Mare Chiuso di Andrea Segre e Stefano Liberti

Per una memoria dei migranti del ventunesimo secolo.

Tra il 2009 e il 2010 centinaia di richiedenti asilo e rifugiati di origine africana sono stati intercettati nel canale di Sicilia e respinti in Libia dalla marina militare e dalla guardia di finanza italiana. In seguito agli accordi tra il regime del colonnello Gheddafi e il governo Berlusconi, gommoni e imbarcazioni di fortuna, guidati da scafisti senza scrupoli  e carichi fino all’inverosimile di migranti, venivano ricondotte in territorio libico, dove non esisteva alcun diritto di protezione per i respinti e la polizia esercitava indisturbata varie forme di abusi e di violenze.

Nel marzo del 2011, con lo scoppio della civile libica, molti dei migranti rinchiusi nelle carceri fuggirono: alcuni di loro hanno ripreso la strada del mare per cercare di entrare ancora una volta in Italia, altri hanno ripiegato nei campi profughi, come quello di Shousha, allestito dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) nel deserto tunisino.

Nel febbraio del 2012 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha emesso una sentenza di condanna definitiva contro il Governo Italiano, accusato di aver violato la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo per aver respinto in acque internazionali dei cittadini somali ed eritrei.

Sia durante i respingimenti sia nel corso della guerre civili che hanno portato alla caduta dei regimi dittatoriali in Nordafrica, i principali media italiani hanno ripetuto il frame discorsivo dell’invasione, un cliché consolidatosi già dai primi anni Novanta con lo sbarco degli albanesi sulle coste pugliesi.

Mare chiuso (2012), il documentario di Andrea Segre e Stefano Liberti, prodotto da Zalab, racconta queste vicende storiche e geopolitiche attraverso i volti e le parole dei migranti costretti a vivere in condizioni estreme nel deserto tunisino o nei Centri di identificazione e di espulsione (Cie), paradigma biopolitico del moderno, per riprendere le riflessioni di Giorgio Agamben sullo stato d’eccezione. Muovendosi tra il campo di Shousha e le coste meridionali dell’Italia, i due registi lasciano che le vicissitudini e i traumi di questi uomini e di queste donne si svolgano di nuovo davanti alla macchina da presa. La storia dei grandi stravolgimenti si compone di tante microstorie, come la vicenda familiare di Semere, rifugiato a Sousha dopo aver tentato invano la via del mare, e Tisge, arrivata in Italia in attesa di una bambina, che si ricongiungeranno nel finale del film.

Ogni voce, ogni sguardo è intervallato dalle immagini girate con i videofonini dagli stessi migranti durante il loro viaggio verso Lampedusa. Oltre ad essere la prova documentaria di quanto è accaduto, queste immagini sono necessarie all’edificazione di una memoria dei migranti del ventunesimo secolo a cui è stato negato il diritto alla mobilità e al viaggio. Ma queste immagini sgranate fanno anche parte di un archivio audiovisivo con cui gli italiani – un popolo che già a partire dalla fine dell’Ottocento è stato costretto ad emigrare –  dovranno confrontarsi.

[Questa recensione a Mare chiuso è già apparsa sul numero 9 dei Quaderni del CSCI. Rivista annuale di cinema italiano].

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