Mediterranea

Intervista a Jonas Carpignano.

Mediterranea è la storia di due amici e del viaggio che dall’Africa li conduce in Calabria, tra gli aranceti della piana di Gioia Tauro; è una storia di immigrazione, di razzismo ma anche di integrazione e solidarietà. Il regista italoamericano Jonas Carpignano ci racconta la genesi di questo suo primo lungometraggio, del suo lavoro e del suo rapporto con la Calabria.

Il film è stato presentato alla 72esima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione “Giornata degli autori” ed è tra i tre finalisti che concorrono per il premio LUX 2015 del Parlamento Europeo.  

Simona Arillotta: Sei nato a Roma nel 1984 da padre italiano e madre originaria delle Barbados; hai vissuto a New York ma le tue origini italiane ti hanno sempre riportato qui, in un costante andirivieni tra gli stati Uniti e l’Italia: quanto ha influito sul tuo lavoro questo tuo continuo viaggiare?

Jonas Carpignano: Crescere in un ambiente familiare come quello in cui sono cresciuto ha probabilmente reso più semplice per me affrontare un argomento come quello trattato nel mio film, sentivo questo tema anche un po’ come mio. Ad ogni modo adesso casa mia è in Calabria, precisamente a Gioia Tauro, dove vivo da qualche anno: è qui che ho trasferito tutta la mia base operativa! Certo, il mio lavoro continua ancora a portarmi in giro per il mondo, ma dopo ogni viaggio è sempre qui che torno.

S. A.: Parliamo allora di questo tuo rapporto con la Calabria, un rapporto ormai consolidato e che inizia non con le riprese di Mediterranea ma molto prima, precisamente tra il 2010 e il 2011 ossia quando hai iniziato le riprese per il tuo corto A Chjana, cui ha fatto seguito A Ciambra, due corti che hanno riscosso un grande successo tra la critica nazionale e internazionale (per citare solo alcuni dei premi vinti: A Chjana è stato premiato alla 68esima edizione della Mostra del cinema di Venezia nella sezione Controcampo mentre A Ciambra ha vinto il premio Sony CineAlta Discovery alla Semaine de la Critique – Cannes 2014). Cosa ti ha spinto a scegliere proprio la Calabria?

J. C.: La mia non è stata una scelta, sono stato piuttosto richiamato qui dall’esigenza di approfondire ciò che era successo durante gli scontri tra i migranti e i cittadini di Rosarno nel gennaio del 2010: quello che leggevo sui giornali per me non era abbastanza. Una volta arrivato qui ho iniziato la mia ricerca e a raccogliere il materiale per fare il mio corto, e durante questo periodo ho avuto l’opportunità di conoscere molte persone; soprattutto è qui che ho conosciuto Koudous (ndr Koudos Seihon) e dopo averlo scelto per A Chjana abbiamo deciso insieme di fare del corto un lungometraggio. Quattro anni fa pensavo di venire in Calabria, girare un film e andare via; ma dopo aver passato così tanto tempo qui ho deciso di rimanere. Forse non è stata neanche una decisione: all’improvviso avevo la mia tessera sanitaria, pagavo le tasse qui…tutta la mia vita iniziava a girare intorno a questi luoghi. Alla fine ho dovuto solo accettare la realtà: io vivevo a Gioia (ndr Gioia Tauro).

S. A.: Parliamo di Mediterranea: il film, girato tra il Marocco e la Calabria, è dunque il completamento di una riflessione sui tristemente noti “fatti di Rosarno”, iniziata appunto con A Chjana. Durante tutto questo periodo hai vissuto e lavorato a stretto contatto sia con i ragazzi della comunità africana sia con i cittadini del posto, diventati poi gli attori del tuo film: è stato complicato per te riuscire a costruire questi rapporti?

