Duecento anni dopo, il nome di Karl Marx sta alla nostra epoca come la forza lavoro sta al capitalismo delle piattaforme. La sua filosofia ci permette di aggredire il problema del nostro tempo: il reddito di base.
Tanto più il lavoro è precario e povero, tanto più si invoca il Lavoro con la maiuscola. Esiste un rapporto direttamente proporzionale tra la constatazione dolorosa dello sfruttamento praticato da un lavoro miserabile e la moltiplicazione degli appelli a un lavoro idealizzato in cui la persona troverebbe la propria realizzazione, oltre che la dignità. Salvo poi constatare che il lavoro che salva è lo stesso che condanna allo sfruttamento.
Oggi lavoro e lavoratori sono considerati sinonimi. In questo equivoco, tipico della cultura lavorista del lavoro, si finisce per naturalizzarlo, confondendo il soggetto dell’attività con l’oggetto della sua produzione.
Da un lato si attribuisce al lavoro la capacità di esprimere l’essenza umana dell’uomo. Dall’altro lato vi si riconosce l’alienazione di questa essenza. Ciò non toglie che il lavoro dovrebbe esprimere un domani ciò che non può fare oggi. Risorgerebbe dalle ceneri e, in diverse condizioni, il lavoro che oggi sfrutta domani salverà lo sfruttato.
Allo strumento dello sfruttamento, si attribuisce il ruolo di emancipazione dallo sfruttamento.
Siamo ostaggi di un paradosso. Proviamo a uscirne con Karl Marx.
Marx prossimo nostro
Quest’anno ricorre il suo duecentesimo anniversario dalla nascita. È almeno da un decennio, a furia di copertine del Times e dell’Economist, che la si celebra. Marx è inteso come un sociologo che ha anticipato la globalizzazione, profeta barbuto che “aveva ragione” sul fatto che il capitalismo è sempre in crisi. Oggi è il giovane filosofo che scriveva manifesti comunisti, come si vede nel film di Raul Peck.
Di solito Marx è inteso come filosofo del capitale o come teorico del lavoro. Per noi è il filosofo del conflitto tra capitale e forza lavoro.
La distinzione tra lavoro e forza lavoro è decisiva per affrontare il paradosso in cui ci troviamo. Partiamo dalla lingua che usiamo. In italiano abbiamo una sola parola per indicare cose diverse: il lavoro come impiego o prestazione, oggetto o merce di una produzione “alienata” o “sfruttata”, e il lavoro come espressione della parte più “autentica”, “dignitosa”, in cui la persona trova la propria realizzazione.
Il tedesco permette di sciogliere questo nodo. Marx parla di Arbeitskraft: forza lavoro. Questa parola indica il processo o l’operazione che porta alla produzione di un oggetto, non il risultato di un lavoro (cioè Werk, in tedesco, o Work in inglese). La forza lavoro è l’attività di una produzione effettiva in corso, considerata nell’atto di dirigersi verso uno scopo che non ha ancora raggiunto.
Si rovescia così la logica che considera il prodotto finale più importante del processo necessario per produrlo. L’atto della produzione è un momento del divenire, non la sua principale finalità. Arbeitskraft si riferisce a ciò che è invisibile, il processo, ma non lo riduce a un oggetto: il lavoro-merce. Non si tratta di preferire l’uno all’altro, ma di comprendere la dialettica che lega termini diversi nello stesso concetto: da un lato c’è la potenza [Kraft], dall’altro lato c’è il processo del lavoro [Arbeit]; davanti, e contro, c’è il lavoro [Werk]. La forza lavoro si vende ed è ridotta a merce. Ma non per questo si esaurisce. Si riproduce come potenza, si sviluppa come processo, crea il plusvalore. Se non lo facesse, saremmo tutti morti.
La forza lavoro – posseduta dal lavoratore e, in generale, da tutti gli esseri umani – è la facoltà del lavoro vivo. Per questa ragione è quella specialissima “merce” ricercata dal capitalismo. Senza la quale il capitalismo non può dirsi tale. Senza la quale non esiste nemmeno il conflitto di cui esso è il prodotto.
Questa è l’intuizione folgorante di Marx.
