Mario Tronti tra politica e Freigeist

Recensione a “Dello spirito libero. Frammenti di vita e di pensiero”.

Friedrich Nietzsche

«Io vengo dalla lotta di classe […] Considero una benedizione di Dio aver potuto partecipare a quella vicenda». A tratti l’affiorare di una sana nostalgia, dipinta su uno sfondo di lucida rassegnazione: è ciò di cui si nutrono questi Frammenti di vita e di pensiero di Mario Tronti. Mai alcuna esaltazione retorica di quel passato che, pure, mitico lo fu davvero.

Il passato del Movimento Operaio organizzato, della lotta di classe che caratterizzò il mondo capitalistico fino allo sgretolamento fatale dell’Unione Sovietica la quale, con le contraddizioni di un «progetto immane» destinato tragicamente alla sconfitta, fu per la borghesia moderna «l’avversario più pericoloso che mai abbia avuto».

Un passato di rivoluzioni e cadute di cui Tronti fu, a suo modo, protagonista. L’autore di Operai e capitale (1966) “scoprì” il punto di vista operaio, il gusto della parzialità di classe contro le rivendicazioni riformiste e universalistiche, nell’ottica di un nesso molto stretto tra teoria e prassi. Fu su quel libro che si forgiò la generazione degli anni ’60 e ’70 che animò il lungo Sessantotto italiano.

Ora, nel pieno dispiegarsi di quello che alcuni suoi vecchi compagni chiamano “capitalismo cognitivo”, Tronti fa il punto e conduce un’indagine eretica dei rapporti di forza tra dominanti e dominati, coniugando in maniera tutt’altro che precaria marxismo e discorso sulla servitù volontaria, analisi storica dell’alienazione e critica del concetto di libertà, politica e spiritualità, nella proposta di un iter teorico che, più che dal leniniano «che fare?», prenda le mosse da un più modesto ma risoluto «da dove cominciare?».

È lo sguardo disincantato di uomo del Novecento, l’operosa resa di fronte all’insignificanza del nostro tempo, a guidare Tronti. Qualcuno ha osservato, in parte non a torto, che a questo Tronti manca una teoria dell’azione, una politica di classe. Altri hanno guardato alla sua rivalutazione del cristianesimo come a una concessione troppo generosa rispetto al ruolo demoniaco che la Chiesa incarna e ha incarnato. Non fosse per la parziale verità di queste annotazioni, direi che esse non colgono forse il punctum dolens di tutta questa questione. E cioè la crisi.

Si pretende troppo da un pensatore quando gli si chiede di misurarsi con i problemi del proprio tempo senza una certa dose di inattuale disperazione. Da un lato, non vediamo neanche l’ombra di un qualche Ottobre alle porte, e il problema della classe si impone allorquando c’è un movimento reale della stessa, non certo quando fa comodo all’elucubratore di turno. Dall’altro, è un bene accettare tattiche, alleanze, compromessi i più lontani dalla propria natura, quindi il pensiero cristiano, e lasciare stare l’atteggiamento schizzinoso di chi ha studiato sui manuali del buon rivoluzionario. Non preoccupiamoci se l’oggetto che gettiamo tra gli ingranaggi per inceppare la macchina sia una chiave inglese oppure un piede di porco.

In verità, su quale sia la macchina da inceppare, il libro non lascia spazio a equivoci. Anzi, ne fa un’analisi essenziale, senza preoccupazioni ossessive circa le trasformazioni strutturali che l’hanno investita negli ultimi decenni, semmai interpretando queste trasformazioni, al limite, come un consolidamento del meccanismo di comando. Che le merci circolanti siano pezzi di acciaio o conoscenze raffinate, davvero poca è la differenza, rileva il filosofo. Ciò che conta è che c’è sempre il predominio delle cose sulle persone, di un meccanismo sull’intera società. È ancora oggi in quella specifica «personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti sociali», per cui l’oggetto si fa hegelianamente soggetto storico riproducendo a livello fenomenico, in forma rovesciata, il rapporto sociale, che si determina l’essenza del capitalismo. Il tavolo, diventato valore di scambio, balla. Letteralmente. Non solo rispecchia, ma domina. «L’uomo si fa subalterno alla tecnica, mosso, guidato, dominato, dal mondo delle merci».

Tronti è molto chiaro su questo punto: il potere, oggi, ha tratti assoluti e sovrani. Questa presa di distanza, dall’analitica foucaultiana del potere, rispecchia precisamente lo spirito di pensatore del Novecento che Tronti incarna. È un punto decisivo: da questa assenza di dialogo con l’analitica del potere deriva il rivolgimento dell’autore verso l’interiorità; egli dice esplicitamente che l’ascesi, il potere su di sé, è la vera arma contro il potere come meccanismo assoluto ed esteriore (ma sulla pars costruens tornerò a breve). In questo consiste la singolarità ma anche il limite di questo libro (come di tutto il Tronti maturo), che non considera determinante l’aspetto produttivo e soggettivante del potere, rischiando di appiattire quest’ultimo sulla categoria di dominio.

Il nocciolo del problema, l’essenza del potere, per Tronti, ha a che fare piuttosto con la nozione di servitù volontaria, nel senso di un’assuefazione consuetudinaria alle proprie abitudini di assoggettamento, determinante un desiderio di essere sovrastati dal potere. La dittatura della maggioranza nella quale ci siamo imbrigliati, dopo che «l’homo democraticus è sbarcato sul nostro continente insieme agli eserciti alleati, e sotto le loro bombe», è una grandiosa forma di servitù volontaria. Dal momento che il Movimento Operaio è rimasto fregato nella sua “corsa al Moderno”, non accorgendosi che nulla è più moderno del capitalismo, la borghesia ha potuto attuare il suo sogno compiutamente: la democrazia reale, ovvero la forma politica in cui l’opinione maggioritaria si presenta all’individuo sotto le vesti di un meccanismo totalitario e oggettivo, un puro dato di realtà, un «destino».

