Meticcio. L’opportunità della differenza

Pubblichiamo alcuni estratti del libro “Meticcio. L’opportunità della differenza” di Bruno Barba edito da effequ. Un manifesto del meticciato contemporaneo: una riflessione cruciale per il nostro tempo, un’affilata antropologia dell’in-differenza.

Cosa ci sfugge, cosa non riusciamo a capire? Dovremmo forse rintracciare il segno di un ‘gioioso’ incontro di civiltà su occhi impauriti, facce segnate talvolta da rituali tribali, talvolta da percosse? C’è forse il segnale di un nuovo ordine mondiale, di una benefica calata – anzi, ascesa, visto che queste avanguardie arrivano da sud – che irrorerà la nostra stanca Europa, la nostra sterile Italia, la nostra sonnacchiosa e reazionaria cultura? La risposta, nonostante quello che si potrebbe pensare, è sì.

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Non c’è nulla di più errato della credenza che le culture siano ‘autosufficienti’: non soltanto, quindi, sistemi chiusi e pressoché perfetti, ma addirittura refrattari all’idea che qualcosa, e qualcuno, possa giungere da fuori a ‘contaminarle’.
Le culture sono ridiscussioni, riproposizioni, un insieme di errori e di esperimenti riusciti, di lentissime acquisizioni e di illuminazioni improvvise, un sistema ibrido di interconnessioni.
Parlare di ‘emergenza’ (emergenza accoglienza, emergenza immigrati) è, oltre che riduttivo, fuorviante, futilmente allarmistico: occorrerebbe piuttosto parlare di futuro, organizzandolo e di conseguenza pianificandone gli effetti.
Chi migra lo fa raramente per desiderio, molto più spesso ne è costretto dal bisogno, dalla disperazione, dalla necessità; vi sono fattori di spinta (push) e fattori di attrazione (pull) che fanno dei paesi occidentali una sorta di attraenti calamite. Troppi motivi, troppe occasioni, troppi segnali, troppa gente, soprattutto, per liquidare la faccenda dichiarando che “bisogna fermarli”. Bisogna governare, invece, come opportunamente ricorda il socio- logo Stefano Allievi nel suo recente Immigrazione: cambiare tutto. Perché l’immigrazione non è un fenomeno che può essere letto con la logica dello schieramento ideologico: implica vantaggi e svantaggi, porta con sé problemi facilmente risolvibili e problemi molto più complessi.
Per accogliere occorrono meccanismi di inclusione, che valgono tanto per gli immigrati quanto per gli autoctoni; il revival etnico proposto da un multiculturalismo naif e acritico porta, di contro, all’incomunicabilità.
Sotto qualunque prospettiva lo si affronti, il tema dell’immigrazione è legato, nella nostra epoca, alla percezione del razzismo. Perché i recenti fenomeni migratori – o meglio, la recente strumentalizzazione politica e ideologica di un fatto che è universale ed eterno, la percezione che si tratti invece di evento esclusivamente problematico e pericoloso – fanno emergere un dato allarmante: la nostra cultura è razzista. La narrazione dei nostri giorni mostra preferibile la semplificazione ondivaga, banalizzatrice, politicamente maggioritaria. Addirittura periodicamente viene chiamato in causa il piano Kalergi, e con che zelo, senza che il ludibrio colpisca chi veicola tali falsità.
Si ipotizza l’arrivo di una sorta di ‘esercito di riserva’: in questo senso i migranti sarebbero lo strumento occulto di un qualche piano del capitale per sfondare il potere d’acquisto e la forza negoziale dei lavoratori nostrani, ignorando che il vero sfondamento della forza lavoro è avvenuto fin dal passaggio agli anni ’80 ben prima che iniziassero i flussi di popolazione, e ha usato come ariete non i corpi dei poveri ma la tecnologia dei ricchi, elettronica, informatica, smaterializzazione del lavoro, frammentazione della composizione manuale che sopravviveva. Fu allora che si consumò la sconfitta storica del lavoro in Occidente. Da allora la questione sociale e quella morale (o umana) sono andate divaricandosi sempre più, fino a oggi, quando finiscono per contrapporsi, quasi che per stare vicino ai nostri ‘proletari’ occorresse respingere gli altri, riconfigurati per l’occasione come ‘non-proletari’. Col risultato che rischiamo di avere oggi ‘socialisti senza umanità’ e ‘umanitari senza socialità’.
Nel farci credere che questo della migrazione sia un fenomeno imprevisto e imprevedibile e soprattutto ingovernabile, i governi dimostrano insipienza e malafede. È così che si invocano le misure di emergenza e si scaricano responsabilità: l’Europa, gli enti e le comunità locali, le prefetture, tutti costretti a ricercare qualche edificio degradato, qualche ghetto, già in sofferenza, dove aggiungere tensioni, disagio, rigurgiti razzisti.
E invece andrebbe detto che gli immigrati non sono un costo eccessivo per il welfare, e neppure in assoluto; che costituiscono il 10,5% dei lavoratori con un tasso di occupazione più elevato degli autoctoni perché l’età media (33 anni) è nettamente inferiore rispetto ai 45 degli italiani; che la concorrenza tra i poveri – la reazione dei migranti regolari contro i nuovi arrivati viene usato come argomento polemico – è un topos nella storia delle migrazioni; che allo stato attuale la distinzione tra migranti economici e rifugiati è capziosa, soggettiva, inutile e controproducente.

