Marsovo Pole

Pubblichiamo un reportage dalla manifestazione anti-corruzione tenutasi il 12 giugno a Marsovo Pole, a San Pietroburgo, durante la quale sono stati arrestati 900 manifestanti.

Vivo in Russia dall’aprile 2016. Ci sono arrivato dopo aver ottenuto un’offerta lavorativa via Skype, come insegnante di inglese. Sono un italiano-in-Russia atipico: nella maggior parte dei casi gli italiani che vengono qui hanno una laurea in russo e un livello di lingua già notevole, mentre io sono arrivato con nessuna conoscenza di russo e tuttora lo parlo poco.

Approdato a Mosca, sei mesi dopo mi sono trasferito a San Pietroburgo, città più piccola e più “europea”, dicono.

Da anni sono appassionato di fotografia. A momenti alterni l’ho praticata intensamente, ci ho anche lavorato per alcuni mesi, l’ho accantonata per qualche anno finché, ultimamente, non è tornata ad essere importante nella mia vita.

Qualche giorno prima del 12 giugno 2017 ero uscito con una mia amica a prendere il sole in riva alla Neva. Mi ha raccontato di Aleksei Navalny, attivista e politico russo, quarantenne, tra i principali esponenti dell’opposizione russa. Dal 2008, Navalny capeggia un movimento anti-corruzione le cui indagini vedono protagonista il primo ministro Dmitri Medvedev, accusato dall’opposizione di controllare un impero attraverso una rete di organizzazioni no-profit.

Navalny attraverso i social aveva invitato le masse a manifestare il 12 giugno contro la corruzione, e più in generale contro il governo e a favore della democrazia. La manifestazione non sarebbe stata autorizzata, il che in Russia comporta il rischio di arresto.

La data della protesta è stata fatta coincidere con la Giornata della Russia, una ricorrenza iniziata con la cosiddetta “dichiarazione di sovranità” del 1990, che ha dato inizio alla riforma della costituzione.

Pare sia anche stato chiesto ai manifestanti di portare in strada la bandiera russa invece che gli striscioni: per ragioni evidentemente simboliche, ma anche perché, forse, facendo una cosa normalissima vista la ricorrenza, sarebbe stato più difficile essere contestati dalle autorità. Il luogo del raduno sarebbe stato il pietroburghese Marsovo Pole (il Campo di Marte), un parco un tempo terreno d’addestramento militare, dal 1917 memoriale dei caduti della rivoluzione. La festa ufficiale della Giornata della Russia si celebra invece in luoghi più centrali, come la Piazza del Palazzo e la Prospettiva Nevsky.

Così il 12 giugno, in parte incuriosito e in parte rassicurato dalla mia condizione di non-russo, sono salito sulla Marshrutka, il minibus russo, e sono andato a Marsovo Pole con la mia fotocamera e un obiettivo nuovo che volevo provare.

Appena arrivato vedo subito palloncini e bandiere russe: di più sulla destra, di meno sulla sinistra. 

Mi dirigo a sinistra e mi ritrovo nel mezzo di una folla pacifica ma animata, che cresce di numero lentamente ma con costanza. È una folla multiforme: anziani, giovani, un sacco di fotografi, ragazzi che salgono sul monumento centrale a urlare slogan e farsi riprendere. Ci sono poliziotti in nero che si spostano qua e là, ora per liberare il monumento, ora per formare cordoni, ora per portare via gente, ma tutto si svolge perlopiù in modo tranquillo. Mi dico che sono i partecipanti particolarmente vivaci ad essere portati via, e che la polizia li sta semplicemente allontanando dal corteo. L’energia e la bellezza della folla hanno la meglio, l’idea di andare via non mi sfiora.

Faccio un po’ di foto, trattenendomi forse un’oretta, finché la polizia non forma un cordone che circonda il pezzo di folla in cui mi trovo io. 

Ci ritroviamo tutti pressati l’uno contro l’altro; io tengo la fotocamera al livello del mento. 

Ho i poliziotti a due metri, ne approfitto per scattare un paio di primi piani mentre mi chiedo se e quando la pressa si riaprirà per darmi una via di fuga. Poco dopo il cordone si apre effettivamente, ma solo per far entrare altri caschi neri. 

Portano via una donna a caso, un uomo a caso, me e altre persone.

Arrivato al bordo del parco, tenuto sempre sottobraccio, mi accompagnano vicino a un bus. Chiedo al poliziotto se parla inglese, lui risponde no ma chiede aiuto a un suo collega. Il collega parla inglese e gli chiedo cosa stia succedendo.

