmente politica; dalla cattività della prigione o in sua previsione essa rappresenta «il principio dell’eccesso e dell’estremo: colloca l’individuo non soltanto in una singolarità, ma in una solitudine irrimediabile» (pp. 119-120). Così facendo, nell’estremizzazione del superamento del limite, la scrittura rende evanescente, irriconoscibile e infine inesistente il confine che di solito è posto tra la criminalità e il suo contrario, tra l’azione morale e il suo contrario. L’opera di Sade può quindi essere vista come una sorta di spazio dalla misura indefinita che vive e si edifica in ragione del sovvertimento del limite, della sua neutralizzazione, cioè in ragione di un principio che ora acquisisce schietta valenza politica.
Tutte le pagine di Sade, secondo Foucault, sarebbero così tese alla definizione di cinque leggi fondamentali che appaiono nella ripetizione di cui si è detto e nell’alternanza tra le estenuanti scene di sesso crudele e i discorsi assertivi che le preparano o seguono: 1) Dio non esiste; 2) l’anima non esiste; 3) la legge (quindi il crimine) non esiste; 4) la natura non esiste, o meglio esiste sotto l’imperativo della distruzione che la costituisce: essa è dunque essenzialmente malvagia; 5) l’individuo non esiste.
Siamo di fronte a cinque leggi che, grazie al grado di mondanità crescente al quale rispondono nel loro porsi in sequenza, intendono primariamente affermare una verità, e secondariamente dimostrare che la condotta del libertino, che sottostà a un sistema di equilibri nient’affatto immediato, non ha nulla di atroce, poiché l’atrocità non ha logicamente luogo nei termini che normalmente le si concedono, dato che questi termini non sono più gli stessi con cui si discute nell’ambiente sospeso di un’opera senza tempo, ma sono radicalmente dissimili. In tal modo la condotta del libertino, primo personaggio nelle narrazioni di Sade, risponde alla natura soltanto, essa vive e si dipana in quello spazio (o in quel tempo) smisurato del superamento del limite che le leggi, l’anima e Dio hanno stabilito per l’uomo all’interno di un sistema di lunghissime imposture. E tali lunghissime imposture, va da sé, sono quelle dell’Ancien Régime e del pensiero di quello che fino ad allora era l’Occidente. Proprio in questo ganglio si evidenzia con forza la «centralità strategica» dell’opera di Sade, promotore di una verità di rottura.
Lungi così dal presentarsi come testo a-specifico, partendo dall’esempio di Sade ci rendiamo conto con Foucault che l’opera letteraria pullula di un’autorevolezza, forse di un vigore, che altre produzioni discorsive non hanno. La letteratura diventa così filosofia, sovvertendo quell’altro limite abbastanza mobile che sussiste tra i due ambiti. O meglio, se è la letteratura a porsi in sé come rottura all’interno dell’opera di Foucault, si può magari immaginare che il rovesciamento possa essere un altro, e che sia la filosofia ad adeguarsi alla letteratura, prendendone in prestito il metodo esemplare. È un gioco senza dubbio di gusto borgesiano, questo, che forse può essere giocato soltanto allorquando si dica che nella filosofia, così come nell’opera di finzione, non c’è nulla di necessitante, non c’è, di nuovo, alcun limite, poiché lo spazio che esse occupano è illimitato, e così il tempo.
E allora l’inchiesta archeologica foucaultiana, quella che al contrario del testo letterario mette sullo stesso piano «atti amministrativi, trattati, frammenti di archivi, enciclopedie, opere sapienti, lettere private, giornali» nel gigantesco anonimato del “si” impersonale, potrebbe essere letta a sua volta soltanto come un’ulteriore ipotesi finzionale à la Deleuze e nulla di più, un quadro coerente e dilatato fino alla dismisura in cui l’autorialità del mondo si estende in un soggetto unico che non è più soggetto: cioè esattamente la letteratura. Sarebbe quindi proprio «la grande straniera», la letteratura, a trascinare con sé la filosofia e tutte le altre produzioni discorsive in modo da inglobarle in un grande contenitore senza tempo né spazio all’interno del quale sono valide regole nuove, morbide e per lo più procedurali. E tutto ciò che si dice, si scrive, si annota e si commenta, allora, non sarebbe altro che letteratura.