Lo sguardo dell’antropologia tra percezione del rischio e comunicazione
«Quando gli storici faranno la conta dei tanti passi falsi commessi dai decisori politici nella risposta all’epidemia da coronavirus, in cima alla lista ci sarà l’insensato e antiscientifico invito per il grande pubblico, a non indossare le mascherine»[1]. Da antropologa non posso scommettere su quanto la Storia, un giorno, sarà in grado di decretare, ma mi “accontento” di scattare un’istantanea da un osservatorio etnografico privilegiato e assolutamente insolito: il tempo —presente e sospeso— interno all’emergenza. Definire cosa un’emergenza sia, anche da un punto di vista giuridico, è materia complessa: come scrive Francesco Niola si tratta di un concetto profondamente connesso a quello di “contingenza” «ovvero il diverso, spesso rapido articolarsi della realtà cui l’ordinamento deve reagire per mantenere garantirsi quello stato originario di cogenza ed equilibrio» (Niola 2014). Da un punto di vista antropologico l’emergenza costituisce un “costrutto sociale”, un immaginario, che dà forma non solo alla comprensione della realtà ma anche all’azione che segue tale comprensione (Calhoun 2010). Gli strumenti di cui dispone l’antropologia, e in particolare l’antropologia che si occupa dei disastri, per analizzare e comprendere le narrazioni istituzionali e la percezione dell’emergenza sono molteplici.
Per la loro caratteristica di essere dei “fatti sociali totali”, i disastri costituiscono un oggetto di ricerca complesso e sfidante per le scienze sociali, in grado di connettere il livello locale e il livello globale, e di investire ogni sfera della vita umana e della cultura (dalla salute all’economia, dall’istruzione alla politica, dalla comunicazione alla percezione del rischio, dai diritti umani all’ambiente, e così via). In gioco ci sono questioni che coinvolgono interessi, poteri, conoscenze, immaginari, e narrazioni dei molteplici attori presenti sulla scena sociale: esperti, scienziati, politici, tecnici, funzionari, accademici, associazioni, cittadini, e ancora giornalisti, operatori umanitari, media. Se è dimostrato che le modalità con cui i disastri vengono comunicati, percepiti e contestualizzati giocano un ruolo decisivo nel determinare le risposte dei soggetti coinvolti e nelle pratiche di intervento istituzionale, è allora altrettanto probabile che la comunicazione —altamente contraddittoria— sull’uso dei dispositivi di protezione individuale nel corso di questa emergenza, avrà delle conseguenze sull’efficacia delle misure intraprese per gestirla e superarla (governance). La “questione delle mascherine” si presta ad essere una efficace chiave di lettura del “paradigma emergenziale”, paradigma che tende ad escludere (o comunque ad occultare) le responsabilità politiche che contribuiscono a rendere più vulnerabilii soggetti esposti, fino a trasformare le emergenze in disastri di lungo corso.
Reciprocità e mascherine
Mentre l’Organizzazione mondiale della sanità, alla luce dei risultati di un studio[2] del MIT di Cambridge sulla capacità di propagazione del Coronavirus nell’aria (che pare arrivare fino a picchi di 7-8 metri), sembrerebbe rivedere le sue raccomandazioni sull’uso delle mascherine — finora considerate inutili per le persone sane —, e mentre il Governo italiano si prepara a dettare le misure per la “fase due” in cui si annuncia l’obbligatorietà dell’uso delle mascherine per chiunque esca di casa e finché non ci saranno i vaccini e le terapie per il virus, diviene fondamentale ripercorrere qualche passaggio all’interno della storia —tutta ancora da scrivere— della gestione di questa pandemia.