«Eri nel gruppo rivoluzionario» dice lui.

«Ma io sono straniero, non me ne importa niente, guardavo solo».

«Ho capito, lo potrai spiegare in commissariato, con un interprete e il tuo avvocato».

A questo punto, mentre guardano da un’altra parte, io formatto la scheda della fotocamera.

Dopo un po’ il poliziotto mi lascia il braccio. Torno alla carica:

«Scusi, io non sto nemmeno capendo quello che dicono le persone intorno. Non c’entro niente, non potrei semplicemente andare a casa?»

«No».

Ci fanno salire sul bus, c’è una signora sulla sessantina che avevo fotografato, ragazzi giovani, anche di 16 anni, e un uomo, forse più che sessantenne, con un labbro rotto.

Sul bus che va riempiendosi si scherza sulla situazione, siamo circa quaranta.

Chiedo al mio vicino se parla inglese, lui mi rassicura dicendomi che per legge non possono trattenermi per più di tre ore. Però non ho il passaporto con me, e questo potrebbe essere un problema: con il passaporto, dopo l’identificazione e aver appurato che sono straniero, la polizia potrebbe rilasciarmi subito, magari dopo un paio di domande.

Inizio il giro di messaggi chiedi-aiuto su Whatsapp e prego che la batteria mi regga.

Attendiamo sul bus a lungo, poi si parte, battute varie. Scusi, può lasciarmi alla fermata?

Si sparge la voce che sono italiano, si avvicinano altri ragazzi a parlarmi: Mi chiamo… – Hai paura? – è una cosa buona che tu sia straniero – Ma che ci facevi là?! – Ah, non sei russo? I am very sorry, this is very funny. Welcome to Russia! – Can I have your Facebook? – Will you drink Russian vodka with us when we are free?

Parecchio tempo dopo siamo davanti al commissariato, e aspettiamo ancora sul bus. Intanto il mio padrone di casa ha portato il mio passaporto alla polizia, mettendo una buona parola per me. Riesco a contattare il consolato e, dopo aver spiegato che ero lì solo per scattare qualche foto, mi chiedono: 

«Le foto le ha con sé?»

«No, le ho cancellate».

«Bene. L’hanno vista mentre le cancellava?»

«No».

«Bene».

Si inizia ad attuare il “protocollo”. A gruppetti veniamo portati dal bus in commissariato. Il bus inizia a svuotarsi.

È il mio turno, mi portano in un ufficio dove due poliziotti in borghese mi fanno domande:

«Che ci facevi là?»

«Ho visto le bandiere e i palloncini e mi sono avvicinato. Oggi è la Giornata della Russia, non ci vedevo niente di male».

«Appunto, è la Giornata della Russia e tu sei italiano, che ti importa?»

«Ma è una cosa culturale, mi sembrava interessante!»

«Apri lo zaino, voglio vedere tutto quello che c’è dentro».

«OK». (vedono la fotocamera, spiego che mi piace la fotografia)

«Mostrami le foto».

«Le ho cancellate». (mostro l’assenza di foto)

«Le hai cancellate? Ti piace la fotografia e hai cancellato le foto?»

«Senti, sai perché sono uscito di casa oggi? Per provare quest’obiettivo nuovo».

Il poliziotto annuisce, mi sa che mi crede e questo è bene. Proseguo.

«Ho fatto forse cinque foto, la lente era bagnata per la pioggia e non mi erano piaciute. Le ho cancellate».

Il poliziotto ha l’espressione di chi non crede.

«Ecco, prendi il mio telefono, guarda il mio Instagram, ci sono solo ritratti!»

«Non mi è permesso prendere niente».

«Quando il tuo collega ha detto che ‘ero nel gruppo rivoluzionario’ mi sono spaventato e le ho cancellate. Non mi importa niente della politica russa».

Poi in due mi chiedono: «Do you know Navalny?»

«Chto Navalny?, Cos’è Navalny?» rispondo fingendo totale ignoranza, declino il cognome come fosse un sostantivo.

«Navalny is bla bla bla… Maybe you take money from Navalny?»

Scherzano, ma forse nemmeno troppo.

«No, I only know Putin».

«Maybe you take money from Putin?!»

Ora scherzano.

«If I had money I would not be here!»

Rispondo allo scherzo ma non so se lo capiscono.

Torno in sala d’attesa e mi portano in un’altra stanza per l’identificazione, cioè per farmi firmare carte e prendermi le impronte. La pratica è lunghissima, soprattutto se avviene mentre tre poliziotti parlano tra loro in russo e tu capisci poco o niente. Intanto, mi fanno altre domande.

