Prosegue la discussione intorno a Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica. Le autrici riflettono sugli studi femministi, che hanno portato avanti una critica all’androcentrismo nelle discipline scientifico-sociali.
In un recente lavoro le artiste Latifa Laâbissi e Antonia Baehr vestite da scimmie femmina discutono, ballano, oziano davanti al pubblico. In un momento della performance si sfidano a Memory, il noto gioco che consiste nel ricordare ed accoppiare delle carte illustrate che si presentano capovolte. È un Memory particolare, si sottotitola “French Theory”. Le donne scimmia hanno qualche difficoltà, perché le immagini dei volti di Lacan, Foucault, Derrida e svariate altre carte trovano il loro doppio mentre così non è per alcune poche carte per le quali non c’è corrispondenza: sono donne e non occidentali, tra cui la femminista africano-americana bell hooks. I collegamenti ironici a cui rimanda la performance sono diversi: la limitatezza nel perimetrare il pensiero dentro etichette, il riferimento allo spazio nazionale come contenitore, la mancanza di memoria collettiva delle voci di figure dissonanti, il rapporto tra pensiero e quotidianità dei corpi, i processi di silenziamento che una certa tradizione intellettuale continua a produrre.
Si tratta di temi che riaffiorano nella lettura del saggio di Dei “Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica” (in Stato, violenza e libertà, a cura di Dei e Di Pasquale, 2017). Comprendiamo come il saggio abbia voluto indicare un disagio davanti a modalità prevedibili e conformiste nell’uso di nozioni filosofiche in antropologia. Non è l’unico, la rivista Hau si è fondata sulla possibilità di proporre una teoria etnografica solida che avesse la forza di rivendicare la sua densa storia e specificità piuttosto che appoggiarsi ad altre discipline, soprattutto la filosofia (da Col e Graeber 2011). Di ormai 15 anni fa è un divertente saggio di Sahlins in cui l’antropologo lamentava certi usi à la mode di alcuni concetti nella disciplina che rischiavano opacità e autoreferenzialità (Sahlins 2002).
La premessa al testo collettaneo e il saggio di Dei, volutamente provocatori, risultano tuttavia spiazzanti in più punti per chi si occupa di antropologia e genere. Il saggio si apre riportando un ampio stralcio di un testo scritto da Barbara Carnevali, da cui Dei trae ispirazione per portare avanti la critica dell’antropologia critica. Il testo menziona tra le varie idee e formule, il cui amalgama costituisce “l’agenda tematica angusta” della Theory, i gender e i queer studies, ma non gli studi femministi. La riflessione analitica dei gender and queer studies nasce e si nutre delle politiche e delle teorie femministe che, dalla seconda metà del secolo scorso, hanno portato avanti una critica all’androcentrismo nelle discipline, tra cui l’antropologia, come saperi neutri, mettendo a tema la nozione di genere (lasciamo ad altri l’uso distanziante di gender). Tuttavia né nel testo di Carnevali né nel testo di Dei, né nel dibattito che è scaturito, si fa riferimento al contributo dei femminismi.
La riflessione femminista sul genere ha da sempre avuto una relazione articolata con l’antropologia, un rapporto mai risolto di tensione e confronto produttivo, che non intendiamo qui ripercorrere, ma che ha al suo centro proprio la critica alla nozione di Alterità. Quello che ci interessa è sottolineare come la descrizione dell’antropologia critica proposta da Dei la fa coincidere con l’investigazione della subalternità come alterità rispetto al soggetto che fa ricerca. Secondo Dei l’antropologo critico “sta dalla parte dei dannati della terra e dei gruppi che vivono in una qualche condizione di subalternità come il dominio coloniale e neocoloniale, l’oppressione di classe e di genere, la discriminazione etnica e quella di orientamento sessuale. Ha bisogno quindi di una teoria critica del sistema di dominio di cui essi (i colonizzati, i migranti, i proletari, le donne, i neri, le persone Lgbt) sono vittime” (p. 12). Nella lista vittimaria, che si suppone sia lo specifico oggetto dell’antropologia critica, “le donne” appaiono come una categoria a sé. Tuttavia vale la pena ricordare che il genere attraversa tutte le categorie in questione e dunque la condizione delle donne rimanda a un sistema in cui queste non sono parte di un gruppo minoritario: la specificazione di genere è traversale ad altri rapporti di potere, declinando la definizione stessa di colonizzati, migranti, subalterni.
