Le destre cercano legittimazione appropriandosi di una determinata memoria storica e sottraendola all’analisi storiografica.
Il tentativo di usare la storia a fini politici non è certo un’invenzione delle odierne forze politiche. Dagli anni ’90 a oggi, abbiamo infatti assistito ad una forte escalation da parte delle destre che, per definire la propria legittimità politica e morale, si sono appropriate di una determinata memoria storica, smembrandola dalla scientificità dell’analisi storiografica per ridurla ad una retorica del dolore, scevra di critica e carica di mistificazione.
Nel 1995, a un anno dal primo governo Berlusconi, che vedeva al comando, fra gli altri, i reduci del Movimento Sociale Italiano (MSI) transitato nella neonata Alleanza Nazionale (AN) durante il Congresso di Fiuggi del 1993, si ebbe la prima proposta per la formulazione di una legge tesa a ricordare la memoria degli infoibati– coloro che nel 1943 e nel 1945, a seguito di condanne a morte avvenute tramite processo, furono fucilati e gettati nelle insenature carsiche tipiche dell’area giuliana, più comunemente conosciute come foibe.
La volontà dell’approvazione di tale legge, che vede la sua realizzazione nel 2004, rappresenta un passaggio storico-politico funzionale alla legittimazione della stessa AN: da un lato la rivincita della memoria dei vinti, dall’altro l’approvazione su ampia scala di un partito erede del fu Partito Nazional Fascista (PNF). Il percorso per arrivare a sancire la legittimità di AN quale soggetto politico degno di sedere in Parlamento passa anche dalle parole dell’allora Presidente della Camera dei Deputati, nonché esponente di spicco del Partito Democratico della Sinistra (PDS) Luciano Violante. Dalle sue parole emergono alcune espressioni chiave che da lì in poi diverranno leitmotiv delle destre italiane, come ad esempio “revisionismi falsificanti”, oppure “i ragazzi di Salò”. E proprio quest’ultima sarà decisiva per codificare il nuovo linguaggio della “destra ripulita”, che proprio nel 2004 chiederà a gran voce l’equiparazione dei “giovani partigiani” con i cosiddetti “giovani di Salò”, utilizzando ed enfatizzando la categoria giovani, con il chiaro intento di sensibilizzare l’opinione pubblica e spostando, ancora una volta, il discorso dal piano politico a quello sentimentale/familiare, sottolineando e propagandando il noto assunto popolare “i morti sono tutti uguali!”.
Una volta approvata la legge del 30 marzo 2004 con la quale fu istituito il Giorno del Ricordo, le destre italiane iniziarono ad organizzare convegni, incontri e a farsi pubblicamente portavoce delle memorie degli esuli giuliano-dalmati e dei testimoni di quelli che da quel momento furono generalmente conosciuti come “martiri delle foibe”,affossando completamente il discorso storiografico costituito da fonti e analisi critica delle stesse, per sostituirlo con il racconto – spesso indiretto – della memoria privata, decontestualizzata dalle più ampie e complesse vicende del confine orientale italiano.
A sostegno di questa forma propagandistica, volta alla retorica del dolore, si rende partecipe la Radiotelevisione Italiana (RAI), producendo nel 2005 la fiction nazional popolare intitolata Il cuore nel pozzo, lungometraggio diretto dal regista Alberto Negrin e che vede il protagonista Ettore – reduce degli alpini rappresentato da Beppe Fiorello, riconosciuto come l’interprete dei “giusti” – mettere in atto, insieme al parroco del paese – Leo Gullotta -, una fuga contro l’avanzata dei partigiani titini, che li avrebbe salvati «dall’orrore dell’odio etnico e delle foibe, verso la speranza» (come recita la copertina del DVD).