«E sei musulmano, magari?»

«No, cristiano. Dici per la barba?»

«Mmh, mah, forse».

«No, è che mi piace la barba. E anche alle ragazze».

Poi il nulla. Attendo all’entrata del commissariato, io e altri poliziotti, battute varie: Welcome to Russia!.

«So, what happens now?»

«Now? Prison!» (sorride)

«Woow, for so little? I didn’t do anything».

«Mmh, I don’t know, maybe you did something!»

Poi quei pochi che parlano inglese spariscono e resto io e sei poliziotti monolingua, che chiacchierano tra loro.

Nessuno mi dice niente, tutti i miei compagni di bus sono spariti e io non ho idea di che succede. Penso di essere rimasto solo, e che tutti gli altri sono andati a casa.

Chiedo ai poliziotti, nel mio russo rotto: Izvinite, mozhno domoy, ne mozhno domoy? (Scusate, possible andare a casa, non possibile andare a casa?), uno di loro rilancia la domanda ad altri Da, mozhno domoy?, nessuna risposta.

«C’è una macchinetta per il cibo, oltre a quella del caffè?»

«Eh, no».

«E un negozio?»

«No».

Poco a poco si concretizza l’idea che sono ancora lì semplicemente perché non sanno cosa fare di me. Attendo. Poi, il telefono quasi morto, mi chiama il consolato e mi chiede di passare il telefono a un poliziotto, ma tutti si rifiutano. Dal consolato chiamano direttamente il commissariato e poco dopo nuovamente me.

«Le serve un interprete ufficiale. Bisogna mettere a verbale quello che faceva lì. Una cosa da venti minuti, faranno le loro verifiche e la liberano».

«E l’interprete?»

«Ne ho trovata una disposta a venire subito, ma vuole trenta euro l’ora, anche per le ore di viaggio, sono circa cento euro. Deve pagarla lei».

«Va bene».

Ho circa tremila rubli, poco meno di cinquanta euro, ma posso raggiungere un bancomat appena mi rilasciano.

Alcuni istanti dopo vengo richiamato nella stanza delle impronte. Mi viene chiesto di stare in piedi davanti a una porta grigia di ferro, ma io capisco che devo aprire la porta grigia di ferro.

«No, non aprire la porta!»

Poi vedo la fotocamera. Mi mettono in mano un aggeggio con dei numeri rotanti plastificati e mi chiedono di tenerlo su. Eto plokho? (Questo è male?), chiedo. Foto.

«Vsyo, go home!»

«And my passport?!»

«Ora te lo do, stai tranquillo».

Libero, dopo quasi sette ore dal mio fermo.

Fuori dall’edificio un poliziotto giovane con un buon inglese mi dirige verso la fermata del bus, ma non capisco niente dalla gioia e cammino, fino alla metro, per tre quarti d’ora. Parlo con degli sconosciuti e con un ragazzo vietnamita che non parla né russo né inglese. Mi viene da correre.

Mando qualche messaggio, poi il telefono si scarica. 

Scatto un selfie nella metro con la fotocamera. Mi dispiace per le foto andate perse, dopo tutto. Magari non sarebbe stato un problema tenerle.

Quel giorno a manifestare al Campo di Marte c’erano tremilacinquecento persone. Circa seicento di queste sono state arrestate – novecento, secondo le associazioni che sostengono Navalny. Navalny stesso, arrestato a Mosca sul pianerottolo di casa mentre usciva a manifestare, è ancora, tre settimane dopo la manifestazione, in un centro di detenzione a Mosca.

Di questi, ho verificato, io ero l’unico straniero. Gli altri quarantacinque che erano sul bus con me, tutti o quasi, sono usciti dal commissariato solo trentacinque ore dopo (nei casi più gravi, da cinque a quindici giorni dopo) passando la notte nei corridoi, dormendo per terra, con materassini e cibo donato da volontari. Non erano andati a casa, erano solo in un’altra sezione del commissariato.

Il giorno dopo sono stati portati in tribunale e un giudice li ha multati di centosessanta euro. In Russia, per molti, è una somma elevata.

Il giorno dopo mi sono dato malato al lavoro, non mi ero ancora ripreso mentalmente.

Cercando su internet ho scoperto che esistono software in grado di recuperare i file persi. Corro in un negozio, compro un lettore di schede. Torno a casa, faccio alcuni tentativi, tanta attesa, ed ecco il miracolo. Le foto sono resuscitate dai morti.

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