“Merci Patron!

Stupire la catastrofe.

È da qualche mese, anno, che mi chiedo come convincere i miei amici, o più semplicemente le persone con cui discuto, che cedere all’inevitabilità delle cose che ci sembrano ingiuste e farlo senza ammetterlo è in fondo la prima tappa nel percorso di sottomissione a un’ideologia.

Poiché in quest’azione di convincimento accumulo solo una serie di fallimenti, mi son detto che sto ancora sottovalutandone la difficoltà e l’entità delle virtù che essa richiede: in primo luogo, il coraggio della propria soggettività politica.

Coraggioso (e astuto) è François Ruffin, realizzatore di Merci Patron!, un film che, da più di un mese, sta rivoltando (in tutti i sensi) le poche sale cinematografiche francesi in cui è distribuito. Il titolo tradotto in italiano suonerebbe malissimo (“Grazie Principale!”), il che mi farebbe propendere per un arlecchinesco “Grassie Paròn!”, molto più congeniale allo spirito dell’opera. Si tratta di un documentario a basso budget, dal quale uno sguardo cinico avrebbe tutt’al più aspettato la figurazione di una militanza un po’ depressa: e invece eccoti la sorpresa, un’incredibile iniezione di fiducia contro l’inerzia dell’assoggettamento. Sullo schermo assistiamo alla ruspante decostruzione della potenza mitizzata di uno dei più grandi gruppi industriali della nostra era turbocapitalista, LHVM del patron Bernard Arnault, un colosso del lusso (e non solo) da decine di miliardi di ricavi annui che dalle nostre parti non è solo conosciuto per i suoi prodotti (o per le contraffazioni delle sue borsette) ma anche perché, da quando è iniziata la crisi, sta facendo man bassa delle marche italiane (Bulgari e Loro Piana le sue ultime prede).

Sul versante della produzione delle merci, inutile forse ricordarlo ai lettori di questo blog, il modello di massimizzazione del profitto di questo tipo di imprese è generalmente sempre lo stesso, banale, semplicissimo. Il regime di globalizzazione attuale, che sorvola le sempre più fragili tutele dei cittadini dei vari Stati, offre un mercato del lavoro infinito con barriere sindacali inesistenti o sempre più deboli: in questo contesto, l’azienda non fa altro che monitorare le situazioni di manodopera a basso costo più vicine e più affidabili, delocalizzando gran parte del lavoro al di fuori del paese dove ha storicamente la sede. Spesso questo trasloco si accompagna ad uno altrettanto odioso, quello della residenza fiscale: il nostro Bernard, che la rivista «Forbes» dichiara come uno degli uomini più ricchi al mondo, ci aveva provato chiedendo la cittadinanza belga, ma poi, per una questione di immagine, ha fatto marcia indietro.

Nel caso specifico, di questo sistema hanno fatto le spese diversi lavoratori del Nord della Francia, regione da decenni ormai emblematica della trasformazione post-industriale e che, non a caso, associa alte percentuali di disoccupazione con numeri altrettanto rilevanti di preferenze al Front National. La filiale Ecce di Poix-du-Nord lavorava per il gruppo LHVM confezionando principalmente i vestiti di marca Kenzo e, anno dopo anno, ha visto diminuire il suo numero di dipendenti fino alla completa desertificazione della fabbrica. Dei salariati meno pagati e meno tutelati hanno preso il loro posto in Polonia e in Bulgaria.

Tra gli ex-lavoratori di Poix-du-Nord ci sono mamma e papà Krul, disoccupati da anni nonostante l’assidua ricerca di lavoro, discretamente attempati e costretti a vivere come dei miserabili nella casa che condividono con il figlio. L’incontro con Ruffin, che prima di essere regista è direttore di un piccolo grande giornale, Fakir, e che da anni segue le vicende della fabbrica, innesca una storia sul modello di Davide contro Golia, mettendo in luce non solo la banalità del “male” della formula del capitalismo globalizzato, ma anche la potenziale debolezza degli ingranaggi nascosti dalla sua arroganza.
Sotto le vesti di una naïveté carnevalesca, e quindi rivoluzionaria, Ruffin ci svela l’intento della sua impresa: riconciliare il popolo francese con l’ingiustamente criticato Monsieur Arnault, andando in giro per la Francia e esibendo il suo merchandising all’effige sorridente dell’imprenditore, inquadrata dal logo “I love Bernard”. Questo sguardo, che incorpora la forza dirompente della satira e del rovesciamento, permette non solo di scombinare l’orizzonte di attesa di un film militante, ma soprattutto di farsi strategia d’attacco. L’obiettivo utopico di intaccare la chiusura del corpo “mistico” della multinazionale del lusso, diventa realizzabile proprio perché tale, aprendo a dismisura la concretezza dei percorsi immaginabili. Di qui il titolo del mio articolo, modestamente ripreso dal motto di Fakir (che a sua volta cita Victor Hugo), “étonner la catastrophe”: uno dei modi per mettersi di traverso a ciò che, per abitudine, ci costringiamo a vedere come inevitabile e che fa rimuovere la possibilità di una lotta comune. Senza una scossa, quello che ne consegue è spesso solo una sterile solidarietà, vissuta come mezzo gaudio del mal comune, tesa a camuffare le brutture di un individualismo autoproclamatosi consapevole.