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In un memorabile testo, L’invenzione delle razze, il genetista Guido Barbujani ricorda che da un punto di vista genetico la razza è appunto un’invenzione, peraltro un’invenzione pericolosa. Basta la lettura di un passo per smantellare anni di credenze – queste sì, magiche e primitive – legate al concetto di razza, e per illuminarci su un fatto tanto semplice e ovvio quanto per molti davvero sconvolgente: siamo tutti parenti, in questa terra.

Siamo sei miliardi e mezzo sulla terra, ma fino ai primi dell’Ottocento eravamo meno di un miliardo, e intorno ai 150 milioni (milione più milione meno) duemila anni fa. Ora, come sappiamo bene, ognuno di noi ha due genitori, quattro nonni e otto bisnonni […]. Questo significa che 10 generazioni fa, circa 250 anni fa, ognuno di noi aveva un migliaio di antenati (1024 per la precisione), ognuno dei quali, a sua volta, aveva un migliaio di antenati 250 anni prima. Allora, facciamo un po’ di conti. Ciascuno di noi discende da un milione di antenati vissuti ai tempi dei viaggi di Colombo, da un milione di milioni di antenati nell’anno 1000, e parecchi miliardi di miliardi all’epoca di Cristo. Come è possibile? […] Questi sono antenati virtuali e non persone diverse […]. Perché la nostra genealogia possa star dentro alla popolazione umana, siamo costretti ad ammettere che moltissimi dei matrimoni da cui attraverso i millenni deriviamo siano matrimoni tra consanguinei, che magari non lo sapevano, ma che comunque discendevano da antenati comuni […]. Vuol dire soprattutto che molti dei miei antenati erano anche gli antenati di chiunque leggerà questo libro.

Diretta conseguenza: siamo tutti meticci e impuri, da secoli. Come già detto, gli esseri umani condividono il 99,9% del patrimonio genetico e soltanto lo 0,1% non può essere tanto condizionante da rimandare a distinzioni così nette e discriminanti.

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L’ossessione classificatoria e riduzionista trascura il fatto che le culture non sono insiemi coerenti, omogenei e soprattutto nettamente distinti; e che non può esistere più – se mai è esistito – un rapporto di corrispondenza tra gruppi e culture. Dobbiamo avvalerci, come dice Anderson, della nostra immaginazione e ricrearci un mondo di condivisioni, di identità mutevoli. Al contrario, credere alle identità pure e dure ha reso possibile la creazione di sistemi quali l’apartheid, la segregazione, la discriminazione perpetua: una nuova, e forse ancor più crudele forma di schiavitù. Credere che una cultura sia un insieme chiuso, integro, circoscrivibile e quindi descrivibile, è l’errore in cui la maggior parte degli uomini della terra incorre, eppure una tale distorsione è stata inconscia- mente indotta anche dagli studi antropologici, fino a che non si è cominciato – molto tardivamente – a introdurre i discorsi su contaminazione, ibridismo, sincretismo e meticciato.

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Pitture, canti, danze, miti, riti, sono stati ovunque strumento di trasmissione, montaggio, traduzione di concetti e immagini universali, vere proliferazioni di visioni, tutt’altro che selettive, anzi polisemiche. Pensiamo, ancora una volta, al cristianesimo lirico e ammorbidito al sole dei tropici, a quella religione ammantata di reminescenze falliche e animiste che accompagna la formazione della cultura brasiliana nelle piantagioni. Angeli barocchi, visi meticci ed espressivi che mostrano divertimento, donne lascive e sante gravide: cosa ci raccontano questi ricordi pagani, questa religiosità ‘corporale’ se non l’insopprimibile voglia, tendenza, aspirazione, tutta umana e imperfetta, verso la costruzione culturale meticcia? Il cattolicesimo della purezza e dell’astrazione si trasforma così in qualcosa di ‘urgente’, flessibile, aperto: ammicca alla magia, ma soprattutto vuole spezzare non tanto la ragione occidentale, ma piuttosto lottare contro i suoi limiti e le sue contraddizioni. Non ci sono insomma verità immutabili e assolute.

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In realtà per prendere a modello quella che definiremo ‘filosofia meticcia’ occorrerebbe superare finalmente le nostre categorie, le nostre polarità interpretative che ci condannano all’incomprensione dell’altro. Questo ho appreso dal Brasile-cultura: che nulla è omogeneo o disomogeneo, che non esistono il bianco e il nero, non un popolo completamente ‘civilizzato’ all’europea (ecco i guasti della civilizzazione) e neppure un popolo completamente incolto. E gli uomini non sono mai completamente buoni o totalmente malvagi. Le parole nuove che ci insegna la modernità, anzi questo Brasile, sono interconnessioni, antropofagia, transculturazione, curiosità perpetua, inesauribile avanguardia artistica. Questi termini, così come bastardo, ibrido, impuro, esistono nel nostro linguaggio, nelle nostre narrazioni, ma rimandano a episodi, fatti e persone marginali e discriminati. Essere meticcio non omologa, non relega, non rende opachi, e neppure frammenta le identità. Al contrario, credo fermamente che il meticciato rinvigorisca gli uomini, anche e soprattutto i loro tratti culturali; sa regalare forme nuove, inedite, caratteristiche e peculiari; scava un solco deciso con il passato, pur senza dimenticarlo; esalta una visione relativista, senza diventarne schiavo; non frammenta, unisce.

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