J. C.: All’inizio non è stato semplice: dopo i momenti di tensione tra i ragazzi africani e gli abitanti della città, Rosarno era diventata luogo di grande interesse per i giornalisti, e questo portava sia migranti che cittadini calabresi a mantenere una certa diffidenza verso di me. Con il tempo le cose sono cambiate: quando hanno capito che io non ero qui solo per fare qualche intervista e andar via, hanno iniziato a fidarsi e adesso, dopo 5 anni, posso dire di conoscere davvero tutti. Tra di noi non c’è il tipico rapporto attore-regista: ho cercato di dare a chiunque lo volesse la possibilità di raccontare il proprio punto di vista, cosa avevano vissuto durante quei giorni, interpretare se stessi. Questo vale anche per i personaggi negativi! Per quel che riguarda il lavoro con i ragazzi africani, ormai non esiste più una distinzione tra me e loro, io non sono solo il regista e loro non sono solo i soggetti del mio film: il mio intento era di dar loro voce e visibilità, mostrandoli per quello che sono ed evitando ogni forma di retorica o di giudizio…

S. A.: Mediterranea ha come sfondo quella che è stata definita dai media nazionali “la rivolta dei migranti”: il film parla però soprattutto dell’odissea che i due protagonisti, Ayva (Koudous Seihon) e Abas (Alassane Sy), affrontano per arrivare in Italia e del difficile processo di integrazione nella cittadina calabrese. Tu hai deciso di affrontare lo stesso viaggio: hai vissuto per due mesi in Burkina Faso nello stesso villaggio della famiglia di Koudous, e hai poi viaggiato attraverso l’Algeria e la Libia. Questa tua personale esperienza ha sicuramente avuto una grande influenza sulla realizzazione del film…

J. C.: È vero, ho percorso la loro stessa rotta e la mia conoscenza dei fatti dipende soprattutto dalle interviste fatte alle persone incontrate durante il mio viaggio. Io però non ho affrontato i loro stessi pericoli, gli ostacoli per noi erano di natura totalmente differente: io avevo i soldi, loro no, io non dovevo lavorare per fare la tappa successiva del viaggio, loro invece si. Sono stato in galera un paio di volte, è vero, la polizia mi ha minacciato dicendo che io lì non ci dovevo stare, che questo film non lo potevo fare: ho un passaporto italiano, per me i problemi erano più di natura politica. Ma quando mi sono trovato davvero in difficoltà, non ho dovuto fare altro che tornare in città, prendere un aereo e rientrare in Italia. Quello che posso dirti è che per me è stato fondamentale parlare con loro mentre eravamo ancora lì: quando i migranti arrivano in Italia raccontano un’esperienza ormai elaborata, molto spesso parziale. Per me invece era importante intervistare e parlare con le persone che ancora stavano cercando di arrivare: questo mi ha aiutato molto a completare il quadro, a far si che il mio film non fosse una semplice ricostruzione, ma una testimonianza fedele della realtà dei fatti.

S. A.: Nel tuo film vediamo le condizioni in cui vivono i migranti-braccianti che arrivano a Rosarno per la raccolta delle arance. Sappiamo però che Rosarno non rappresenta un caso isolato, i migranti si muovono per le campagne del Sud inseguendo il ciclo stagionale della raccolta dei prodotti agricoli: Calabria, Puglia, Campania, Sicilia. Vivono in condizioni durissime, lavorando dall’alba al tramonto per una paga minima, senza assicurazioni, contratti, diritti. Questa situazione, di per sé esplosiva, ha avuto nel caso di Rosarno un elemento detonante, e cioè il ferimento di due lavoratori da parte di due persone non identificate che hanno sparato loro con un’arma da caccia. E tuttavia questo evento non viene mostrato nel tuo film: ciò che noi vediamo è invece un escalation di umiliazioni che questo gruppo di migranti è costretto a subire. Il film quindi non riduce tutto ad un attacco ‘ndranghetista, come è stato invece affermato da alcuni giornalisti e politici, ma mostra come questa tensione tra migranti e cittadini calabresi abbia radici ben diverse…

J. C.: I giornalisti prendono un evento e lo trasformano in altro, spesso in ciò che il pubblico vuole sentirsi dire. La questione è molto complessa, ma io credo che prima di tutto ci sia un problema di xenofobia, una vera e propria paura dello straniero. Rosarno è un paese di 15 mila abitanti; in soli tre-quattro anni il numero dei migranti ha quasi raggiunto la soglia delle 3 mila anime: la gente avverte il bisogno di difendersi perché è come se vedesse tutto questo come un’invasione, come la messa in pericolo della propria identità, delle proprie tradizioni. Ciò che sta alla base è quindi il non sapere come affrontare questo cambiamento radicale, e sono pochi in questo senso gli esempi positivi: si parla tanto del caso di Riace, ma anche questa esperienza, sebbene molto importante, ha avuto e continua ad avere le sue grosse difficoltà.