Merci Patron! allora è tanto un film sul lavoro, rappresentato in un tradizionale modello polarizzato capitale/lavoro, quanto un’opera sulla capacità di riattivare il pensiero critico attraverso azioni concrete, che passano da rinnovate comunità di persone con il coraggio della soggettività politica. Se è vero che qualcosa di simile, alle soglie della caduta del muro di Berlino, era stato fatto da Michael Moore con il suo Roger and me (1989), a mio modo di vedere Ruffin rivitalizza questa sfida facendola sentire non solo urgente e attuale ma soprattutto possibile, mostrandoci che il re è nudo e anche imbecille.

Basti pensare al personaggio del mediatore, incarnazione della multinazionale e della sua strategia, che, ripreso da una camera nascosta, prende posto attorno all’austera tavola dei coniugi Krul cercando di comprare la loro compiacenza e dissuaderli dal lanciare una campagna stampa contro il gruppo LVHM. L’uomo sfodera le sue armi di persuasione più rozze, squadrate come il suo fisico e fuorimisura come il tono della sua voce nel piccolo soggiorno che ospita l’esilarante (perché lo è) scena. La presunta dabbenaggine dei Krul agli occhi del mediatore si trasferisce progressivamente, durante questi incredibili incontri, nella sprovvedutezza di quest’ultimo, che continua ad ignorare il virtuoso raggiro di cui è vittima. È l’immagine più flagrante dell’altra faccia della medaglia del lusso, della sua violenza simbolica, condensata oggi in sublimi pubblicità, fra sinestetici svolazzi di ninfe moderne e sguardi lascivi sullo sfondo di dimore da favola.

Si potrà forse eccepire che i poveri Krul sono stati strumentalizzati per dar vita ad un conflitto narrativo di cui, in fondo, sono vittime per due volte, nella vita e nel film. La loro miserabile situazione, benché parzialmente riscattata, forse risulta esposta senza troppi filtri umanitari. Le loro vite, usate come pedine di un gioco al rilancio fra due volontà di potenza, economica (Arnault), e giornalistica, (Ruffin), che si fronteggiano a distanza sull’arena pubblica. Se tutto questo può essere all’origine di legittimi dubbi, non credo venga meno tutto ciò che ho appena scritto. È inevitabile che in un’operazione del genere alcuni angoli siano meno smussati di quanto dovrebbero essere, ma è anche necessario prendere posizione e io, per quello che conta, lo faccio dalla parte del film.

Quasi per osmosi, Merci Patron! è stato adottato da parte del grande movimento che in Francia si sta sollevando contro la proposta di legge El-Khomri (dal nome della ministra del lavoro che l’ha promossa): una legge che va nel senso della precarizzazione, sposando l’abusata ideologia che spinge a ridurre il costo e la tutela del lavoro per combattere la disoccupazione, e che perciò ha risvegliato un orgoglio della protesta che è culminata in una giornata di sciopero generale il 31 marzo. [Tale manifestazione ha dato vita a una serie di nuits debout (notti in piedi), assemblee politiche notturne di centinaia di persone sulle piazze di alcune città francesi, con in testa la simbolica Place de la République di Parigi. A distanza di cinque giorni e sei notti dallo sciopero, all’ora della pubblicazione di questo articolo, la mobilitazione è sempre più intensa e coinvolge migliaia di persone. E il calendario, a richiamare non già forse un tempo nuovo ma almeno una sospensione dell’orizzonte routinario, si adegua: oggi per i nuitdeboutistes è il 37 marzo].

E il nostro Bernard, come se il copione del film continuasse oltre i titoli di coda, rendendo l’opera più reale della realtà percepita come tale, facilita le cose, attuando un’imbarazzante censura del film in uno dei suoi giornali più popolari, Le Parisien, (il gruppo ha una mano anche nella stampa) che non ha potuto non avere un effetto boomerang.

Stupire la catastrofe, vuol dire allora, fare la cosa più naïf di questo mondo: prendere il telefono, cercare i numeri dei distributori cinematografici in Italia, e parlargli di questo film.

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