Dietro la costruzione dell'”antropologia critica” come oggetto di analisi, emerge una rappresentazione dell’antropologia che ha difficoltà a riconoscere che il sapere che produce è situato, e che l’antropologo è un soggetto concreto e storicamente determinato. L’antropologia femminista, dai suoi esordi, ha posto questa semplice, ma sovversiva domanda: “qual è il soggetto/autore della ricerca antropologica ed etnografica”? Questo soggetto è stato nella maggior parte della storia della disciplina, un uomo bianco, occidentale, eterosessuale, di classe agiata, che ha prodotto un sapere che si presentava come neutro e disincarnato, le cui determinazioni sociali non erano considerate rilevanti nel definire le questioni da analizzare, le persone con cui interloquire e l’esperienza etnografica stessa. In questo modo si è prodotta, così come in altre discipline, una prospettiva androcentrica, in cui il punto di vista maschile è il punto di vista da cui si enuncia il discorso, pur presentandosi come neutrale e universale. Pensiamo che sia limitante ricondurre la produzione antropologica di taglio critico ad una riflessione fatta da coloro che “rivendicano in nome dei gruppi subalterni” (41) e che attraverso il gergo della Theory o post-coloniale, assumono in realtà “una mera postura accademica, un radicalismo autoreferenziale diffuso tra élites intellettuali per lo più prive di rapporti col mondo della politica” (31). Ci pare che oggi l’antropologia, non solo quella “critica”, e i soggetti che la studiano e la scelgono come professione, corrispondano ad un profilo complesso, e che sia imprescindibile riconoscere un panorama fatto da antropologhe e antropologi che più che stare dalla parte, sono parte di quei gruppi che l’antropologia sarebbe titolata a descrivere.
Nel saggio di Abu-Lughod Writing against Culture, citato nel dibattito attorno al saggio di Dei, l’autrice mette in evidenza come il lavoro di antropologi nativi, halfies e antropologhe femministe si avvicini in una modalità innovativa alla questione del rapporto tra sé antropologico e alterità, proprio perché per loro è più complesso assumere il sé antropologico, tradizionalmente legato a un soggetto dominante. Abu-Lughod invita a considerare “the awareness such splits generate” in merito proprio alla comprensione del potere inerente alle distinzioni tra Sé e Altro (1991: 468).
Siamo d’accordo con Dei sul fatto che “il primo cardine metodologico dell’etnografia è (…) la capacità di cogliere simmetricamente le posizioni dei soggetti all’interno di un contesto istituzionale e morale” (p. 44), eppure non è possibile presentare questa lettura della disciplina omettendo quello che la critica femminista ha dimostrato, ovvero come l’antropologia abbia storicamente riportato il punto di vista di una parte della società, della comunità, del gruppo studiato, presentandolo come il punto di vista di tutto il gruppo. Per coloro che esulano dalla categoria di soggetto dominante lo Stato, nelle sue diverse istanze, è spesso un agente attivo di oppressione ed esclusione a cui ci si rivolge per trasformarlo, perché fornisca autonomia e autodeterminazione a tutti i gruppi sociali e riconosca non solo quei soggetti che si auto-rappresentano come fintamente neutri. Lo Stato non è un soggetto neutro, ma, come sottolinea lo stesso Dei, una formazione con storie specifiche, in cui alcuni gruppi hanno contribuito più di altri a rappresentare (e a modificare) il suo progetto. Lo Stato è un’entità fatta da persone in carne ed ossa, con progetti politici specifici. Chi fa le norme? Chi decide per chi? Il paragone con il gioco degli scacchi non facilita la comprensione: mentre nel gioco degli scacchi i giocatori condividono le regole che strutturano la partita, si attengono ad esse e le usano per vincere, il modo in cui lo Stato plasma l’azione sociale non è affatto dello stesso tipo. “I critici hanno difficoltà a capire quanto il loro stesso posizionamento sia reso possibile dalle norme statuali” (p. 41): la domanda dunque è quali “critici”? Ci sono soggetti che, proprio per il loro posizionamento, non riescono ad avere spazio, parola e azione, in sintesi non sono riconosciuti dalle norme statuali in modi impliciti e/o espliciti, dunque semplicemente non sono previsti.