Vita da rider, e non solo
La distinzione tra lavoro e forza lavoro permette di capire come funziona il capitalismo delle piattaforme. Nell’economia digitale non si parla più di lavoro ma di prestazione. Siamo passati dal concetto di work a quello di gig, che significa prestazione, spettacolo e “lavoretto”. La radice linguistica è diversa: non è più quella greco-latina di ponoso labor. Si parla di “lavoretto” (gig), qualcosa di estraneo al lavoro, quindi alla retribuzione, al contratto. Gig è inoltre una prestazione esistenziale, fisica, energetica, estetica.
Non per questo è scomparsa la distinzione tra forza lavoro e lavoro.
La prestazione singola e generica, basata sullo sforzo fisico e mentale, l’uso del tempo per finalità estranee a quelle del soggetto impegnato, etero-diretto da una volontà codificata attraverso l’intermediazione di un algoritmo, vanno considerati un lavoro. Il lavoro – anche sotto forma di cottimo – va riportato alla tipologia contrattuale subordinata o autonoma di riferimento.
Questo discorso è valido per l’attività dei ciclofattorini (“riders”) delle consegne a domicilio tramite piattaforme digitali. Se ne parla molto anche in Italia. Nel momento in cui accettano di fare una consegna, si “loggano” alla piattaforma, dipendono da un algoritmo, rientrano in un rapporto di lavoro subordinato. Eseguono le mansioni stabilite da un datore di lavoro secondo i suoi termini e modalità. Sono lavoratori subordinati. Per questa ragione chiedono di essere tutelati: un salario, un’assicurazione, i contributi.
Alla base della loro attività esiste una libertà di accettare, e rifiutare, una mansione.
L’obiezione delle piattaforme al riconoscimento della subordinazione dei riders è: se sono liberi, allora non sono subordinati, sono freelance. Fanno un “lavoretto”, non un “lavoro”. È l’imbroglio di Uber con i suoi autisti. Si trascura il fatto che la libertà è sempre della forza lavoro, sia subordinato che freelance. Senza di essa, le piattaforme non esisterebbero. Le piattaforme la gestiscono per mettere in concorrenza i lavoratori – attraverso un sistema algoritmico della reputazione e della classificazione delle prestazioni. Le avanguardie dei lavoratori digitali vogliono invece che la libertà sia tutelata anche attraverso la definizione di un rapporto di lavoro regolato da un contratto.
Non è detto che ciò che vale per i riders, o per gli autisti di Uber, valga per i lavoratori digitali che operano su altre piattaforme. Una traduttrice che cerca una commissione in un marketplace digitale è una freelance a cui va garantito un equo compenso. È una lavoratrice autonoma, chiede che la sua prestazione sia tutelata, a cominciare dai tempi di pagamento. Non tutti possono essere subordinati, ma certo tutti hanno bisogno di tutele e reddito perché la loro forza lavoro produce un profitto per i committenti e i proprietari degli algoritmi.
Questo ragionamento è valido per i “riders”. Non consegneranno pizze a vita, così come non fanno solo il lavoro dei ciclo-fattorini. Considerati i guadagni medi, questo è un secondo o un terzo lavoro. Anche se, con la crisi, per molti è il primo. Le piattaforme permettono di guadagnare, per questo hanno successo. Il rischio è che queste persone passino la vita saltando da una piattaforma all’altra, da un precariato a un altro, alla disperata ricerca di un reddito.
A cosa serve il reddito di base oggi
È necessaria una strategia complessa: una politica. Riconoscere la subordinazione quando si dà materialmente nel rapporto di lavoro – come per i riders; stabilire un nucleo di diritti sociali universali per tutti – dentro e oltre il lavoro digitale, subordinato o autonomo. E, visto che il discorso sul reddito di base incondizionato è ricorrente nell’economia digitale, è necessario immaginare un reddito indipendentemente dalla tipologia del rapporto di lavoro.
Come si finanzia?
Ad esempio tassando tutte le operazioni che producono profitto. Non è l’unico modo, occorre una riforma progressiva del sistema fiscale a livello sovranazionale e un decisivo spostamento della ricchezza dalle orbite della finanza alla terra.
