Per una medicina da re-inventare: conversazione con i “Medici senza camice”

Reparto Agitati inaugura con l’intervista a Medici senza camice, che verrà pubblicata in tre puntate a partire da oggi, un nuovo filone di ricerca e di inchiesta partecipata sui temi della salute globale e della medicina sociale.

ADN-ZB/Pätzold/1.11.82 Bez. Schwerin: Wenn Gemeindeschwester Karin Arp mit ihrer “Schwalbe” vorbeikommt, bringt sie meistens gleich Medizin für ihre Patienten mit. So wie die Familie Böhm in Carlow, Kreis Gadebusch, betreut die Schwester viele Bürger in Carlow und weiteren acht Ortsteilen.

1. Medicina e Politica. Un confronto generazionale tra vecchi e nuovi paradigmi

Temi assolutamente intrecciati alla “questione psichiatrica”, nell’idea di un ripensamento critico complessivo del sapere medico e della scienza, del rapporto tra salute e malattia, disuguaglianze sociali e accesso ai servizi, sistemi di welfare e partecipazione sociale. Tutto questo nella prospettiva di avviare un laboratorio di ricerca che, attraverso un confronto serrato con gli operatori sociali, gli studenti, gli specializzandi, i lavoratori dei servizi socio-sanitari, possa fornire un quadro abbastanza approssimativo ma fedele della dinamica sociale del lavoro e delle sue contraddizioni. Per questo motivo abbiamo chiesto ad alcuni studenti e specializzandi del gruppo dei “Medici senza camice” di raccontarci come è nata la loro esperienza e di discutere insieme di salute, malattia, lavoro, servizi, ma anche di relazioni, solidarietà, progettualità ed immaginario.
Di parlare di come le nuove generazioni immaginano una società diversa e a misura d’uomo e dei suoi bisogni e di come costruire nuovi percorsi di formazione che prescindano da rigide griglie disciplinari. Di come inventare, insomma, nuovi spazi progettuali. Ci pare questo un buon inizio per cominciare a riflettere insieme, facendo. 

Reparto Agitati: Innanzitutto vorrei chiedervi come nasce l’esperienza dei “Medici senza camice” e come si sviluppa l’idea di organizzarvi in gruppo e di darvi questo nome.

Alessandro: L’idea del gruppo in origine nasce quando noi eravamo studenti, e nasce soprattutto per formarsi su quelle che sono le tematiche della salute globale e quindi più in generale della medicina sociale, cioè cercare di capire quali sono le cause sociali delle malattie, che è una parte comunque che non viene minimamente affrontata nel corso di studi di medicina, sia quando eravamo studenti, che adesso, se non con qualche eccezione. Quindi l’idea di formarsi nasce proprio per colmare questa lacuna formativa e che era stata, diciamo, anche suscitata da un evento che come studenti a livello nazionale, attraverso un’organizzazione che si chiama SISM (Segretariato Italiano Studenti in Medicina)[1], iniziammo a fare nel 2007 e che si chiamava “laboratorio di mondialità”. Cioè organizzavamo una volta all’anno tre giorni di formazione sulle tematiche della salute globale o della medicina sociale. Da questa esperienza è nata l’idea di formare dei gruppi locali di autoformazione che si vedono una volta all’anno ma che durante l’anno continuano ad auto-formarsi. Noi siamo nati a Roma, ma sono nati anche altri gruppi in giro per l’Italia, a Firenze , a Perugia, a Brescia. Quando ci siamo costituiti non ci chiamavamo “Medici senza camice” ma “Gruppo di autoformazione in salute globale”. L’idea del nome “Medici senza camice” è invece abbastanza recente e nasce con l’esperienza che abbiamo fatto del “cantiere di Socioanalisi Narrativa”[2]. L’idea è nata sul finire di un cantiere che abbiamo fatto, di una giornata di formazione, proprio riflettendo sul rapporto di potere tra medico e paziente, cioè stavamo riflettendo molto sul ruolo di potere più che sulla funzione di potere che il medico ha, sia nella relazione medico-paziente, sia all’interno della società e abbiamo visto come l’immagine del camice incarnasse poi questa dinamica di potere, quindi l’idea è stata quella di rifiutare il ruolo di potere che il medico ha all’interno della società spogliandoci del camice. Una riflessione che faccio io anche è che l’atto di togliersi il camice ha anche un altro aspetto che è quello del non essere immediatamente riconoscibili come medici all’interno della società. Cioè nel momento in cui mi metto il camice sono facilmente riconoscibile come medico e come figura sociale, ma nel momento in cui io mi tolgo il camice sono una persona, e quindi nell’incontro con l’altro entrano in gioco anche altre parti di me che non attengono subito alla mia immagine di medico. Nel momento dell’interazione con l’altro, metto in gioco anche le mie competenze tecniche da medico, ma non sono le uniche proprio perché nella relazione metto altre parti della mia persona che non necessariamente mi fanno essere immediatamente riconducibile alla figura del medico.