Prima che il coronavirus si diffondesse sul territorio nazionale, l’immagine — per noi italiani almeno — più familiare associata all’uso “non professionale” delle mascherine era pressoché esclusivamente legata alla consuetudine da parte dei turisti giapponesi e degli “orientali in generale” di indossarle negli spazi pubblici per non diffondere e trasmettere i propri germi agli altri. Una pratica che si basa su di un presupposto culturale di “riconoscimento reciproco”, di riconoscimento dell’“altro”, e che in questi tempi di emergenza viene invocato attraverso la prescrizione “restate a casa”: restate a casa per non diffondere l’infezione, restate a casa perché in prima linea a difendervi dal virus ci sono le categorie dei sanitari, che vanno protetti, restate a casa perché i posti in rianimazione non basterebbero per tutti. Una reciprocità evitante, possiamo dire, che è stata prescritta attraverso l’isolamento fisico dagli altri, nel mantenimento delle “distanze di sicurezza” dal prossimo, e a cui è conseguita la chiusura della quasi totalità delle attività produttive e lavorative in generale. Non entrerò qui nel merito della gestione delle libertà di approvvigionamento e di movimento, né mi occuperò delle nuove forme di “pellegrinaggio sociale al supermercato” che vedono esposte al rischio di contagio molte delle categorie più vulnerabili che non hanno accesso ai dispositivi di protezione individuali (o che non ne ri-conoscono l’efficacia o le corrette modalità di utilizzo). Mi limiterò a riflettere su come il riconoscimento di questa reciprocità (spesso purtroppo solo invocato) avrebbe potuto, anche e soprattutto nelle fasi iniziali dell’emergenza, trovare applicazione effettiva attraverso l’uso di un dispositivo che evitasse la diffusione del virus a partire dalla fonte diretta —“noi”: la mascherina. In queste settimane è diventato virale su YouTube un tutorial[3] che descrive le tre differenti tipologie di mascherine in commercio (chirurgiche, con valvola, e filtranti senza valvola) a seconda del loro grado di reciprocità. Le mascherine chirurgiche sarebbero quelle “altruiste”, perché in grado di trattenere l’aerosol di chi le indossa ma meno efficienti nel proteggere dal virus in entrata; quelle con valvola considerate “egoiste”, perché in grado di isolare dall’esterno ma di emettere attraverso la valvola i virus all’esterno; e infine vi sarebbero quelle “intelligenti” perché capaci della doppia funzione —anche sociale— di riconoscere noi e gli altri come parte di un sistema di reciprocità.
Forse basterebbe notare come non sia tanto l’oggetto in sé a possedere queste caratteristiche, quanto, piuttosto, “noi” e l’utilizzo che ne possiamo fare. Una formula che potremmo riassumere così: se indosso la mascherina, ti proteggo, e se anche tu la indossi, ci proteggiamo. Reciprocità.
La pratica del “mask-wearing”, che in Giappone ha una lunga e consolidata tradizione (è stata introdotta nel paese dopo la pandemia di “febbre spagnola” del 1918), è considerata come un vero e proprio “rituale del rischio” — risk ritual — (Burgess e Horii 2012), a cui le persone ricorrono immediatamente in risposta a situazioni di vulnerabilità e di incertezza sanitaria, così come nell’ordinaria gestione di un raffreddore: l’atto di indossare la mascherina fornisce a chi la indossa un senso di protezione e di controllo, e al contempo riduce l’esposizione al rischio individuale e collettivo (Horii 2014). Nella gestione di questa emergenza, a livello globale, stanno emergendo diversi modelli e diversi approcci al rischio, che rispecchiano disuguaglianze e differenze di ordine socio-culturale ed economico, come anche differenti metodologie di raccolta e interpretazione dei dati, o ancora il ricorso a tecnologie di tracciamento o di telemedicina sperimentali. Al momento, in base ai dati che abbiamo a disposizione sul numero di contagiati e di vittime, risulta difficile valutare quali siano i più efficaci, e ci vorranno mesi per avere un quadro d’insieme attendibile; tuttavia gli approcci integrati, quelli cioè che prevedono il ricorso a strategie e a tecnologie in grado di agire su più fronti contemporaneamente, sembrano i più promettenti (Germania e Corea del Sud su tutti).
Utilità Vs. Inutilità: i discorsi esperti
Sebbene in termini generali, possiamo notare come le contraddizioni comunicative che i discorsi “esperti” e “politici” hanno costruito attorno al rischio e alla vulnerabilità durante questa emergenza stiano giocando un ruolo negativo sia nella comprensione dell’entità del fenomeno che nell’efficacia di risposta individuale e collettiva. In gioco ci sono anche fattori di ordine culturale, come una diversa capacità di percezione tra generazioni e generi (come ad esempio il “white male effect”[4], ovvero una minor capacità di percepire i rischi da parte dei maschi bianchi), la scarsa familiarità con queste pratiche di isolamento, la non abitudine a considerarsi come agenti di contagio, finanche agli immaginari negativi legati alla copertura del volto che le mascherine potrebbero ingenerare.