Il vasto programma può essere realizzato a partire dagli elementi più semplici: visto che è la forza lavoro dei clickworkers a muovere la macchina, allora che la macchina cominci a pagarla. Se è la facoltà più importante dell’essere umano, allora che sia riconosciuta anche dal punto di vista materiale.
Il reddito è sia una remunerazione per il lavoro che facciamo giornalmente, ed è invisibile, sia un diritto universale da riconoscere alla forza lavoro.
A chi attacca il ritornello: è l’impresa che crea il lavoro, noi rispondiamo che quell’impresa non esiste senza forza lavoro. E che prima viene la forza lavoro, poi il lavoro.
La nostra è l’epoca della forza lavoro. Ma abbiamo un problema. La nostra attività non è misurabile. Di più: è invisibile. Lo vediamo sulle piattaforme: su Facebook produciamo un valore 24 ore su 24, sette giorni su sette. Dicono che è un gioco. Ci intratteniamo con gli amici, ci mettiamo in vetrina. Siamo la merce di noi stessi, lavoriamo gratis per Mr. Zuckerberg che incassa i profitti dall’auto-profilazione pubblicitaria. Questa è la forza lavoro messa all’opera, non misurabile nei termini di “posti di lavoro”, ma come relazioni, condivisioni, produzione di contenuti.
Oggi il plusvalore è prodotto dalla dismisura della forza lavoro, ma la forza lavoro resta nel lato oscuro: contribuisce alla produzione della ricchezza più grande della storia, ma non è nemmeno vista. Il plusvalore è prodotto da una forza lavoro che non appare anche se è incarnata nel corpo e nella mente di tutti, indipendentemente dalla nostra identità di lavoratori e di produttori.
Dentro l’algoritmo ci siamo noi, la tecnologia è ibridata con il corpo e la mente. La forza lavoro è una “macchina combinata”. Senza di noi la macchina non parte.
Reddito ora
Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto molti cambiamenti in Italia. Rispetto al nostro discorso sul reddito, sono particolarmente rilevanti. Il Movimento 5 Stelle, un partito con il 32 per cento dei voti che intende istituire un “reddito di cittadinanza”, in realtà un sussidio decrescente vincolato all’obbligo del reinserimento lavorativo di precari e disoccupati italiani, probabilmente non degli stranieri residenti. Il discorso sul reddito è inteso come sostegno agli esclusi per aiutarli a tornare a essere sfruttati da una macchina che produce lavoretti.
Con ogni probabilità questo approccio riscuoterà consenso. Il populista crede che il reddito sia una forma di compensazione al lavoro perduto; il lavorista ritiene che debba compensare i periodi di non lavoro e servire per immettere sul mercato del lavoro chi ha perso il lavoro. Nel campo dei liberisti è in corso una battaglia: la maggioranza dei dominanti è convinta che il “reddito” dei Cinque Stelle sia una misura “assistenzialistica”: lo Stato paga il precario lazzarone per stare “seduto sul divano”.
Ideologia al servizio di una battaglia inutile contro i Cinque Stelle e il governo “sovranista”. Da liberisti, e populisti, i Cinque Stelle pensano che il loro “reddito” sia una misura per i “poveri” finalizzata a trasformarli in un’impresa di se stessi. E così sarà inteso da chi li ha votati.
Le prospettive populiste, liberiste e lavoriste, variamente combinate, renderanno più infernale la nostra permanenza sulla terra.
Il reddito di base, individuale, incondizionato, universale è l’alternativa. È un’altra espressione per dire comunismo. È l’antitesi per combattere il momento populista della politica, tutta la politica contemporanea che intende moltiplicare la miseria attraverso l’imposizione obbligatoria del lavoro precario e povero all’intera popolazione attiva esistente sulla terra.
Il reddito è la misura ideale capace di iniziare a dare una forma al paradosso della forza lavoro motore del processo produttivo, ma invisibile. Dal punto di vista pratico può dare una forma alla sproporzione della forza lavoro; significa attaccare la partizione tra il profitto e il salario, tra lavoro vivo e lavoro morto, tra valore e plusvalore che oggi è tutto a sfavore dei lavoratori e dei cittadini.
Il reddito non è una forma di sostituzione del lavoro miserabile. È il riconoscimento approssimativo, e inconcluso, della ricchezza che siamo: una forza lavoro.