Reparto Agitati: È indubbio che oggi il ruolo del medico abbia acquisito una funzione rilevante nelle società capitalistiche avanzate. Sia in termini di autorità scientifica, sia come catalizzatore di una serie di domande e di bisogni emergenti che una società complessa come quella contemporanea richiede di affrontare. D’altra parte sembra evidente che queste richieste aprano delle contraddizioni sul ruolo della scienza e sul ruolo del tecnico come funzionario di questa delega sociale, rispetto a tutta una serie di questioni che la stessa medicina apre nel suo operare in un mondo in costante cambiamento. Rispetto ad un testo come “Il medico immaginario e il malato per forza” di Giorgio Bert[3], che voi citate spesso nel vostro volume, un testo scritto più di trent’anni fa, che fa riferimento a tutta quell’area di ricerca e problematizzazione avviata da scienziati come Giulio Maccacaro[4] e Massimo Gaglio[5] e convogliata in esperienze di partecipazione collettiva come Medicina Democratica e nei movimenti di lotta per la salute, cosa credete sia possibile recuperare dell’analisi critica della medicina degli anni ’70 e cosa credete vada rilanciato di quella proposta di lavoro? E’ possibile pensare oggi di poter utilizzare quella critica come strumento di ricerca nel vostro lavoro quotidiano? Oppure pensate che una certa indagine sia oggi superata e svuotata dai suoi contenuti ideologici e vada declinata su nuovi percorsi argomentativi e di ricerca?

Pier Mario: Sulla prima parte, cioè sul ruolo che il medico riveste, mi veniva in mente una riflessione che avevo fatto facendo alcune letture. In sostanza volendo immaginare da una parte il professionista, il tecnico e dall’altra il cittadino, in questo libro che stavo leggendo, Enrico Euli[6] identificava il ruolo che deve avere l’esperto, il tecnico. Egli distingueva tra due funzioni principali: quella della previsione e quella della decisione. In sostanza il tecnico serve a fare delle previsioni su quello che accadrà. Se si fa questa scelta accadrà questo, se si fa questa altra scelta, accadrà quest’altro e quindi è una funzione accessoria alla decisione. Il problema nasce, e secondo me la figura del medico lo esprime molto bene, in questo momento. Cioè nel momento in cui entrambe queste funzioni, quella di decisione e quella di previsione, coincidono nella stessa figura. In questo senso, il paziente, la persona che si rivolge al servizio non ha una funzione di autore, non ha un ruolo reale nella tutela della propria salute perché di fatto, nonostante tutti gli strumenti come il consenso informato che ci siamo inventati, che valgono quello che valgono, non ha il potere della decisione che comunque rimane un potere che appartiene al tecnico e questo, riallacciandomi all’autore che citavi (Bert) è un problema di tipo politico. La differenza vera che c’è tra chi fa il medico oggi e chi lo faceva negli anni ’70 è che era ben chiaro all’epoca che il ruolo del medico fosse un ruolo politico. Oggi il medico è formato ad essere un tecnico e basta. Penso che il nostro lavoro voglia andare proprio nella direzione di recuperare il ruolo politico, riprendere consapevolezza di questo ruolo e una volta che l’abbiamo recuperato, decidere, prendere delle posizioni che da questo conseguono.