S. A.: Hai fatto riferimento a Riace: solo pochi mesi prima degli scontri avvenuti a Rosarno, Wim Wenders aveva terminato di girare un corto proprio tra Riace e Badolato dal titolo Il Volo, in cui raccontava la scoperta della Calabria dell’accoglienza e della xenia, facendo di questi piccoli borghi calabresi dei modelli seguire. Con Rosarno assistiamo al capovolgimento di questa immagine: emerge una società razzista, chiusa, per la quale lo straniero non è più xenos, ma barbaros, l’invasore da cui ci si deve difendere. Nel tuo film assistiamo alla messa in atto di questa marginalizzazione dello straniero, che viene spinto a vivere fuori dallo spazio cittadino, ma vediamo anche l’altra faccia della città, quella della solidarietà e dell’amicizia fatta di personaggi come Mamma Africa (ndr Norina Ventre, la donna che ha istituito una mensa per i migranti nel casolare di famiglia). C’è poi una terza figura, ambigua, rappresentata dal capo di Ayva e che si pone a metà: sebbene si dimostri comprensivo nei confronti del ragazzo, egli “non può aiutarlo” nel modo in cui Ayva gli chiede di farlo…

J. C.: L’aiuto è spesso molto limitato: è vero, si può invitare il lavoratore africano a cena, gli si possono trovare piccoli lavoretti affinché possa arrotondare, ma è difficile che qualcuno provi ad andare oltre, anche se questo vorrebbe dire consentire al proprio dipendente di ottenere il permesso di soggiorno e, quindi, provare a costruire una vita migliore. Il capo di Ayva ha una famiglia da mantenere: esporsi vorrebbe dire complicare la propria vita e quella dei familiari. Perché farlo dunque? Questo personaggio è molto importante per me, non solo perché è basato sulla figura del vero capo di Koudous, ma anche perché rappresenta l’emblema di un modo di agire che ho ritrovato spesso qui: quello dell’aiutare “ma fino ad un certo punto”…le cose stanno lentamente migliorando, ma questo è qualcosa su cui bisogna ancora lavorare molto.

S. A.: Attraverso il tuo film tu metti in evidenza l’importanza delle tecnologie e dei social media, che rappresentano un mezzo per poter sentire vicini i propri cari: Ayva non solo parla, ma vede la figlia attraverso Skype. Ciò che però è interessante sottolineare è come l’idea che Ayva e Abas hanno della vita in Italia sia fondata su di un immaginario costruito e veicolato attraverso le bacheche Facebook dei loro amici già arrivati nel nostro paese. Un’idea che si sgretola nel momento in cui i due protagonisti dovranno fare i conti con la vera realtà calabrese…

J. C.: Il mondo diventa sempre più piccolo attraverso i media, ma il mio intento è soprattutto quello di dimostrare come i social network non sono altro che una grande vetrina dove è possibile fare pubblicità di noi stessi. Non esiste una verità: siamo noi stessi a costruirci l’immagine che vogliamo dare alla gente; siamo noi a mostrare quella che crediamo sia la verità. La stessa cosa accade anche per i migranti: sebbene la realtà per loro qui sia molto dura, molto spesso ciò che mostrano attraverso Facebook è una verità ricostruita che spesso ha ben poca corrispondenza con la loro vera vita.

S. A.: Qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?

J. C.: Ho appena finito di scrivere una sceneggiatura che parla di Pio (ndr Pio Amato, il protagonista di A Ciambra), vorrei fare un film basato sulla sua vita e sul suo rapporto con alcuni dei protagonisti di Mediterranea: voglio continuare a lavorare qui, credo che questi luoghi e queste persone abbiano ancora molto da raccontarci…

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