Certamente la critica alla critica è un modo per rivendicare la possibilità di un sano dibattito. Tuttavia ci pare periglioso stilare la lista dei concetti oscuri, come se la difficoltà fosse di per sé un problema. Non siamo qui a difendere scritture ostiche come quella della Spivak, ma notiamo come spesso la categorizzazione dell’antropologia che si occupa di genere come inutilmente complicata – o comunque tema di specifico interesse della categoria “donne” – ha permesso la sottovalutazione di autrici che sono nodali nel dibattito antropologico contemporaneo come Strathern (che tra l’altro è stata tra le prime a indagare i linguaggi predeterminati nella comprensione delle differenze, compreso quello femminista). La diffidenza che finisce per emergere dal testo di Dei verso teorie, lessico, linguaggi difficili, distanti, ci lascia perplesse. L’importanza di confrontarsi con il linguaggio comune (p. 10) è certamente un obiettivo del lavoro antropologico, tuttavia nell’uso del termine “Teoria” come opposto al buon senso c’è un rischio autentico. Pensiamo per esempio all’invenzione della “Teoria del gender”, funzionale a formulare attacchi iperconservatori contro donne e soggetti eterodissidenti, definita, da chi l’ha inventata, come un’ideologia violenta e per l’appunto lontana dal comune sentire sull’organizzazione della famiglia e dei rapporti tra i sessi. Lo stesso richiamo al buon senso si ritrova nelle critiche fatte al movimento delle donne che dietro l’ashtag #me too hanno preso la parola contro molestie e violenze sessiste: cosa c’è di più banale, naturale e innocente della (etero)seduzione tra i sessi? Siamo cresciute in un’accademia che ci ha insegnato (Dei tra gli altri) a identificare i processi di naturalizzazione che stanno dietro alle pretese “nature” sociali.
Concludiamo ricordando un articolo di Graeber (2012) sul tema della violenza e del potere della burocrazia, in cui l’autore si ritrova ad un certo punto della sua argomentazione a (ri)scoprire l’elaborazione femminista: in chiusura si riferisce ad una prima stesura completamente oblivious del fatto che stava proponendo un ragionamento storicamente già prodotto e al quale avrebbe potuto facilmente riferirsi. Ci sarebbe da chiedersi come mai è sempre necessario riscoprire ciclicamente la politica e la teoria femminista, quando questa non ha mai smesso di produrre pensiero critico, dentro e fuori l’antropologia, dando un contributo al dibattito sulla crisi della rappresentazione – nonché al suo superamento e spostamento su nuove produttive coordinate – che si apriva a partire da quegli anni post geerziani a cui Dei fa riferimento.
La relazione tra comprensione e approccio critico come tensione politica non è un vezzo di una parte dell’antropologia, ma è costitutiva del significato stesso della disciplina. La Theory non è mai esistita, viceversa esiste, vive (e, in alcuni casi, certo, lotta con noi) l’impresa etnografica e antropologica come conoscenza costitutivamente differente.
*(l’articolo è stato scritto prima della replica di Fabio Dei pubblicata su questo blog)