Susanna: Mi viene in mente che durante il percorso del cantiere noi avevamo pensato di aver fatto delle scoperte e queste sono state delle riflessioni molto importanti per noi. Ed è stato importante poi andarle a recuperare e vedere che tante persone avevano già parlato di quello che è il discorso del ruolo del medico e accorgersi che in primo piano c’è sicuramente il potere e la gestione del potere. Un potere che ti viene dato nel momento in cui tu vieni identificato come medico dalla persona, perché l’identificazione è bilaterale, cioè il medico si dà il ruolo ma anche la persona che ti chiede aiuto è abituata a dartelo. Mi sembra che questa relazione si sia in qualche modo molto strutturata dagli anni ’70 ad oggi, forte probabilmente anche della ricerca della medicina basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine)[7], come se ormai il dato scientifico fosse neutrale, cioè fosse un dato messo li, che quindi vale per te che hai una certa storia e vale per me che ho un’altra storia e questo nella nostra formazione è molto presente. Gran parte della ricerca scientifica si basa oggi sulle linee guida, sui protocolli ormai standardizzati che in realtà non tengono in considerazione tutta la parte che riguarda la medicina sociale, i determinanti di salute, le disuguaglianze, tutte le peculiarità del contesto micro e macro all’interno del quale ogni persona è inserita, la cosiddetta rete sociale. I fattori da prendere in considerazione sono moltissimi e questa riflessione della medicina sociale mi sembra che in qualche modo fosse più presente negli anni ’70 ed invece pian piano poi si è persa, nonostante la formazione che racconta Giorgio Bert nel libro, fosse una formazione universitaria molto simile a quella che ho vissuto io. Anche negli anni ’70 c’era quel tipo di formazione, ma probabilmente c’era una massa critica più forte o che comunque era più autocritica. Io noto che il livello generale di autocritica e di analisi è molto diminuito, si è disperso e quindi la cosa positiva è quella di aver trovato un gruppo che riflette insieme, cioè di aver trovato nella facoltà di medicina qualcosa che fosse lontano dal mio immaginario. Perché all’inizio dici: “sono solo” e quindi devi allinearti al percorso, mentre invece la forza di altre persone che la pensano come te è quello di pensare e di ricordarti sempre che qualcosa di diverso è possibile e che non sei solo. Quindi secondo me anche recuperare la dimensione del gruppo e di fare un’analisi insieme di tipo differente, è un’analogia che forse ritorna un pochino con quella stagione.

Giuseppe: Quando ho letto il volume di Giorgio Bert non gli ho dato un valore storico anzi. L’ho trovato un testo estremamente utile per la mia formazione. Quindi non lo considero un testo anacronistico. Le cose che mi vengono in mente, che mi sono portato a casa dopo quella lettura e che vorrei riprendere, partono da una riflessione che si struttura sulle due parole che lui utilizza molto spesso che sono “ubbidienza” e “mediocrità”. Mi viene infatti da pensare che l’utilizzo della parola mediocrità genera una consapevolezza di quanto vale l’azione e quanto vale la non azione. Si da estremamente peso all’atto e alla decisione che c’è dietro quell’atto ed io vorrei essere consapevole di ciò che decido e di ciò che faccio. Quindi non vorrei essere mediocre e non vorrei essere ubbidiente, cioè sottostare comunque a delle regole sociali o a dei compromessi, a delle strutture che in qualche modo mi rendono succube, meno fantasioso nel trovare nuove strategie, per fare qualcosa di nuovo, per fare qualcosa come diceva Susanna di diverso o per inventare un nuovo modo di stare all’interno di quello spazio di cure e di attenzioni. Quindi io voglio mantenere la disubbidienza e non voglio essere mediocre.