La storiografia e la memoria storica vengono così calpestate e utilizzate dalla politica al punto di perdere quasi di scientificità, fondamentale affinché non si cada nella pura strumentalizzazione demagogica. Il confine orientale italiano con Trieste, Gorizia, l’Istria e la Dalmazia entra in un nuovo conflitto fra chi vuole una contestualizzazione che dovrebbe avere inizio almeno dal 1919, con la formazione del fascio triestino di combattimento, l’italianizzazione – e poi fascistizzazione forzata accompagnata da violenze ed espropri – dei differenti gruppi etnici presenti, lo spostamento dei cosiddetti regnicoli dall’Italia centrale all’area del confine orientale italiano, e chi cela – o addirittura sminuisce e a volte nega – tale contestualizzazione al fine di raccontare una storia parziale volta a creare consenso politico in nome dell’identità italiana, basata sul sacrifico dei martiri e degli eroi, tipica delle destre.
La rivendicazione delle foibe da parte dei partiti di estrema destra è largamente conosciuta, portata avanti negli ultimi anni da un soggetto politico relativamente giovane, CasaPound Italia (CPI) che utilizza questo complesso argomento storico per fare proselitismo soprattutto fra i più giovani, attraverso la sua branca studentesca conosciuta come Blocco Studentesco (BS). Visitando i siti internet di CPI e BS si possono trovare numerosi articoli, immagini, fotografie di striscioni e manifesti inneggianti ai martiri italiani gettati vivi nelle foibe. Le cifre, le modalità e il contesto vengono lanciati casualmente (oppure no?) nell’inconsapevolezza di giovani che considerano la storia alla stregua di una partita a dadi, con l’obiettivo ultimo di strumentalizzare la storia stessa per costituire un coeso blocco identitario/comunitario di estrema destra.
Questa retorica viene alimentata dalla narrazione di alcuni fatti storici che, come nel caso del confine orientale italiano, hanno l’obiettivo di manipolare la memoria storica per fini politici. È questo il caso dell’attacco del 7 gennaio 1978 alla sede romana del MSI in via Acca Larenzia, che, come vedremo, trova ancora una volta CPI protagonista dell’uso rapace della memoria. Questo attacco, realizzato dai Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale come risposta all’uccisione del militante di Lotta Continua Walter Rossi, avvenuta a Roma il 30 settembre 1977, fu immediatamente definita “strage”, perché morirono tre militanti: due, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, colpiti dai Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale; il terzo, Stefano Recchioni, fu colpito durante lo scontro a fuoco che seguì tra carabinieri, militanti di MSI e Fronte della Gioventù (FdG).
La storica Radio Popolare di Milano dedicò ai fatti di via Acca Larenzia l’intera giornata dell’8 gennaio, aprendo, forse per la prima volta, il dibattito anche a militanti di destra, e dando vita ad un’accesa discussione che entrò così nelle case di molti italiani, contribuendo a inserire l’attacco nella più ampia complessità politica, sociale, culturale e nazionale che furono gli anni di piombo.
Il racconto pubblico che viene fatto dagli esponenti del MSI, principalmente per voce del suo giornale e organo di partito il Secolo d’Italia, pone le basi per la costruzione della memoria non solo dei fatti di via Acca Larenzia, ma più in generale sulla narrazione degli anni di piombo. Esso è volto al “gioco del martirio” e alla deresponsabilizzazione, svuotando il discorso pubblico sulla memoria di contenuti e contestualizzazione e, al contempo, infarcendolo di slogan dal sapore espressamente fascista come “onore ai camerati caduti!”.In questa costruzione della memoria, come nel caso del confine orientale italiano, sono enfatizzati i lati sentimentali/familiari, spostando il discorso dal piano politico a quello identitario e portando avanti quella che, come già espresso in precedenza, si può definire “retorica del dolore”.
Il dato interessante, emerso dalla ricerca, è che la memoria storica tramandata all’interno dei gruppi dell’estrema destra pone le sue solide basi in larga parte su racconti, testimonianze dirette e resoconti dei giornali dell’epoca prodotti e provenienti dalla stessa area politica. Proprio su questo punto si snoda o si annoda il rapporto fra memoria e neofascismo. Come sostiene il sociologo francese Maurice Halbwachs: “Ricordare, per l’individuo, corrisponde a ritualizzare la memoria di un gruppo sociale cui egli appartiene o ha appartenuto in passato”. In questo senso, dunque, la memoria collettiva diviene [sempre secondo Halbwachs] “il quadro – che si realizza antecedentemente attraverso le memorie dei singoli oggetti concreti – che consente il funzionamento stesso della memoria”. [1] Quindi la memoria collettiva sarebbe la ricostruzione del passato in funzione del presente.