Si tratta, naturalmente, di una verità che ci riguarda estremamente da vicino. L’esistenza del singolo e della comunità oggi effettivamente appaiono determinate dal movimento di entità tanto più reali quanto più ci sottomettiamo ad esse, e sembra volatilizzatosi quel sentimento di poter decidere riguardo le nostre vite. «Se non si può abbattere il proprio destino, la scelta possibile è farci liberi da esso» sentenzia l’autore.

In che senso si può parlare di libertà nel mondo in cui la libertà stessa si realizza tristemente nella circolazione delle merci e delle persone mercificate? Tronti afferma, con Luporini, che la Libertà si guadagna nel pensiero, e precisamente nella consapevolezza della propria insufficienza dinanzi a un Destino che ci sovrasta. La pars costruens del libro è sintetizzata in questo concetto. Prima di immaginare una possibile azione di classe, è necessario pensare la propria individualità come determinata da un meccanismo tecnico, cogliere l’apparire, in forma rovesciata, dei rapporti tra le persone nei rapporti fra cose, elaborare il frazionamento psichico soggettivo come forma di alienazione.

È una questione di spiritualità, di interiorità: non però fuga mundi, ma coltivazione di sé contro il mondo. Questo è il conflitto tragico dello spirito libero contro l’opinione della maggioranza, la libertà come conquista, contro l’asfissiante dittatura della merce. Nietzsche fu il grande pensatore dello spirito libero: egli ci dice che ciò che caratterizza il Freigeist è la grande salute, ovvero quella sovrabbondanza che, nella sua apertura a «molti e opposti modi di pensare», cela sempre il pericolo di innamorarsi del proprio sentiero, con la possibilità di restarvi incagliati per effetto dell’inebriamento. Lapidariamente, osserva Tronti, per riassumere la differenza tra lo spirito libero e l’uomo dotto, suo grande nemico: «Il pigro attivo è ossessionato dal futuro, l’operoso contemplativo è rassicurato dal passato».

La tesi di Tronti è che «la spiritualità è un linguaggio della crisi»; parole come «ascesi, vigilanza, acedia, pazienza, ascolto, meditazione, contemplazione, preghiera, silenzio, povertà, solitudine» sono tutte parole alternative alla «società della fretta, del tempo accelerato, della corsa quotidiana, dell’arrivare in tempo». Le logiche di produzione, circolazione, distribuzione e consumo riportano tutto al mero calcolo utilitaristico, riducendo a tempo morto qualsiasi pratica di riflessione interiore. Il tempo libero viene riempito con intrattenimento di qualsiasi tipo, stritolato in una falsa socialità, privato della sua potenziale pericolosità nei confronti dell’esercizio del comando.

Sebbene, come ci insegna Panikkar, la spiritualità ha una storia lunga, di cui la Grecia è solo un passaggio, la coincidenza tra spirito libero e conflitto fa parte della visione del mondo ebraico-cristiana. «È quel passaggio, dal cosmico allo storico, che la dimensione umana compie con l’annuncio del Regno di un Dio incarnato».

A questo proposito, il cristianesimo, soprattutto, è fecondamente inattuale. Certo, l’apertura di Tronti al cristianesimo non è scevra da contraddizioni, nella misura in cui nel libro viene affrontato questo tema come se fosse facilmente conciliabile con la concezione nietzschiana di un Freigeist che, nella sua ragione, niente ha a che vedere con l’uomo di fede. È il segno di un pensiero non compiutamente coerentizzato, che fa in modo di non appellarsi direttamente alla dimensione comunitaria dell’esistenza, salvo poi recuperarla proprio nell’esplorazione della spiritualità come conflitto, un conflitto che evidentemente non può rivelarsi mai puramente ascetico (e qui riemerge prepotentemente la problematica del potere di cui sopra).

I due momenti, quello ascetico e quello comunitario, hanno in comune il rifiuto dell’appropriazione individualistica e materialistica (in senso deteriore) dei beni, appropriazione che è proprio quello che il cristiano giustamente dovrebbe rifuggire. Il cristiano è colui che divide il proprio pane con i suoi, appunto, compagni. La denuncia di Cipriano a chi non è in verità padrone dell’oro, perché è l’oro che lo possiede, mette in risalto il carattere di conflitto tra cristianesimo e capitalismo. Non si tratta mai di una demonizzazione della ricchezza, ma dell’invito a farne buon uso, a non essere avari, a non farsi mai dominare dai «beni» ma a fare il «bene». La parabola dei talenti è a suo modo un elogio della ricchezza ben utilizzata. Forse c’è chi è nato per militare e c’è chi è nato per la compassione, riflette Tronti. Ma sta di fatto che questa tensione verso l’altro, questo porsi senza indugio dalla parte dei poveri, è una qualità tipica del rivoluzionario, dello spirito libero. «È meglio essere cristiano senza dirlo, che dirlo senza esserlo».

Dello spirito libero (Il Saggiatore) è uno di quei libri che lasciano uno spazio aperto. Ciò che muove Tronti, come egli stesso ammette, è la «disperazione della ricerca» e in questo senso è possibile scoprire lungo tutta la lettura la precisa volontà di non precludersi alcuna via di indagine, ma di scandagliare le più diverse esperienze teoriche per usarle come strumenti di ricerca, una ricerca appassionata e libera da vincoli ideologici. Libera, appunto, come il pensiero e l’azione di quello spirito che vive l’operosa irrequietezza di non essere in sintonia con il presente.

Tintoretto, Il martirio di San Paolo (particolare)
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