Per quanto riguarda i discorsi specifici sull’uso delle mascherine, discorsi che hanno con ogni probabilità voluto occultare il problema —mondiale[5]— della loro scarsa reperibilità nelle reti di distribuzione e per il personale sanitario (e con questa una lacunosa pianificazione della gestione dell’emergenza), possiamo analizzare qualche passaggio saliente. Era il 31 di gennaio quando (era da poco scoppiato il caso della coppia di turisti cinesi ricoverati a Roma per il Covid-19) un importante esponente del Ministero della Salute[6] in onda sulle frequenze di Radio Uno aveva esordito: «coprirsi il volto con una mascherina nel tentativo di scampare dal contagio dell’epidemia causata dal nuovo coronavirus di Wuhan? È una stupidaggine enorme e non serve a niente», e ancora, qualche giorno più tardi, un noto infettivologo[7] sul Messaggero rilanciava: «le persone sane che girano con la mascherina fanno carnevale: non dovrebbero indossarle loro, ma quelle malate. Il coronavirus è un virus, ma fa più danni la paura che la malattia, proprio come in questi casi». Un mese più tardi, il 26 febbraio, nel corso di una delle conferenze stampa sull’emergenza in corso, un componente[8] del comitato esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nonché consigliere del Ministro della Salute Roberto Speranza, dichiarava che «le mascherine alle persone sane non servono. Servono per proteggere le persone malate e servono per proteggere il personale sanitario». Ora, è lecito domandarsi cosa queste comunicazioni, che sono “ufficiali e pubbliche” abbiano voluto (e vogliano) trasmettere, e quali reazioni possano, più o meno consapevolmente, innescare. Partiamo da questa negazione: le mascherine non servono alle persone sane. Cosa significa, qui, servire? Non hanno funzione protettiva? E come fanno, invece, a proteggere i malati? E da cosa li proteggono? E come possono farlo con il personale sanitario? Nel bel mezzo di una pandemia globale in fase ascendente, centrale dovrebbe essere trovare le soluzioni più efficaci per contenere la diffusione del virus; e dunque proteggere chi ancora non l’ha contratto, le “persone sane”, tutte, ed evitare che “gli asintomatici” si trasformino in untori dando “gambe al virus”. I termini utilizzati associano le mascherine all’idea di protezione, ma solo per alcune categorie specifiche (i malati e i sanitari); mentre per la categoria di “persone sane”, si parla di “inutilità”. Attorno agli asintomatici, figure liminali tra salute e malattia che si suppone però agiscano come “sani”, in fatto di mascherine, semplicemente, è calato il silenzio. Ancora oggi sul sito del ministero della Salute le indicazioni sull’uso della mascherina prescrivono di indossarla «solo se sospetti di aver contratto il nuovo coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti, oppure se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo coronavirus. […] Inoltre, la mascherina non è necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie». In assenza di sintomi. Dunque le indicazioni degli enti che si occupano di salute pubblica e prevenzione (e di conseguenza della gestione della pandemia) non hanno lasciato spazio ai dubbi: le “persone sane”, o quelle “in assenza di sintomi”, non hanno bisogno di utilizzarle. Non hanno quindi la necessità non solo di proteggersi, ma nemmeno possono, o devono, proteggere gli altri. Nessuna relazione di reciprocità tra auto-protezione e protezione dell’altro è così stata riconosciuta attraverso l’uso di questo dispositivo. Un po’ come se sul finire degli anni ’80 del Novecento, nel pieno dell’epidemia da HIV, si fosse scoraggiato l’uso del preservativo tra le persone sane, e si fosse fatto appello alla fedeltà coniugale e all’astinenza come unica pratica di protezione (cosa che peraltro avvenne).