Nello specifico, se prendiamo come caso di analisi e riflessione l’attacco alla sede del MSI di via Acca Larenzia (ma lo stesso discorso vale per i cosiddetti martiri delle foibe), assistiamo non solamente ad una costruzione della memoria, ma alla sacralizzazione della stessa che, con il passare degli anni si è strutturata e consolidata, ponendosi come elemento simbolico di rivincita per far avvicinare i giovani ai movimenti di estrema destra, al grido unanime di “Credere! Obbedire! Combattere!”.
In questo senso Acca Larenziasi pone come il punto zerodal quale la memoria dell’estrema destra è ripartita, e dalla quale si pone quasi il giustificativo per i fatti accaduti dal 7 gennaio 1978 in avanti. In una lunga video-intervista rilasciata a Emma Moriconi – giornalista del Secolo d’Italia e dichiaratamente schierata a destra – dall’avvocato Valerio Cutonilli, autore del libro Acca Larenzia. Quello che non è mai stato detto, l’escalation di violenza dei Nuclei Armati Rivoluzionati (NAR) sarebbe stata proprio dettata dall’attacco di via Acca Larenzia.
A rendere ancora più forte il senso d’ingiustizia vissuto dai militanti del MSI, contribuisce la realizzazione del film Sangue sparso(2014) della stessa Emma Moriconi. Il lungometraggio (distribuito in alcune sale cinematografiche delle principali città italiane, nelle sezioni di CPI e BS, e acquistabile sui siti internet vicini ai movimenti di estrema destra), si concentra sulla storia dell’attacco alla sezione missina del 7 gennaio 1978. L’analisi effettuata sul documento audiovisivo è sommaria, a causa dell’impossibilità nel reperire lo stesso. Dalle interviste trovate in rete e dalla visione di diversi filmati, emergono degli elementi importanti, come l’uso di termini ricorrenti: eroi, passione, coraggio. Secondo lo storico e iconografo Luciano Cheles proprio in riferimento a via Acca Larenzia:
La rivendicazione orgogliosa dei valori, dei riti e della cultura del regime mussoliniano che caratterizza i manifesti degli ultimi quindici anni rappresenta una risposta ai terroristi «rossi» che avevano cercato di liquidare tale tradizione.[2]
L’obiettivo della regista sarebbe dunque di lavorare sulla memoria [e non sulla storia] facendo leva su elementi simbolici e liturgici del passato. Come sostiene la Moriconi stessa: “Non si può dimenticare il passato, altrimenti non si può guardare al futuro”. L’analisi dei casi studio presi in esame, portano a riflettere in maniera più ampia sull’uso della retorica come mezzo funzionale al raggiungimento di un obiettivo, sia esso politico che sociale.
Il concentrarsi, da parte di gruppi di estrema destra, sul paradigma dell’odio e sull’elogio dei martiri, appare la chiave di volta che permette la traslazione della memoria in storia che è, invece, come ci ricorda Pierre Nora “la ricostruzione sempre problematica e incompleta di ciò che è stato”.[3]
Sembra essere dunque questo l’humus politico nel quale i militanti dei movimenti di estrema destra stanno formando la loro egemonia culturale favorendo la transizione verso una società non più basata sui valori dell’antifascismo ma sul più blando a-fascismo, con tutto ciò che esso comporta.
Note
[1] Halbwachs M., La memoria collettiva, Unicopli, 2001.
[2] Luciano Cheles, Il nero e il rosso. Gli anni di piombo nei manifesti, in Lazar M., Matard-Bonucci A.M. (a cura di), Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, Rizzoli, 2010.
[3] Nora P., Les lieux de mémoire, Gallimard, 1997.