Reparto Agitati: A proposito di “disubbidienze”, secondo voi l’atto medico oggi si configura ancora come un atto politico? Ovvero come riappropriazione di una responsabilità del tecnico nell’affrontare le domande e smascherare le contraddizioni che il proprio ruolo e il proprio sapere gli pongono nella prassi? O va ripensato il ruolo del medico tenendo conto dei profondi cambiamenti sociali e politico-culturali di questi ultimi trent’anni? Ritenete in sostanza che l’agire politico sia qualcosa che fondi ancora il ruolo del medico contemporaneo, o che rappresenti un motivo ideologico ormai superato e privo di quella incisività che poteva avere in altre stagioni di lotta e di pratica sociale?

Alessandro: io partirei dal presupposto che il sapere medico, la pratica medica in generale sono il riflesso della società nella quale questa si struttura e da questo ne consegue che ogni atto medico è di per sé un atto politico, nel bene e nel male. Cioè nel momento in cui io faccio un atto medico e lo considero come un atto tecnico, di fatto sto legittimando una struttura politica che vuole che il medico sia solamente un tecnico e che vuole che le persone vengano ridotte ad organi e a malattia e su quella prestazione io di fatto mantengo uno status quo, che è legato poi al concetto di capitalismo. Nel momento in cui il medico di fatto obbedisce a questa visione della realtà e quindi della sua prassi medica, di fatto sta agendo politicamente, solamente che si illude di agire solamente da un punto di vista scientifico, ignorando il fatto che la scienza poi è influenzata e contaminata dalla politica stessa. La scelta a questo punto è se il mio atto medico, il mio agire è volto a mantenere uno status quo oppure se vuole agire per rilevare quello status quo e muoversi in direzione contraria, opposta. Il che vuol dire muoversi verso una medicina che tuteli la salute delle persone e il loro diritto all’assistenza e che quindi vada ad evidenziare quelle che sono le disuguaglianze in salute, tolga da un concetto di fatalismo la malattia, ma ne evidenzi le cause sociali e quindi in quel modo l’atto medico diviene un atto che svela, che rivela le contraddizioni sociali che diventano poi patogene. Quindi io credo che il primo atto che un medico possa fare, o in generale un operatore della salute sia proprio quello di svelare queste contraddizioni interne alla società che poi si inseriscono all’interno della pratica medica. Una volta fatto questo, che è necessario ma non è sufficiente secondo me per ripensare la pratica medica, bisogna avere il coraggio di ripensare a dei paradigmi di riferimento su cui la pratica medica si basa. Ripensare i paradigmi di riferimento vuol dire ripensare ai concetti di partenza che sono che cos’è la salute e che cos’è la malattia, cos’è la vita, cosa la genera, cosa la tutela, e cosa la mette in pericolo e che cos’è la guarigione e rispetto a questo si possono fare molte riflessioni. Per esempio una cosa che noi come nuova generazione rispetto agli anni settanta potremmo aggiungere, secondo me è proprio questo salto di paradigma, cioè la medicina critica degli anni ’70, da quello che ho potuto capire io, si muoveva comunque in maniera critica ma all’interno dello stesso paradigma di riferimento.

Cioè Maccacaro, che era Maccacaro, nella sua epidemiologia sociale[8], metteva con una connotazione di causa-effetto l’esposizione sociale a patologia, ma non andava a ricostruire in maniera qualitativa che cosa succedeva tra l’esposizione e la conseguenza in malattia. Adesso con la teoria della complessità, per esempio, che scardina l’approccio determinista ed esclusivamente meccanicista della scienza, secondo me noi abbiamo la possibilità di andare oltre questa dinamica e valutare in maniera molto più ampia cosa genera salute, cosa genera la malattia. Possiamo ripensare integralmente al concetto di guarigione e di cura e quindi possiamo ripensare che l’atto medico non deve essere solo un atto farmacologico e terapeutico in senso stretto, ma possono essere considerati terapeutici anche altri ambiti della società ed anche altre figure professionali, ed altre figure sociali mi viene da dire. La cosa che vedo nel futuro è che non è detto che siano solamente i medici ad occuparsi di salute e di malattia, cioè fintanto che noi pensiamo che siano i medici ad essere i detentori del sapere rispetto alla salute e alla malattia, il potere di decidere che cosa è sano e cosa è malato rimarrà sempre confinato alla classe medica e quindi questo inevitabilmente riproduce un modello di potere e di dominio.