L’invocazione a “restare a casa”, all’astinenza dalla società, come misura legittima ed efficace nel porre la giusta distanza di sicurezza tra le persone, occulta come questa stessa distanza, questo confine tra lo “spazio sicuro delle nostre case” e il mondo esterno in cui il virus è in circolazione venga costantemente negoziato e oltrepassato: il supermercato, la farmacia, la metropolitana, l’androne di casa, il pianerottolo, diventano punti di passaggio e di incrocio in cui la retorica del righello — con cui tenere il metro di distanza — perde ogni efficacia applicativa. Ma vulnerabilità, prossimità e responsabilità sono in una relazione di reciprocità. In uno studio recentissimo intitolato “Promoting simple do-it-yourself masks: an urgent intervention for COVID-19 mitigation” cinque fisici spiegano come l’utilizzo delle mascherine, anche quelle autoprodotte a casa, come un qualsiasi dispositivo che indossato (sciarpa, bandana, buff…) copra le vie respiratorie, riduca in modo significativo la trasmissione delle “droplets” con carica virale e si configuri con un’efficacia del tutto analoga a quella del “distanziamento sociale” e delle misure di igiene nel limitare la diffusione del contagio (Samwald et al. 2020). Le evidenze, scientifiche, dell’efficacia di questo strumento sono state messe a disposizione in un documento di libero accesso che raccoglie i 34 studi più recenti sul tema. Cosa accadrà nelle prossime settimane? Se i dati del MIT verranno confermati, possiamo aspettarci un appello da parte dell’OMS e del Ministero della Salute ad un uso massiccio delle mascherine, ma da un punto di vista culturale, immaginare come risponderanno le persone, nel nostro Paese, così come nel resto del mondo, nelle prossime settimane e nel dopo emergenza, è una sfida tutt’altro che semplice. L’efficacia delle misure che verranno adottate dipenderà da una serie molto complessa di fattori, tra cui giocherà certamente anche la retorica comunicativa che ha costruito i discorsi sull’efficacia/inefficacia dei dispositivi di protezione individuale, e che abbiamo avuto solo modo di intravvedere per le mascherine.
Bibliografia
Bourouiba, L. (2020), Turbulent Gas Clouds and Respiratory Pathogen Emissions. Potential Implications for Reducing Transmission of COVID-19. In JAMA. doi:10.1001/jama.2020.4756
Burgess, A., Horii, M., (2012), Risk, ritual and health responsibilisation: Japan’s “safety blanket’s surgical face mask-wearing”. In Sociology of health & illness, 34(8)
Calhoun, C. (2010), The Public Sphere in the Field of Power. Social Science History, 34(3), 301–335. doi: 10.1017/S0145553200011287
Feng, S., et al., (2020), Rational use of face masks in the COVID-19 pandemic. In The Lancet.
https://www.thelancet.com/journals/lanres/article/PIIS2213-2600(20)30134-X/fulltext
Finucane, M. L., et al., (2000), Gender, race, and perceived risk: the `white male’ effect, in Health, Risk & Society, vol 2, n° 2. http://www.stat.columbia.edu/~gelman/stuff_for_blog/finucane.pdf
Horii, M. (2014), Why Do the Japanese Wear Masks? A short historical review. In The Electronic Journal of Contemporary Japanese Studies, Volume 14, Issue 2
Niola F. (2014), Il concetto di “emergenza” e le declinazioni del potere straordinario. In diritto.it. https://www.diritto.it/il-concetto-di-emergenza-e-le-declinazioni-del-potere-straordinario/
Samwald, M., et al., (2020), Promoting simple do-it-yourself masks: an urgent intervention for COVID-19 mitigation. In Medium, https://medium.com/@matthiassamwald/promoting-simple-do-it-yourself-masks-an-urgent-i
[1] Jeremy Howard, research scientist all’Università di San Francisco, “Simple DIY masks could help flatten the curve. We should all wear them in public”, Washington Post, 28/03/2020.
[2] Lydia Bourouiba, “Turbulent Gas Clouds and Respiratory Pathogen Emissions. Potential Implications for Reducing Transmission of COVID-19”
[3] Video del dottor Alessandro Gasbarrini, direttore di Chirurgia vertebrale a indirizzo oncologico e degenerativo dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna. https://youtu.be/Mpv83TbQ2PQ
[5] Si veda l’articolo su The Lancet https://medium.com/@matthiassamwald/promoting-simple-do-it-yourself-masks-an-urgent-intervention-for-covid-19-mitigation-14da4100f429
[6] Il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri
[7] Massimo Arlotti, commissario straordinario per gestire l’emergenza Coronavirus a San Marino.
[8] Walter Ricciardi, Professore Ordinario di Igiene e direttore del Dipartimento di Sanità Pubblica del Policlinico Gemelli di Roma