Susanna: Non vedo una non-politicità nell’atto medico. È di per sé un atto politico. E questa era anche la riflessione degli anni ‘70. Però l’andare oltre, secondo me, sta anche nel cambio di paradigma, anche nel ritornare su un piano relazionale dove io entro in relazione con te con un sapere, che è il mio specifico e che però entra in relazione con te che sei quella persona, che vive il corpo in quel momento e mi porta la sua esperienza. Quindi nel rimettere al centro queste due persone ognuna con il proprio sapere esperienziale e, come diceva Alessandro, nella possibilità di far entrare in questa conoscenza anche qualcosa d’altro che non sia solo il sapere medico e la competenza ma qualcosa di sé e della propria vita. Cosi come il “malato” non porta solo la malattia ma molto altro della sua vicenda umana e sociale. Tutto questo è importante perché rimette in mano alla collettività le questioni della salute e della malattia. Le ricollettivizza.

Note

[1] Il SISM è un’associazione no-profit, apartitica e aconfessionale, organizzata da studenti di medicina il cui lavoro è volontario. Si propone di arricchire la crescita umana e professionale dello studente del Corso di Laurea di Medicina e Chirurgia attraverso la promozione e la realizzazione di attività tra cui: progetti di cooperazione internazionale, progetti di medicina sociale, corsi di lingua, progetti Clerkship e Research Exchange (campagna scambi, di ambito internazionale e italiano, equiparati a periodi di internamento equivalente, nell’ambito della didattica elettiva).

[2] «La Socioanalisi narrativa è un dispositivo di ricerca che consente, attraverso il lavoro di gruppo svolto dagli attori interni ad una specifica istituzione, di analizzare quei dispositivi autoritari e di controllo che risultano mortificanti per le persone implicate e fonte di malessere sociale. Attraverso questo metodo è possibile anche evidenziare le varie modalità attraverso cui le persone si adattano o resistono in modo creativo all’azione dei dispositivi di potere. La pratica socioanalitica [..] considera la narrazione come fonte primaria di conoscenza. Il punto di partenza del lavoro di gruppo consiste quindi nello scambiare esperienze, narrando fatti o eventi che quotidianamente accadono nei contesti istituzionali che si vogliono analizzare» (da Sensibili alle Foglie). Per un riferimento bibliografico si veda: R. Curcio, M. Prette, N. Valentino, La Socioanalisi narrativa, Sensibili alle foglie, Milano 2012.

[3] G. Bert, Il medico immaginario e il malato per forza, Feltrinelli, Milano 1974.

[4] G.A. Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano 1979.

[5] M. Gaglio, Medicina e profitto, Nuove Edizioni Operaie S.r.l., Roma 1976.

[6] S. Caserini; E. Euli, Imparare dalle catastrofi, Altreconomia edizioni, 2012.

[7] La medicina basata sulle prove di efficacia (Evidence-based medicine, EBM) è stata definita come «il processo della ricerca, della valutazione e dell’uso sistematici dei risultati della ricerca contemporanea come base per le decisioni cliniche». D. L. Sackett, W. M. Rosenberg, J. A. Gray, R. B. Haynes, W. S. Richardson, < em>Evidence based medicine: what it is and what it isn’t, in BMJ, vol. 312, n. 7023, Gennaio 1996, pp. 71–72.

[8] Nel 1976, Giulio Maccacaro fonda la rivista Epidemiologia e prevenzione che, attiva ancora oggi, raccoglie buona parte delle migliori e originali esperienze italiane di ricerca epidemiologica e di studio degli interventi per la prevenzione e la sanità pubblica. Qui il sito un della rivista.

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